Certo bisogna farne di strada/ da una ginnastica di obbedienza/ fino ad un gesto molto più umano/ che ti dia il senso della violenza/ Però bisogna farne altrettanta/ per diventare così coglioni/ da non riuscire più a capire/ che non ci sono poteri buoni. Nella mia ora di libertà, Fabrizio De Andrè
Se si tira dentro la pletora rappresentativa di “Baffi di sego”, un giudice, “sbirri e carabinieri”, “gendarmi/ venuti in sella con le armi”, fanno un buon numero di canzoni. Senza contare il sessantottardo Storia di un impiegato (1973) dove ce n’è per padri castranti, “secondini”, “vostro onore, sei un figlio di troia”, e ancora e ancora. Una cospicua cifra del repertorio deandreiano gravita insomma attorno al tema della pace e, per antitesi, della sua negazione sociale. Abbonda cioè di canzoni antimilitariste strictu senso, considerazioni sul Potere, e sui gangli armati che lo rappresentano/mantengono al riparo di una divisa. Quelle scritte da Fabrizio De Andrè sono, in altre parole, canzoni contro la guerra, ma in senso ampio del termine. A esse appartiene la guerra esemplare “fra gli eserciti” (quella, per intenderci, di cui muore il soldato Piero della canzone omonima); e la guerra per la vita combattuta nei carrugi delle “città vecchie” di ogni latitudine. Lo sterminio indiscriminato degli indiani inermi di Sand Creek come la repressione (altrettanto indiscriminata) operata sugli studenti del maggio francese. È legittimo considerare, secondo De Andrè, guerre e guerre. I conflitti dichiarati – utili alle ipocrite medaglie alla memoria, ai Carlo Martello che tornano, tronfi e ridicoli, dalla battaglia di Poitiers –, i conflitti combattuti sottotraccia nelle periferie urbane di ogni latitudine. Comunque conflitti: uomini contro uomini, idee contro idee, divise (mentali e non) contro divise. Soprusi perpetrati dai potenti ai danni dei più deboli. Pasolini seviziato a morte su un campetto di Ostia (Una storia sbagliata, 1980). Luigi Tenco da un “mondo” che gli ha voltato le spalle senza mai comprenderlo/accettarlo del tutto (Preghiera in gennaio, 1967). Come Cristo (si parva licet), duemila anni prima (Si chiamava Gesù, 1967). E le anime salve prima e dopo, assassinate da diffidenza e/o indifferenza. In altre parole: la battaglia individuale di Princesa (1996) comincia, in De Andrè, dove finiscono le apocalissi collettive e visionarie di Girotondo (1968) e de La domenica delle salme (1990). E quella del femmineo Andrea (1978) – “ucciso sui monti di Trento/ dalla mitraglia” – è diretta conseguenza del guerreggiante deragliare di un secolo. Un continuum. Micro e macro conflittualità. Universi ontologici in collisione. La guerra delle nazioni e quella sociale: drogati contro benpensanti, pellerossa contro generali “occhi turchini e giacca uguale”, Bocca di rosa sulla bocca velenosa delle “comari di un paesino”, uomini contro donne “piuttosto distratte” (e viceversa). Il conflitto, insomma, come condizione peculiare all’essere umano. Una prerogativa innata. Una indole, una malattia. Senza necessariamente scomodare Hobbes e/o Rousseau, da che mondo è mondo e interesse privato, interesse privato. Il pacifismo non pacificato di Fabrizio De Andrè non volta lo sguardo davanti lo stato delle cose. Con buona pace degli apologeti a posteriori: mai fintamente ecumenico e neppure succubo tout court dell’ideale non-violento. L’idea di pace secondo De Andrè rimane comunque subordinata a una rivendicazione di libertà, di affrancamento, di distanza dai (dis)valori borghesi. Passino essi da religione, guerre sante, governi e bandiere, di qualsiasi estrazione esse siano. L’umanesimo di Fabrizio De Andrè non è di facciata. Consequenziale piuttosto a una coscienza di classe che comprenda i “polacchi” ai semafori de La domenica delle salme, come i pastori di Supramonte dell’Indiano, gli impiccati, i ladri, i malati di cuore. I destinati comunque alla trincea. Cioè gli ignoti sociali (futuri militi ignoti) che il conflitto perenne lo vivono (subiscono) di persona. Gli ultimi che combattono in vece di. Non c’è traccia di buonismo nelle canzoni di Fabrizio De Andrè (quanto meno non c’è traccia del buonismo sterile, figlio legittimo dell’omologazione). Non potevano permetterselo Tito e Michè di essere buoni per partito preso. Non poteva permetterselo Faber, che di loro, fra gli altri, ha cantato (Il testamento di Tito, La ballata di Michè). Denunciando la sopraffazione dei governanti (re e/o “ministri dei temporali”), così come la pavida ipocrisia dell’inquadrato-tipo (casa-chiesa-famiglia). E – sin dai tempi “francesi” di Fila la lana – l’assurdità dell’andare (e spesso di morire) in guerra. Torno a dire: si tratti della guerra legittimata da ragioni (?) di Stato, o di quella – ignorata dai più – perpetrata sulle strade e nei tuguri di città.
