Dalla critica a una gerarchia socialmente costruita degli anni ’70 alla performance individuale di oggi: il significato di genere stravolto dal postmodernismo neoliberale
Ancora vent’anni fa la psicologa Viviane Burr poteva scrivere che genere è “il significato sociale del sesso” e ruolo di genere è “l’insieme di comportamenti, doveri e aspettative connesso alla condizione maschile o femminile” (1). Il sesso, beh, dovremmo saperlo: è un apparato del corpo umano distinto in maschile e femminile che ha lo scopo evolutivo di produrre gameti, che devono incontrarsi nel corpo femminile per cominciare la generazione di un nuovo essere umano (2).
La definizione sociale di uomo e donna è invece un terreno di conflitto tra i sessi: il femminismo ha innanzitutto negato che la subordinazione a padri e mariti fosse l’autentica natura dell’essere femmina. Di naturale c’è solo l’essere nate con un corpo femminile, mentre i ruoli sociali variano nelle diverse società, e in quelle patriarcali mantengono le donne subordinate. Quello che in italiano le femministe negli anni ’70 chiamavano ‘ruolo sessuale’, in inglese è stato chiamato ‘genere’, parola che si usa in grammatica, connotata dall’arbitrarietà dell’attribuzione di un sesso a (molte) parole. ‘Sesso’ indica l’anatomia, ‘genere’ indica la gerarchia sociale, cosicché l’espressione molto usata ‘parità di genere’ risulta in realtà autocontradditoria, intendendosi la parità tra i sessi.
Il genere sta al sesso come la cultura sta alla natura. Tuttavia il termine ‘genere’ arriva in Italia negli anni ’90 in una versione stravolta dalla filosofia postmodernista (una forma di idealismo filosofico estremo) che lo usa: a) in senso di espressione individuale, mascherando la costruzione sociale dei generi; b) come pietra tombale sulla parola e il concetto di sesso. La premiata ditta Judith Butler & Co. sostiene infatti che anche il sesso è socialmente costruito e che non esiste nulla al di sotto o al di là del ‘genere’: “Non esiste alcun riferimento a un corpo puro che non sia al tempo stesso un’ulteriore formazione di quel corpo” (3).
Ma con quali mattoni? Evidentemente con gli stereotipi sociali legati ai due sessi, come nelle chiarissime parole di uno dei teorici degli Studi di genere (Gender studies), Robert Connell, poi diventato trans con il nome Raewyn: “Sono le persone stesse a costruirsi come maschili o femminili, ogni giorno, nel modo in cui ci comportiamo, noi reclamiamo il nostro posto nell’ordine di genere, oppure reagiamo al posto che in quell’ordine ci viene riservato. La maggior parte delle persone lo fa di buon grado, e spesso trae piacere da questa polarità della differenza. Indossando una giacca di pelle e stivali da motociclista, il mio corpo si dichiara felice di esser maschile, e io coltivo la durezza dei modi, i lati aspri del mio carattere, la determinazione. Indossando, a contrario, un colletto di pizzo e una gonna increspata, il mio corpo si dichiara felice di essere femminile, i miei modi sono aggraziati e coltivo maniere dolci e piacevoli, la ricettività” (4).
Ecco di nuovo l’assegnazione al maschile di durezza e asprezza, e al femminile di frivolezza e ricettività, come nei trattati ottocenteschi di Lombroso e Mantegazza, e così anche in Questioni di genere, molto studiato nelle università, comprese quelle italiane.
