di Erika Gramaglia |
La legge sulle intercettazioni e l’immunità parlamentare
La richiesta di utilizzabilità di alcune intercettazioni telefoniche che il giudice per le indagini preliminari Clementina Forleo ha inoltrato il 20 luglio scorso al Parlamento è solo l’ultimo casus belli dello scontro tra magistratura e politica, a cui la cronaca di questi ultimi quindici anni ci ha abituato. La vicenda è nota, ma merita un veloce riassunto: nell’estate del 2005, nell’ambito delle indagini sulle scalate di Bnl su Antonveneta e di Unipol su Bnl, la procura di Milano convalida un provvedimento di controllo su alcune utenze telefoniche.
Tra gli intercettati vi sono, oltre agli indagati Fiorani e Consorte, anche alcuni politici, di destra e di sinistra in egual numero. Secondo il giudice Forleo, la rilevanza processuale di tali conversazioni avallerebbe non solo le ipotesi di aggiotaggio manipolativo e informativo come contestate agli imputati nel procedimento in corso, ma farebbe scattare la procedibilità per i reati di insider trading consumati nel corso di tali operazioni di intercettazione. Il tenore delle conversazioni non lascia dubbi, ma il loro utilizzo come prove nel procedimento in corso è sottoposto al placet del Parlamento, in base all’attuale normativa che disciplina la procedibilità processuale nei confronti dei parlamentari.
Per comprendere la questione è necessario compiere un veloce excursus sulla evoluzione normativa dell’immunità parlamentare.
Dal punto di vista costituzionale, l’immunità parlamentare assolve a un compito di estrema importanza: proteggendo i parlamentari dagli abusi che l’esecutivo potrebbe esercitare per mezzo dell’autorità giudiziaria, garantisce l’indipendenza del potere legislativo. L‘indipendenza e la libertà di espressione dei parlamentari nell’esercizio delle proprie attribuzioni istituzionali era argomento particolarmente sentito dai costituenti che, all’indomani del ventennio fascista e memori dei mezzi brutali ma efficaci con i quali il regime usava zittire i dissidenti, vollero accordare ai parlamentari una tutela tale da garantirne l’indipendenza, in funzione di una equilibrata separazione di competenze tra i poteri forti dello Stato. Per questo motivo l’art. 68 della Costituzione prevedeva una tutela molto ampia: “I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a procedimento penale; né può essere arrestato, o altrimenti privato della libertà personale, o sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, salvo che sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio il mandato o l’ordine di cattura. Eguale autorizzazione è richiesta per trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile”.
Se i principi da cui trae origine la norma sono condivisibili, meno accettabile è l’uso che la classe politica ha fatto dell’istituto dell’immunità, in particolare della cosiddetta “autorizzazione a procedere”: essa si è trasformata, nell’immobilità del panorama politico italiano del dopoguerra, in un privilegio non più legato alla carica istituzionale ma allo status di politico in quanto tale. La strumentalizzazione di tale protezione giuridica emerse con tragica evidenza nel 1993, immediatamente dopo la chiusura delle indagini relative ai fatti di Mani Pulite, quando i ripetuti dinieghi opposti dalle Camere alla magistratura indussero nell’opinione pubblica il sospetto che le decisioni istituzionali fossero suggerite da spirito corporativo, volto alla difesa dei propri adepti. La pietra dello scandalo fu il diniego della Camera dei deputati di concedere l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’allora deputato Bettino Craxi, coinvolto nelle inchieste sui finanziamenti illeciti ai partiti. Le manifestazioni di dissenso che spontaneamente riempirono le piazze, convinsero la parte politica superstite che per riacquistare credibilità fosse necessario dare un segnale di rinnovamento.
Con legge costituzionale 29 ottobre 1993 n. 3, votata trasversalmente da tutti i partiti, il testo originario dell’art. 68 venne abrogato e sostituito con il testo attualmente in vigore: “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento a intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”. Se da una parte veniva abolita l’autorizzazione a procedere nel caso di procedimento penale, dall’altra venivano aumentati i casi in cui era necessario richiederla, comprendendo le intercettazioni e la corrispondenza, rendendo di fatto più difficile l’acquisizione di materiali probatori a cui sarebbero potute seguire indagini a carico dei parlamentari. Pur se ufficialmente la ratio della norma era quella di ridurre le garanzie istituzionali che avevano creato una sacca di impunità all’interno delle istituzioni, e che Mani Pulite aveva portato alla luce, in realtà essa creava un limite precedente alla richiesta di autorizzazione a procedere, agendo sul meccanismo di acquisizione delle prove. Sottoponendo infatti la possibilità di compiere intercettazioni in qualsiasi forma, sottolinea la norma, alla autorizzazione della Camera di appartenenza, si dava una pubblicità tale all’iniziativa del potere giudiziario da renderla sostanzialmente vana; come si dice, uomo avvisato mezzo salvato. La legge in questione, valutata in relazione al clima politico di quegli anni, aveva un preciso obiettivo: ridare una parvenza di credibilità alla classe politica e concedere una apparente soddisfazione alle istanze dell’opinione pubblica.
