di Luciana Viarengo |
Recensione de L’isola dei pinguini, Anatole France
La specie umana sembra, per certi versi, avallare le teorie fissiste e creazioniste. Pensiamo alla facilità con la quale il Serpente, con un paio di frasi da esperto piazzista, ha abbindolato prima Eva e poi, con il suo aiuto, Adamo. La mira di potere e la stupidità hanno fatto il resto. Nel corso dei secoli, le cose non sono cambiate, l’umanità non sembra trarre alcun insegnamento dal passato, come se la memoria fosse impossibile da conservare.
Ai nostri giorni, per esempio, l’assenza di reazioni – quando non è aperto consenso – alle iniziative della côté di incantatori occulti e filibustieri conclamati che tirano i fili del teatrino italiano, sembra delineare un caso di deficit cognitivo trasmesso geneticamente a partire dal primo uomo.
A vederci così mansueti davanti alle derive fascistoidi e alle burlesche fole anticrisi, appagati dallo scarso panem e dai tanti circenses, c’è da credere che la memoria retrograda collettiva sia del tutto andata (l’anterograda – non ricordo di averlo detto o fatto ieri, un’ora fa, anzi non ero io – è più deficitaria nella classe dirigente). Va da sé che la memoria prospettica, quella che consente di pianificare il futuro, di prevedere eventi e progettare le proprie azioni, sia messa anche peggio.
Il danno è severo: l’assenza di memoria rende vulnerabili e costringe chi ne è colpito a delegare la propria vita ad altri, a fidarsi di qualcuno che governi una situazione altrimenti ingovernabile. Paradossalmente, però, chi ne è affetto non sa discernere se questo mandato venga assolto coscienziosamente o meno.
Nel caso di questa nostra collettività smemorata, i suoi badanti, ovvero classe politica – avviticchiata a quella economica – e clero, sono abilissimi nel pilotarne scelte e decisioni e attenti a conservare questo, per loro, vantaggioso stato amnesico sventolandole davanti, piuttosto che il passato rimosso, un chimerico ‘futuro migliore’. Che si realizzerà, nel caso della prima, in data perennemente da destinarsi e, nel caso del secondo, addirittura in una prossima vita, eterna.
Il solo antidoto all’oblio mortifero – a causa del quale presto avremo un mondo e un’umanità ben peggiori di quanto già non siano – è il pensiero critico, il risveglio delle coscienze. Abbiamo bisogno di cultura per resistere al risucchio dell’industria culturale, capofuochista nella combustione dei cervelli. Dobbiamo riscoprire il pensiero e lo spirito di chi, in ogni epoca, ha puntato il dito su ciò che ciclicamente traduce l’umanità verso il disastro.
Prendiamo Anatole France. Immensa cultura classica, purezza linguistica, misurato e pungente sarcasmo nel quale guizza una vena di anarchia, ed ecco la denuncia scevra dal ringhio bilioso o dalla pedanteria moraleggiante. La levità con la quale trasmette la forza delle idee enfatizza la distanza siderale tra il proprio sentire e ciò che di becero o criminale addita ne L’isola dei pinguini, pubblicato in Francia nel 1908 e ripubblicato in Italia da Isbn Edizioni un paio di anni fa. Epopea di un popolo immaginario – ammantata da un’ironia a tratti davvero esilarante sulla quale France modella una visione molto realistica della storia, della natura umana e dei suoi errori.
La parodia agiografica – con tanto di temptatio, flores sanctorum e mirabilia con la quale l’ateo accademico di Francia dà l’avvio alla storia della pinguinità, gli valse la messa all’Indice da parte del Sant’Uffizio. Dato, questo, che per qualcuno potrebbe costituire di per sé un ottimo incentivo alla lettura.
A dare il via all’epopea pinguinica, l’errore di un troppo solerte sant’uomo, l’abate Maël , approdato a un’isola del Nord a bordo di un’improbabile tinozza di pietra “che galleggiava come un sughero”. Obnubilato in uguale misura da furia evangelizzatrice e da incipiente cecità, battezza, benedice e predica a destra e a manca in una colonia di straniti pinguini – causticamente simili ai pingui gentiluomini della belle époque impettiti nei frac – da lui scambiati per selvaggi autoctoni. L’abbaglio crea problemi ai ‘piani alti’ dove Padreterno e santi riuniti discutono le sorti di questi placidi palmipedi ormai accessoriati di anima.
Dopo lunghe dispute filosofiche e teologiche, Dio impone la propria autorità: ciò che è fatto è fatto, Maël trasformerà in uomini questi piccoli iperborei ormai consacrati.
Ed eccoli, ancora un po’ tozzi, basculanti e con residui sguardi in tralice, perdere il becco, acquisire naso, fronte spaziosa e parola. Diventare uomini, insomma, e come tali guadagnarsi l’immortalità. Come non vedere il suggerimento cubitale di una religione all’origine dei mali dell’uomo?