In principio fu La ballata dell’eroe (1968). Poi vennero La guerra di Piero e le altre. Evidenti le analogie: il tema centrale del conflitto, l’immolazione del protagonista, il rimpianto della donna lasciata a casa. Ma mentre Piero muore perché, in un attimo tardivo di consapevolezza, rifiuta il concetto dell’uccidere (e al cospetto del nemico viene colto da istintivo senso di fratellanza), l’eroe della ballata omonima muore perché “troppo lontano si spinse a cercare la verità”. Un verso ermetico (l’unico della canzone), che echeggia a lutto come scacco esistenziale: dinnanzi alla tragedia della guerra, per il libertario De André, non c’è nessuna verità da cercare. La ricerca di un senso si arresta di fronte alla morte, limite invalicabile di ogni azione umana.
Era partito per fare la guerra/ per dare il suo aiuto alla sua terra/ Gli avevano dato le mostrine e le stelle/ e il consiglio di vendere cara la pelle/ E quando gli dissero di andare avanti/ troppo lontano si spinse a cercare la verità/ Ora che è morto la patria si gloria/ d’un altro eroe alla memoria/ Ma lei che lo amava/ aspettava il ritorno d’un soldato vivo/ d’un eroe morto che ne farà/ se accanto nel letto le è rimasta la gloria/ d’una medaglia alla memoria.
La guerra di Piero è una delle ballate più celebri del Faber cosiddetto no-war. Ed è anche una delle rare canzoni pacifiste italiane la cui fama ha varcato l’oceano (l’hanno cantata anche Dylan e la Baez).
“Il protagonista – prototipo del soldato inconsapevole – dopo un tortuoso cammino iniziato nel cuore dell’inverno e sfociato in un giorno luminoso di primavera, varca il confine che divide due nazioni. Mentre riflette sull’inutile ferocia del conflitto, scorge in fondo alla valle un soldato nemico che quasi certamente prova le sue stesse paure ed è tormentato dai suoi stessi dubbi. Pure se conscio del fatto che soltanto uccidendolo potrà salvarsi, Piero appare indeciso, e proprio quell’incertezza, frutto di un atto istintivo di umana solidarietà, gli sarà infine fatale: l’avversario, accortosi del pericolo, non esiterà infatti a sparargli e a ucciderlo” (P. Briganti, W. Spaggiari, Poesia & C., Zanichelli, Bologna 1991).
Né il tempo né il luogo dell’azione sono specificati, così che il brano assume valenza metastorica e, dunque, universale. L’atrocità della guerra è qui denunciata senza proclami, quasi con mestizia. L’errore fatale di Piero (la sua unica colpa) sta nel non avere sparato a un uomo (prima ancora che a un nemico) con “la divisa di un altro colore”. Un rifiuto certo derivante da pietas ma chissà se anche dalla consapevolezza di rappresentare (parimenti al suo avversario) una pedina nello scacchiere dei giochi di potere. A inizio e a fine brano, quasi a suggello malinconico della ballata, si colloca la constatazione del narratore di fronte al cadavere di Piero, il cui ultimo pensiero, è rivolto alla donna amata. Segno della supremazia dell’amore sulla morte, espressione antonomasica della guerra.