La nuova formulazione dell’art. 68 permise ai processi già iniziati di continuare, lasciando il tempo ai superstiti di riorganizzarsi in nuove compagini. Le elezioni politiche erano alle porte e un uomo nuovo meditava la discesa in campo. Silvio Berlusconi, alle elezioni del 27 marzo 1994, conquista la maggioranza dei voti e diviene presidente del Consiglio, anche se per poco. Che il Cavaliere sia entrato in politica per usufruire di guarentigie giuridiche alle quali non avrebbe avuto accesso in veste di comune cittadino non è un segreto per nessuno, quindi non stupisce che un paio di elezioni dopo, precisamente nel 2003, nella duplice veste di presidente del Consiglio e di imputato nel processo Sme, promuova per mezzo del suo esecutivo una proposta di legge che per due anni buoni aveva preso polvere su una scrivania della Commissione Affari Costituzionali. Il 30 maggio 2001 infatti, l’on. Boato (gruppo misto, Verdi-Ulivo), constatato il fatto che alla riforma dell’art. 68 non erano seguite le norme di attuazione, e che durante la legislatura precedente era già in corso di approvazione un progetto di legge in materia che non aveva superato il vaglio del Senato, presentava alle nuove Camere il testo di legge così come era stato approvato dalla Camera dei Deputati nella XIII legislatura.
Il disegno di legge, approvato dalla Camera il 9 aprile 2003, passa al Senato che lo approva il 5 giugno con 152 voti favorevoli e 107 contrari. Il testo modificato dal Senato passa nuovamente alla Camera, che lo approva definitivamente il 18 giugno 2003 con maggioranza schiacciante: 302 favorevoli, 17 contrari, 13 astenuti. L’articolo 1 della legge 20 giugno 2003 n. 140, meglio noto come Lodo Schifani, è però ben diverso dal testo originale. Se in primis si stabiliva soltanto la preminenza giuridica delle norme di cui all’art. 68 rispetto alla normativa ordinaria in materia di autorizzazioni a procedere delineata dall’art. 343 e seguenti del codice di procedura penale, il testo licenziato dalle camere stabilisce che “non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime: il presidente della Repubblica, salvo quanto previsto dall’articolo 90 della Costituzione – che riconosce la responsabilità del presidente della Repubblica in caso di alto tradimento o per attentato alla Costituzione – il presidente del Senato della Repubblica, il presidente della Camera dei deputati, il presidente del Consiglio dei ministri, salvo quanto previsto dall’art. 96 della Costituzione – che sottopone i membri dell’esecutivo, anche se cessati dalla carica, alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale – il presidente della Corte Costituzionale. Dalla data di entrata in vigore della presente legge sono sospesi, nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 e salvo quanto previsto dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali in corso in ogni fase, stato e grado, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime. Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale – che regola l’istituto della sospensione del corso della prescrizione”.
Un vero e proprio colpo di Stato, che fortunatamente non supera il vaglio della Corte Costituzionale.
Il 13 gennaio 2004, chiamata a esprimersi su richiesta del tribunale di Milano, la suprema Corte si pronuncia per l’incostituzionalità della norma poiché, si legge nella sentenza 24/2004: “Viola gli articoli 3 (uguaglianza dei cittadini) e 24 (diritto di accesso alla giustizia) della Costituzione”.
Secondo la Corte “negli artt. 68, 90 e 96 Cost. l’immunità ha il fondamento e il limite nell’esercizio della funzione. Per effetto della censurata normativa il presidente del Consiglio dei ministri già sottoposto, previa autorizzazione parlamentare, alla giurisdizione ordinaria per i reati funzionali, ne è viceversa sottratto ope legis per quelli comuni. Il che è contraddittorio, perché in base all’art. 96 Cost. l’autorizzazione a procedere può essere negata solo nei casi ivi previsti. Poiché l’unico soggetto sottoposto a processo, per ‘fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione’, era l’onorevole Berlusconi, si è in presenza di una legge personale di favore, definita da autorevole dottrina come lesiva dell’art. 3 Cost., in quanto volta a estendere, oltre i casi previsti dalla Costituzione, le ipotesi di improcedibilità soggettiva e le garanzie costituzionali impedienti la immediata attuazione della legge. Infatti, tali improcedibilità e garanzie privano di concreta efficacia la legge rispetto a determinati cittadini e creano diseguaglianze formali tra i medesimi”.
In seguito alla sentenza della Consulta, l’art. 1 della legge decade per manifesta incostituzionalità, tuttavia la sua breve vita permette a Silvio Berlusconi di sospendere il processo Sme. Il processo riprenderà, ma il suo iter dovrà ricominciare dall’inizio; si svolgerà inoltre davanti a un altro collegio del tribunale di Milano rispetto a quello che nel novembre 2003 aveva condannato i coimputati di Berlusconi, Cesare Previti e Renato Squillante.