‘Genere’ ha però assunto nel gergo postmodernista il significato di irrilevanza del sesso, insieme all’intero mondo materiale (5). Questi intellettuali sostengono infatti che non ci sono solo due sessi, che i sessi (o meglio, i ‘generi’, la parola che usano) sono un continuum, e cambiano il significato politico di ‘genere’ in modo da rendere incomprensibile la precedente analisi femminista, per cui il genere è una gerarchia socialmente costruita in cui il ruolo maschile è dominante su quello femminile. L’uso di ‘genere’ negli anni ‘70 era già una critica sociale. Oggi al posto della ribellione femminile di allora al lavoro casalingo coatto, alla ‘doppia presenza’ che appunto raddoppia l’impegno lavorativo delle donne sposate o conviventi, della consapevolezza che vivere al femminile significa essere sottoposte a un addestramento all’inferiorità, che comprende l’odio di sé, che porta all’accettazione del mito della bellezza, con le sue pratiche alienanti, eccetera eccetera – dicevo, al posto di questa critica sociale il messaggio del ‘nuovo femminismo’ postmodernista (di cui infatti molti uomini sono teorici) è che ‘il genere’ è solo una performance: “Donna è chi donna fa”, o una pura espressione di volontà: “Sono una donna perché mi sento tale” anche se ho la barba (vedi le foto di Danielle Muscato, transattivista) e genitali maschili: sarà quindi – è logico – un pene femminile. Che è transfobico rifiutare, come testimonia la cacciata di gruppi lesbici dai Pride di Vancouver (Canada) e Wellington (Nuova Zelanda), e il blocco in Gran Bretagna di affissioni pubblicitarie con la scritta “Donna = femmina umana adulta” come parte della campagna contro le proposte di modificare il Gender Recognition Act del 2010 che vuole rendere il sesso ininfluente rispetto all’identità di genere.
Se tutto ciò rimanesse nelle sfere del dibattito culturale e della vita privata, poco male. Ma il senso individualizzato di ‘genere’ è diventato oggetto di rivendicazione politica nei “Principi sull’applicazione della legislazione internazionale sui diritti umani in relazione all’orientamento sessuale e all’identità di genere”(2007), detti semplicemente Principi di Yogyakarta, elaborati da avvocati privati (l’International Service for Human Rights), presentati all’Onu, fatti propri dall’ILGA (International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association). Vi si afferma che: “L’identità di genere è intesa come l’esperienza del genere interna, individuale e profondamente sentita di ogni persona. Può corrispondere o meno al sesso assegnato alla nascita e include la percezione personale del proprio corpo (che può comprendere, se scelte liberamente, modifiche dell’aspetto o delle funzioni fisiche con mezzi medici, chirurgici, o altri) e altre espressioni del genere, compresi il modo di vestire, di parlare e le maniere” (6).
Si tratta di una formulazione che vuole proteggere i transessuali e i “transgender”, cioè coloro che “non si identificano con il proprio genere”? Ma queste parole danno per scontato che il genere sia abbinato al sesso, proprio ciò contro cui le femministe si sono ribellate! E non è previsto che ci sia un rifiuto del genere, perché per tutti (“ogni persona”) si tratterebbe di un’“esperienza profonda”. La filosofa dell’Università di Warwick, Rebecca Reilly-Cooper, vi si oppone: “Sono donna non perché ho in me stessa un senso profondo dell’essere donna, ma solo perché sono femmina” (7), e inoltre: “Ho un sesso ma non ho un genere, perché non aderisco agli stereotipi”.
Il riferimento sociale di questo principio sono gli autonominatisi ‘transgender’ (o non-binary), che non vogliono necessariamente cambiare sesso, ma rivendicano la libertà – o meglio l’arbitrarietà – di definirsi uomo oppure donna, maschio o femmina o nessuno dei due (gender non-binary) a prescindere dall’anatomia. Il diritto di autonominarsi maschio o femmina è abbracciato da molti, anche adolescenti, che erroneamente lo ritengono una liberazione dai ruoli sociali maschile e femminile, mentre invece non fanno che confermarne e naturalizzarne la definizione. E i giovani transgender sono in realtà spinti verso la normalizzazione con la transizione all’altro sesso (8).
Il dibattito in Italia è ancora embrionale, perché non è ben compreso che cosa sta dietro al linguaggio delle proposte di legge a firma Cirinnà, Zan, Boldrini, Scalfarotto per inserire nella legge Mancino l’identità di genere, che è definita secondo Yogyakarta: “La percezione che una persona ha di sé come rispondente a un genere, anche se non corrispondente al proprio sesso biologico”. L’etichetta apposta è “antiomotransfobia”, come le leggi già approvate dalle Regioni a guida progressista: Toscana (L.r. 63/2004), Liguria (L.r. 52/2009), Marche (L.r. 8/2010), Sicilia (L.r. 6/2015), Umbria (L.r. 3/2017), Emilia Romagna (L.r. 15/2019). Ma la sostanza è forse l’introduzione nel diritto del concetto che il sesso non conta, e conterebbe solo un arbitrario sentimento di identità che riguarda il genere? Il dibattito va urgentemente aperto.