Dormi sepolto in un campo di grano/ non è la rosa non è il tulipano/ che ti fan veglia dall’ombra dei fossi/ ma sono mille papaveri rossi/ Lungo lesponde del mio torrente/ voglio che scendano i lucci argentati/ non più i cadaveri dei soldati/ portati in braccio dalla corrente/ Così dicevi ed era d’inverno/ e come gli altri verso l’inferno/ te ne vai triste come chi deve/ il vento ti sputa in faccia la neve/ Fermati Piero, fermati adesso/ lascia che il vento ti passi un po’ addosso/ dei morti in battaglia ti porti la voce/ chi diede la vita ebbe in cambio una croce/ Ma tu non lo udisti e il tempo passava/ con le stagioni a passo di giava/ ed arrivasti a varcar la frontiera/ in un bel giorno di primavera/ E mentre marciavi con l’anima in spalle/ vedesti un uomo in fondo alla valle/ che aveva il tuo stesso identico umore/ ma la divisa di un altro colore/ Sparagli Piero, sparagli ora/ e dopo un colpo sparagli ancora/ fino a che tu non lo vedrai esangue/ cadere in terra a coprire il suo sangue/ E se gli spari in fronte o nel cuore/ soltanto iltempo avrà per morire/ ma il tempo a me resterà per vedere/ vedere gli occhi di un uomo che muore/ E mentre gli usi questa premura/ quello si volta, ti vede e hapaura/ e imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia/ Cadesti a terra senza un lamento/ e ti accorgesti in un solo momento/ che il tempo non ti sarebbe bastato/ a chiedere perdono per ogni peccato/ Cadesti a terra senza un lamento/ e ti accorgesti in un solo momento/ che la tua vita finiva quel giorno/ e non ci sarebbe stato ritorno.
Fila la lana è un 45 giri pubblicato nel 1965 dalla Karim, e inserito l’anno successivo nell’antologia Tutto De Andrè.
“Da una canzone popolare francese del XV secolo”, c’è scritto sul disco, ma in realtà la citazione non dice il vero. La canzone – musica e parole – è infatti stata scritta in Francia da Robert Marcy e cantata, nel 1949, da Jacques Douai. Nella versione originale, al posto del deandreiano “signor di Vly” figura il nome di “Monsieur de Malbrough”, conte di Malbrough, effettivamente impegnato nella guerra dei Cent’anni (1337-1453). Tanto la sostituzione del protagonista, quanto l’errata datazione del brano, non ne inficiano la resa: clima medievaleggiante e parabola sul valore effimero dell’eroismo, fanno di Fila la lana uno dei capisaldi del primissimo De Andrè.
Nella guerra di Valois/ il signor di Vly è morto/ se sia stato un prode eroe/ non si sa non è ancor certo/ ma la dama abbandonata/ lamentando la sua morte/ per mill’anni e forse ancora/ piangerà la triste sorte/ Fila la lana, fila i tuoi giorni/ illuditi ancora che lui ritorni/ libro di dolci sogni d’amore/ apri le pagine al suo dolore/ Son tornati a cento e a mille/ i guerrieri di Valois/ son tornati alle famiglie/ ai palazzi alle città/ ma la dama abbandonata/ non ritroverà il suo amore/ e il gran ceppo nel camino/ non varrà a scaldarle il cuore.
L’episodio bellico è relegato di sfondo. Ciò che più conta, per De Andrè, è infatti la restituzione del dolore di una vedova di guerra (la “dama” del castello). Il gelo senza fine che ne abita il cuore che nessun “ceppo nel camino” riuscirà più a riscaldare. In altre parole: la riprovazione della guerra passa qui dallo sguardo privato di una donna “abbandonata” che piange la “triste sorte” toccata al proprio uomo, e come una neo-Penelope si illude davanti al fuso, di un impossibile suo ritorno.
A un ascolto distratto, Girotondo (1968) potrebbe scambiarsi per una filastrocca da poco. Una canzoncina per bimbi dai connotati innocui. In realtà lo spunto è tra i più cupi del De Andrè contro la guerra, e agevola la riflessione sul conflitto come slancio pulsionale connaturato alla specie umana. Un istinto folle, autodistruttivo, come il coretto dei bambini che chiude la traccia.