Ma un santo deve essere tale fino in fondo e l’improvvido abate Maël non si ferma: per non abbandonarli alla loro sorte, con la miracolosa tinozza di pietra trascina l’intera isola di Pinguinia verso le più civilizzate coste bretoni. Da questo momento Anatole France ricompone, sulla trama della storia di Francia, l’ordito della storia di Pinguinia , ottenendo un arazzo metaforico dell’umanità intera, nel quale sono campite con smagato candore “le miserie d’Occidente”. Dall’alto medioevo fino all’attualità del primo Novecento – e oltre, perché la lungimiranza di France accende le luci anche sull’orrore della guerra a venire – la pinguinità si appropria di tutti gli strumenti in grado di farla precipitare dritta verso il progresso.
Come la genesi dell’uomo, anche quella di Pinguinia ha tra i primi orpelli il senso del pudore. Non una mela, ma seta e oro rendono il corpo uno ‘strumento del diavolo’. La prima pinguina drappeggiata di veli e cinta di cerchi d’oro, dapprima terrorizzata, si trasforma di botto in una maliziosa cocotte preoccupata solo del punto vita strizzato a dovere. Da lì in poi, un codazzo di pinguini allocchiti la seguirà, senza più rispetto per le stagioni dell’accoppiamento. Gustosa denuncia dell’impostura che il culto religioso sottende è la storia di questa stessa pinguina, Orberosa: accoppiatasi finanche con il diavolo travestito da frate, sposa di un pinguino travestito da drago, amante di bovari e mandriani, sarà la vergine, santa e patrona di Pinguinia, la cui venerazione resisterà con alterne fortune nei secoli. Così come l’accoppiamento, anche le lotte diventano un abito per tutte le stagioni perché, spiega un altro monaco al perplesso Maël, i pinguini che si ammazzano a badilate e sfracellano a colpi di pietra la testa degli avversari compiono “la più augusta delle funzioni”: creano lo stato di diritto, fondano la proprietà, stabiliscono i principi della civiltà, le leggi dello Stato e le basi della società. E “la loro opera sarà celebrata nei secoli dai legislatori, protetta e confermata dai magistrati”.
Durante questa erudita spiegazione, ecco un robusto pinguino con un albero in spalla. “Avvicinandosi a un piccolo pinguino con la pelle bruciata dal sole che stava innaffiando la lattuga, gli gridò «Il tuo campo è mio!» Pronunciate quelle violente parole, picchiò la clava sulla testa del piccolo pinguino che cadde morto sulla terra che aveva coltivato con le proprie mani”. No, non di delitto e furto si tratta, spiega paziente il monaco all’abate, bensì “di guerra e conquista, sacri fondamenti degli imperi e fonti di tutte le virtù e di tutte le grandezze umane”. Qui, non stonerebbe una chiosa sull’esportazione della democrazia.
Nulla scampa allo staffile di France, ogni meccanismo universalmente valido – religioso, sociale, politico ed economico – è alla berlina, dalla corruzione politica al sesso, dalle logiche di guerra alla sinistra eternamente partenogenetica (esilarante la velocità con la quale i socialisti si smembrano in quattro schieramenti sull’affaire che richiama il caso Dreyfus, al quale France, accanito innocentista accanto a Zola nella vicenda reale, dedica largo spazio), dal capitalismo trionfalista di inizio secolo all’assenza delle istituzioni. Finché una serie di attentati anarchici scompagina quella (questa?) società regolata dalla Borsa, dalle banche e dagli industriali e la civiltà di Pinguinia è inghiottita dalla catastrofe, profetica visione della guerra. Ma France non chiude su questa scomparsa, l’ultimo breve capitolo mostra infatti, nella ripresa, la grande amnesia collettiva, l’incapacità di far tesoro delle passate esperienze, con uno scorcio degno del miglior cinema espressionista.
Quando France morì, nell’ottobre del 1924, in Italia aveva inizio il terzo anno dell’Era fascista. La Francia era alla sua Terza repubblica e, nel panorama culturale, si udivano i primi fragorosi vagiti surrealisti, tesi verso la rivoluzione per “transformer le monde et changer la vie”. Ai funerali di Stato tributati a France, i surrealisti risposero con attacchi violenti: “Con France, se ne va un po’ del servilismo umano. Si faccia festa il giorno in cui si sotterrano la furbizia, il tradizionalismo, il patriottismo e la mancanza di cuore!” scriveva Breton in un pamphlet collettivo intitolato Un cadavre (ripreso poi dai surrealisti dissidenti per attaccare lo stesso Breton, secondo la più canonica legge del contrappasso). In realtà, in questi tempi da café chantant di periferia, Anatole France brilla per attualità, per l’abilità con cui schernisce la stupidità umana e per il suo lucido sguardo al futuro, verso un’umanità condannata alla cieca reiterazione dei propri errori.
L’isola dei pinguini, Anatole France, Isbn Edizioni, 2006