Infatti i Principi di Yogyakarta sistematicamente confondono le istanze legate all’orientamento sessuale – cioè le rivendicazioni di non punibilità e di riconoscimento giuridico delle relazioni tra persone dello stesso sesso – con quelle legate alla fantomatica identità di genere. E in realtà cancellano simbolicamente l’omosessualità definendola come attrazione per lo stesso genere! Nel doppio mirino di Yogyakarta anche le “terapie di conversione”, in cui pericolosamente si fa un fascio tra quelle rivolte a modificare l’orientamento omosessuale e quelle rivolte a “modificare l’identità di genere”, applicata anche agli ondivaghi minorenni. In Gran Bretagna è già illegale proporre terapie olistiche per far stare bene nel proprio corpo i minori che vogliono fare i transgender, istradati a diventare transessuali dalle cosiddette ‘cliniche del genere’ con il blocco farmacologico della pubertà, sperimentazione che è stata introdotta anche in Italia (9). È un mercato di ormoni e chirurgia su corpi sani in grande espansione.
E così per quanto marziano possa sembrare il discorso che sostituisce il genere postmodernista al sesso materiale, esso è già diventato legge in alcuni Paesi di lingua inglese, come il Canada, alcuni stati USA, Malta e altri, venendo anche adottato in alcuni documenti del Consiglio d’Europa e dall’Unione europea, come la Direttiva 2011/95/UE e le Linee guida sui diritti umani delle persone LGTBI emanate dal Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Unione europea nel 2013 (10).
Sotto Obama, il Dipartimento dell’Istruzione e della Giustizia ha emanato una circolare rivolta alle scuole, minacciate di sospensione dai fondi federali se non riconoscono l’autoidentificazione come maschio o femmina sia nell’accesso agli spazi riservati a un sesso sia nelle attività sportive. La circolare è stata poi ritirata da Trump. La Corte suprema deve decidere nel caso del transgender Aimee Stephens se il Titolo IX della Legge sui diritti civili si applichi anche all’identità di genere, proteggendo quindi al pari dell’etnia e della religione una pura dichiarazione senza riscontro. Stephens è stat* licenziat* per aver voluto indossare l’uniforme lavorativa femminile invece di quella maschile. Su Redline. Contemporary Marxist analysis Lucinda Stoan ha scritto: “Stephens e l’American Civil Liberties Union (ACLU) avrebbero potuto argomentare contro le regole sul vestiario della ditta come discriminatorie in base al sesso. Invece stanno cercando una nuova definizione di ‘sesso’. Vogliono che chiunque dica di essere una donna (come Stephens) sia considerato una donna” (11). Il risultato di una sentenza così argomentata evidentemente non è lo stesso.
Vediamo allora cosa succede in Canada, dove nel 2017 è stata approvata la legge C-16, che emenda il Canadian Human Rights Act e il codice penale aggiungendo appunto l’identità di genere (nonché la più concreta “espressione di genere”) all’elenco dei diritti umani protetti. Invano femministe come Meghan Murphy (www. feministcurrent.com) avevano testimoniato al Parlamento canadese: “Questo linguaggio è un grosso problema perché tratta il genere come una scelta personale. Tratta il genere come fossero i vestiti che indossiamo, o il trucco o il modo di comportarsi o il modo in cui ci si siede” (12).
Le conseguenze di questa cancellazione del sesso fisico, reale, in nome di un ‘genere’ che rappresenta l’ennesima finta scelta nel mondo neoliberale, non sono banali ma cancellano una parte dei progressi che le donne, in quanto sesso, hanno fatto nel corso del Novecento. Si aboliscono con un tratto di penna tutti gli spazi separati, sia quelli in cui si è più vulnerabili, nello spogliarsi, nell’espletare funzioni corporali, nel sonno, sia quelli politici di riunione tra sole donne, sia gli spazi di recupero dalla violenza maschile. Si cancellano poi le quote stabilite per rimediare alla preponderanza del sesso maschile nella politica o nell’economia. È un tema certo controverso questo delle quote, ma risulta assai bizzarro che laddove esse esistono la rappresentanza femminile venga assunta da ‘transgender’, come Lily Madigan nel Labour britannico, maschio biologico in abiti femminili e trucco, che dovrebbe poter rappresentare la sua categoria trans.