Se verrà la guerra, marcondiro’ndero/ Se verrà la guerra, marcondiro’ndà/ Sul mare e sulla terra, marcondiro’ndera/ sul mare e sulla terra chi ci salverà?/ Ci salverà il soldato che non la vorrà/ ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà/ La guerra è già scoppiata, marcondiro’ndero/ La guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà/ Ci aiuterà il buon Dio, marcondiro’ndera/ ci aiuterà il buon Dio, lui ci salverà/ Buon Dio è già scappato, dove non si sa/ buon Dio se n’è andato, chissà quando ritornerà/ L’aeroplano vola, marcondiro’ndera/ L’aeroplano vola, marcondiro’ndà/ Se getterà la bomba, marcondiro’ndero/ Se getterà la bomba chi ci salverà?/ Ci salva l’aviatore che non lo farà/ Ci salva l’aviatore che la bomba non getterà/ La bomba è già caduta,marcondiro’ndero/ La bomba è già caduta, chi la prenderà?/ La prenderanno tutti, marcondiro’ndera/ sian belli o siano brutti, marcondiro’ndà.
Dal soldato, a dio, all’aviatore che “getterà la bomba” è, come si vede, un reiterato accampare pretesti, un minimizzare, un far finta di niente e perpetuare di fatto il gioco al massacro. Ne discende lo scenario apocalittico di una Terra “tutto un lutto”, in balia dei bambini sopravvissuti e impazziti che, in continuità con il passato (in continuità con la storia e il mondo adulto) giocano a loro volta “a fare la guerra”:
La terra è tutta nostra, marcondiro’ndera/ Ne faremo una gran giostra, marcondiro’ndà/ Abbiam tutta la terra marcondiro’ndera/ giocheremo a far la guerra, marcondiro’ndà...
Fabrizio De Andrè aveva un’indole curiosa, e una scrittura metamorfica. Faceva sua, cioè, l’impronta di chi lo collaborava a testi e musiche, assimilandone l’architettura semantica (vedi l’impronta impressa da De Gregori all’album Volume 8). Nemmeno quando comincia a scrivere Rimini, intorno al 1979, Faber è da solo. Alla stesura dell’album partecipa infatti Massimo Bubola, che contamina di tratti poetici-evocativi i climi del disco. Per dirla in altro modo: nel 1978 è da un po’ che Fabrizio De Andrè si è lasciato alle spalle la vena francese dei primi album. Rimini risulta dunque un album sospeso tra passato e futuro: da un lato la consueta chirurgia dei testi, dall’altro i freschi climi folk/rock. Con qualche suggestione etnica (Zirichiltaggia), prodroma dei lavori a seguire. Andrea è la traccia numero quattro del disco. Una pagina occultata del primo conflitto mondiale. Una storia “sbagliata” (dati contesto ed epoca) di guerra e d’amore omosessuale. Un passaggio volutamente enfatico, romantico, al punto da occhieggiare al melodramma (“E Andrea l’ha perso/ ha perso l’amore/ la perla più rara”). L’ennesima provocazione deandreiana, che può leggersi anche come invito a riflettere sul ruolo del guerriero-amante nella storia (figura contigua a quella dell’amico commilitone, si pensi all’ira di Achille alla morte di Patroclo). In un ambiente caratterizzato “al maschile” come risulta essere l’ambiente militare, Bubola e De Andrè scelgono insomma di ritornare sul tema del lutto e del dolore legati alla morte in battaglia, assumendo a eroe della ballata un soldato che, sin dalla desinenza del nome (nei Paesi tedeschi Andrea è un nome di donna) e nei comportamenti (“raccoglieva violette ai bordi del pozzo”) è connotato di gusti e sentire femminili. Attraverso la sua afflizione molto sentimentale e molto poco guerriera (assimilabile in tutto e per tutto all’afflizione della “dama abbandonata” di Fila la lana, per esempio), Andrea è chiamato a emblema demitizzante l’agiografia del rude guerriero della vulgata militare.
