di Marco Clementi |
Le pericolose implicazioni politiche nascoste dietro l’appello contro la legge sul processo breve
Roberto Saviano ha scritto lo scorso novembre una lettera aperta a Berlusconi contro la legge per il processo breve e la Repubblica on line ha raccolto le firme in suo sostegno. Il documento non è banale; ha aperto, infatti, una nuova pagina in questo martoriato Paese perché riconosce implicitamente a Berlusconi la qualifica di primus super pares (per dirla come i sostenitori del lodo Alfano) o di monarca, mentre Saviano si porrebbe come il suddito, che lo prega di non esercitare il suo potere assoluto in tutta la sua potenza. Saviano, e con lui la Repubblica, sconvolgono i ruoli: scavalcano il presidente della Repubblica, al quale spetta la competenza di apporre la firma su un provvedimento di legge emanato dalle Camere, e svuotano le Camere della loro funzione legislativa. Potremmo dire che siamo di fronte a un ‘colpo di Stato dell’opposizione contro se stessa’, operato con argomentazioni deboli, tanto che lo stesso autore ammette: “Non è una questione di destra o sinistra. Non è una questione politica. Non è una questione ideologica”. Le lettere e gli appelli che i sudditi russi scrivevano allo zar provenivano da gente semplice, che credeva nel monarca-piccolo padre buono, circondato da nobili egoisti e malvagi. Un intellettuale difficilmente cadeva nell’equivoco. Preferiva la prigione, l’esilio interno o la fuga all’estero, da dove continuava a occuparsi del suo Paese. Saviano, mai perseguitato dal potere e protetto dal nostro Stato con una scorta, con il suo appello suggella la stagione di antipolitica condotta da la Repubblica dall’aprile scorso. E lo fa nel modo peggiore: senza incidere, senza assumersi un rischio, senza una coscienza di classe e, a mio parere, privo di senso civico. Si tratta solo di una quarantina di righe scritte in attesa dell’applauso. E niente più.