In Canada i transattivisti sono riusciti a far cancellare i finanziamenti che la città di Vancouver assegnava a un centro antiviolenza perché ha rifiutato di impiegare un transgender la cui presenza è fortemente inappropriata in un luogo realizzato da donne per donne che hanno bisogno di ricostruire la propria vita dopo violenze maschili. I transattivisti per giunta hanno minacciato di morte le operatrici antiviolenza con una scritta sui muri dello stesso centro, oltre che on line.
Si moltiplicano le autodichiarazioni di “donnità” da parte di autori di reati, anche sessuali, che vengono così portati nelle prigioni femminili; di molestie negli spogliatoi e bagni di negozi, dormitori, piscine, scuole dove il personale non può allontanare gli uomini che, dichiarando di essere donne, “si limitano” a sedersi lì e guardare, cosa che intimidisce e allontana le ragazze e le bambine (13). Tutto questo accade anche negli Stati USA dove le leggi proteggono l’identità di genere. Il caso opposto, in cui le donne si identificano come uomini ottenendo accesso agli spazi maschili, non è evidentemente una facilitazione di violenza, benché anche gli uomini abbiano il proprio senso del pudore che può essere violato dalla presenza femminile.
La resistenza delle donne monta, in Gran Bretagna per opporsi alla nuova versione del Gender Recognition Act che accoglierebbe l’autodichiarazione del sesso, negli altri Paesi contro leggi già approvate. Una raccomandazione di Dentons (lo studio legale più grande al mondo) e della Thomson Reuters Foundation (charity della Reuters che promuove le politiche identitarie) al movimento transattivista è infatti che faccia adottare leggi – in particolare quelle che consentono ai minori di decidere il proprio ‘genere’ – senza dibattito pubblico e usando come “veli di protezione” questioni meno controverse, come i diritti civili delle persone omosessuali (14), ormai assimilati alla battaglia per l’identità di genere persino nell’orrido acronimo inglese SOGI (sexual orientation and gender identity) usato dall’ILGA.
In Gran Bretagna il femminismo si ribella con A Woman’s Place UK (https: //womansplaceuk.org) e anche gay e lesbiche prendono le distanze dal transattivismo – anche per i suoi metodi violenti: girano in rete le foto dell’impiccagione all’ultimo Pride di Londra di un manichino femminile contraddistinto dall’attributo insultante TERF (15) – con la neonata LGB Alliance, che ritiene significativa la distinzione tra sesso e genere confondendo la quale sparisce la legittimità dell’omosessualità. Sono contrari a che nelle scuole si insegni l’innatezza dell’identità di genere, una falsa credenza, direi una sorta di religione, che è veicolo di insicurezza per l’identificazione dei più piccoli, spingendo chi prova sentimenti di attrazione per persone del proprio sesso a credersi “in realtà” un esponente del sesso opposto. (Inutile dire che non esiste alcun locus fisico particolare, nel cervello o altrove, associato al transgenderismo e nemmeno al transessualismo).
Nei rapporti dell’ILGA si legge che l’obiettivo finale, a partire dai famigerati Principi di Yogyakarta, è quello di togliere il sesso dai documenti di identità. Questo però non significherebbe affatto la fine delle discriminazioni contro le donne, ma solo la fine della possibilità di nominarle. Anche gli enti che raccolgono statistiche discutono della proposta.
I media sono generalmente a favore della sostituzione del sesso con il genere – tradotto: le grandi corporation sono a favore. Lo si vede anche in Italia, dove i media minimizzano la direttiva di Obama come se riguardasse solo l’“accesso ai bagni per le persone trans”, quando comprendeva anche la partecipazione agli sport dell’altro sesso con relativi premi e borse di studio universitarie, una questione molto meno chiaramente ‘progressista’.
Il tutto avanza sotto la bandiera della scelta, che porta infine alla richiesta di legittimare trasformazioni del corpo à la carte – benché se ne esiga il pagamento a carico di servizi sanitari, mutue o assicurazioni – adeguando il proprio corpo all’idea che se ne ha. Per Martine Rothblatt, teorica transattivista e transumanista, è questa la “libertà di forma” da perseguire (16).