Si son presi il nostro cuore/ sotto una coperta scura/ Sotto una luna morta piccola/ dormivamo senza paura/ Fu un generale di vent’anni/ occhi turchini e giacca uguale/ Fu un generale di vent’anni/figlio d’un temporale/ C’è un dollaro d’argento/ sul fondo del Sand Creek/ I nostri guerrieri troppo lontani/ sulla pista del bisonte/ E quella musica distante/ diventò sempre più forte/ Chiusi gli occhi per tre volte/ mi ritrovai ancora lì/ Chiesi a mio nonno è solo un sogno/ Mio nonno disse sì/ A volte i pesci cantano/ sul fondo del Sand Creek/ Sognai talmente forte/ che mi uscì il sangue dal naso/ Il lampo in un orecchio/ nell’altro il paradiso/ Le lacrime più piccole/ le lacrime più grosse/ Quando l’albero della neve/ fiorì di stelle rosse/ Ora i bambini dormono/ nel letto del Sand Creek/ Quando il sole alzò la testa/ tra le spalle della notte/ C’erano solo cani e fumo/ e tende capovolte/ Tirai una freccia in cielo/ per farlo respirare/ Tirai una freccia al vento/ per farlo sanguinare/ La terza freccia cercala/ sul fondo del Sand Creek.
Fiume Sand Creek è la terza traccia del disco conosciuto come il disco dell’Indiano (in realtà Fabrizio De Andrè, 1981), e racconta la storia vera di un massacro di pellerossa. L’uccisione indiscriminata di donne, vecchi e bambini delle tribù Cheyenne meridionali e Arapaho, accampati in un’ansa del fiume Big Sandy Creek. Il 29 novembre 1864 il campo fu attaccato da 700 soldati della milizia statale, comandati dal colonnello John Chivington, e tutto ciò a dispetto dei trattati di pace stipulati dai capi tribù locali con il governo statunitense. Dato l’esiguo numero di uomini armati in grado di difendersi (“i nostri guerrieri troppo lontani, sulla scia del bisonte”), l’attacco si tradusse in una strage: il numero di morti tra i nativi fu stimato tra le 125 e le 175 vittime, i cui corpi vennero scalpati e in molti casi mutilati dai soldati.
Fiume Sand Creek segna una delle pagine più incisive del De Andrè contro la guerra (collaborato ancora da Massimo Bubola). Il generale, artefice dello sterminio (“occhi turchini e giacca uguale”) evoca l’eroe-tipo americano, chiaro di carnagione e determinato nella difesa dei valori della cristianità contro i malvagi pellerossa. La coperta scura sotto cui “dormivamo senza paura” (cioè gli indiani dormivano ignari di quanto stava loro per accadere) diventa metafora dell’agguato imminente. La luna “morta piccola” presagisce l’evento. L’albero “della neve” che fiorisce di “stelle rosse” restituisce in immagine poetica il sangue che scorre a rigagnoli lenti sulla neve fino a stilizzarvi la sagoma di un albero. Quindi c’è la figura del nonno (forse la più toccante di tutte) che tranquillizza il bambino malgrado l’evidenza, conducendolo in una dimensione di sogno (“chiesi a mio nonno è solo un sogno/ mio nonno disse sì”). La canzone è satura di visioni di questo tipo, e in presenza di tanta delicatezza descrittiva, la barbarie che accompagna il massacro degli indiani, diventa per antitesi ancora più raccapricciante.
Concludiamo con Disamistade (Anime salve, 1996), l’ultimo manifesto anti-belligerante di Fabrizio De Andrè. Scritta a quattro mani con Ivano Fossati, racconta in realtà un caso quasi minimo di inimicizia. Il brano è infatti incentrato sull’avversione atavica fra due famiglie, e solo nel finale, lascia forse intravvedere refoli di speranza (“due famiglie disarmate di sangue/ si schierano a resa”). Così lo spiega, non a caso in accezione emblematica, riassuntiva del proprio sentire anti-sistema, lo stesso De Andrè: “Non tutti gli individui conviventi in una micro o macro società sono disposti a trasformare il disagio in sogno. Laddove ‘la corsa del tempo spariglia destini e fortune’ mettendoli a continuo confronto nella condivisione di uno spazio ristretto, nasce l’invidia, la disamistade, la faida, nasce dal desiderio irrealizzabile di fermare il tempo e di eliminarlo, per riportare il mondo a una ipotetica condizione originaria in cui tutti sono uguali. La faida consiste nel paradosso di ammazzare l’ultimo assassino, e l’autorità interviene, quasi sempre, a sproposito, giudicando frettolosamente in base a testimonianze equivoche e penalizzando innocenti che, scontata una pena ingiusta, diventano i nuovi luttuosi protagonisti della carneficina”.