Dunque che cosa hanno in comune il pene femminile (che non è la clitoride), il licenziamento in Gran Bretagna di Maya Forstater per aver sostenuto che “Donna = femmina umana adulta”, i transgender biologicamente maschi che vincono gare sportive femminili negli USA e a livello mondiale (Rachel McKinnon già due volte nel ciclismo), le cause per discriminazione e violazione dei diritti umani intentate in Canada dalla transgender ‘Jessica’ Yaniv a ben 12 estetiste che hanno rifiutato di fargli una ceretta allo scroto (17), nonché la somministrazione di bloccanti della pubertà ai minori che non possono guidare e votare ma decidere un cambiamento di sesso sì (questo anche in Italia)? Sorprendentemente, si tratta solo del mutamento (politico) del significato di due parole: sesso e genere. Orwell non avrebbe potuto immaginare nulla di più efficace nel ricacciare le donne nel nostro subordinato genere.
1) V. Burr, Psicologia delle differenze di genere, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 164-165. Per approfondimenti vedi D. Danna, Sesso e genere, in uscita per Asterios nella collana Volantini
2) Anticipo le obiezioni postmoderniste: no, i sessi non sono più di due, perché i gameti non sono più di due (maschile e femminile); no, l’esistenza degli intersessuati non smentisce la dicotomia dei sessi, perché appunto condividono caratteristiche sia dell’uno che dell’altro
3) J. Butler, “Excerpt from ‘Introduction’ to Bodies that matter”, in The Gender/Sexuality Reader, a cura di Roger N. Lancaster e Micaela di Leonardo, Londra, Routledge, 1993, pp. 531-542 (p. 537)
4) R.W. Connell, Questioni di genere, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 32
5) Vedi Sokal, Alan e Jean Bricmont, Imposture intellettuali, Milano, Garzanti, 1999
6) È ovvio che il sesso è assegnato alla nascita solo agli intersessuati, mentre per tutti gli altri (più del 99% della popolazione) l’affermazione non ha senso
7) Conferenza Critically examining the doctrine of gender identity, 20 marzo 2016 https://www.youtube.com/watch?v=QPVNxYkawao
8) In Inghilterra l’aumento esponenziale dei minori che ‘cambiano sesso’ è stato da poche decine nel 2010 a 2.590 secondo l’ultimo dato pubblicato, con quasi tre quarti di ragazze; aumenti comparabili si ritrovano in tutti i Paesi scandinavi e in altri di lingua inglese. Vedi anche D. Danna, La piccola principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione, Milano, VandA ePublishing, 2018
9) Vedi il Memorandum of Understanding on Conversion Therapy in the UK, documento ufficiale del sistema sanitario nazionale (2017). Vedi anche D. Danna, I trans-umanisti e i mercanti di ormoni, Paginauno n. 58/2018
10) https://eeas.europa.eu/sites/eeas/files/137584.pdf
11) https://rdln.wordpress.com/2019/12/06/to-advance-civil-rights-oppose-transgender-extremism
12) https://www.cbc.ca/news/politics/transgender-rights-bill-female-born-spaces-1.4110634
13) Vedi le notizie raccolte in https://www.peaktrans.org e http://womenarehuman.com, che contrastano l’affermazione dei transattivisti che nessuno mai avrebbe pensato di dichiararsi donna solo per molestare e commettere altri reati
14) Tuttavia questi autori di tali suggerimenti nel rapporto IGLYO Only adults? Good practices in legal gender recognition for youth scrivono anche che il rapporto non riflette necessariamente le loro posizioni (https://blogs.spectator.co.uk/2019/12/the-document-that-reveals-the-remarkable-tactics-of-trans-lobbyists/)
15) Trans Exclusionary Radical Feminist, cioè l’insulto dei transattivisti alle femministe per la presunta ‘esclusione’ di chi è trans, in realtà per il rifiuto di accettare come donne coloro che hanno un’anatomia maschile – come nella definizione di ‘lesbismo’ come amore tra donne
16) Se ne parla ai congressi USPATH, branca statunitense dell’associazione WPATH che promuove i transgender a livello mondiale (vedi “No menses, no mustache: Gender doctor touts nonbinary hormones & surgery for self-sacrificing youth”, 4 agosto 2017 in https://4thwavenow.com/2017/08/04/no-menses-no-mustache-gender-doctor-touts-nonbinary-hormones-surgery-for-self-sacrificing-youth/)
17) Nonostante Yaniv sia stato condannato a risarcire loro i danni, ha sporto nuovamente causa contro altri saloni di bellezza