Pur mutilata del primo articolo, la legge 140/2003 è tuttora in vigore; in particolare l’art. 6 stabilisce che “qualora, su istanza di una parte processuale, sentite le altre parti nei termini e nei modi di cui all’articolo 268, comma 6, del codice di procedura penale, ritenga necessario utilizzare le intercettazioni o i tabulati di cui al comma 1, il giudice per le indagini preliminari decide con ordinanza e richiede, entro i dieci giorni successivi, l’autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate”.
Proprio in ossequio a questa norma di legge il giudice Forleo ha presentato richiesta alla Camera per ottenere l’utilizzabilità delle conversazioni intercettate e acquisite nel procedimento aperto presso il tribunale di Milano relativo alle vicende che nel 2005 hanno coinvolto i vertici di Bnl, Unipol e Bankitalia. Vicende che noi conosciamo attraverso gli atti di indagine depositati dal pubblico ministero presso il tribunale, in particolare dalle intercettazioni telefoniche.
La conoscibilità degli atti di indagine di un procedimento penale in corso è sottoposta a una disciplina complessa volta a tutelare vari aspetti dell’ordine istituzionale. Il codice di procedura penale, entrato in vigore il 24 ottobre 1989, ha sostanzialmente abrogato il segreto istruttorio previsto nel codice Rocco, sostituendolo con un blando segreto investigativo.
L’art. 329 stabilisce che: “Gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero (358 s.) e dalla polizia giudiziaria (348 s.) sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (405 s.)”. La norma tutela la capacità investigativa del potere giudiziario, evitando una nociva pubblicità che permetterebbe ai soggetti indagati di porre in essere atti volti alla distruzione delle prove; tutela inoltre l’indagato, a cui la legge riconosce la presunzione di innocenza, che potrebbe essere danneggiato dalla notizia di sospetti che le stesse indagini potrebbero rivelare infondati. Configurandosi quale eccezione all’art. 21 della Costituzione, che garantisce la libertà di informazione, il segreto è però limitato alla funzione probatoria e decade al termine dell’udienza preliminare. La sua estensione è perciò limitata ai diciotto mesi, prolungabile a due anni solo in casi particolari, in base all’art. 407 del codice di procedura penale che stabilisce i limiti di durata delle indagini preliminari.
Al quadro normativo delineato dall’art. 329 si affianca il dettato dell’art. 114 (divieto di pubblicazione di atti e di immagini), il quale stabilisce che “è vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto. È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari (405, 554) ovvero fino al termine dell’udienza preliminare (424 s.)”.
La sanzione connessa è stabilita dal codice penale, art. 684, pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale: “Chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a 258”. A tale norma si collega l’art. 115 del c.p.p.: “Salve le sanzioni previste dalla legge penale (684 c.p.), la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 […] costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”, applicabile di fatto solo ai giornalisti. La oggettiva levità della pena spiega perché, in casi giudiziari di particolare interesse, i mezzi di informazione abbiano deciso di pubblicare atti di cui avevano conoscenza nonostante il segreto investigativo, accollandosi l’onere connesso. Per questo, solo per fare alcuni esempi, abbiamo saputo in tempo reale di Mani Pulite, delle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e di altre vicende che hanno segnato il confine tra politica, finanza e legalità. Anche le intercettazioni telefoniche per le quale il giudice Forleo richiede ora l’utilizzabilità hanno subito la stessa sorte. Coperte inizialmente dal segreto, esse sono state in parte rese pubbliche nel settembre 2005, immediatamente dopo l’inizio delle indagini, in chiara violazione della normativa sopra ricordata. La pubblicità però ha avuto il merito di informare borsa, investitori e cittadini delle trame poste in essere a loro danno. A oggi, essendo scaduti i termini di durata delle indagini, a istruttoria conclusa, esse non sono più coperte dal segreto e quindi pubblicabili.
Con le conseguenze che ne derivano. È indubbia infatti la valenza comunicativa di una intercettazione telefonica. La maggior parte degli atti giudiziari non è pienamente comprensibile da parte del cittadino comune, che spesso ha scarsa confidenza con le procedure e il gergo della giustizia. Ma l’intercettazione è per la sua immediatezza in grado di superare l’ostacolo, mostrando l’evidenza di un comportamento.
Per chi ancora credeva che esistessero differenze tra i politici di destra e di sinistra il caso Unipol è stato un duro risveglio. Compaiono infatti tra gli intercettati tre esponenti di spicco – La Torre, D’Alema e Fassino – per nulla diversi, nel tenore delle conversazioni, dai loro oppositori politici, coinvolti specularmente nel filone d’inchiesta su Antonveneta.
Non solo. Secondo il tribunale di Milano esse configurerebbero una ulteriore imputazione a carico dei politici coinvolti.
La formulazione della richiesta non lascia dubbi: “Sarà proprio il placet del Parlamento a rendere possibile la procedibilità penale nei confronti dei suoi membri – inquietanti interlocutori di numerose di dette conversazioni soprattutto intervenute sull’utenza in uso a Consorte – i quali all’evidenza appaiono non passivi ricettori di informazioni pur penalmente rilevanti né personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata che si stava consumando proprio ai danni dei piccoli e medi risparmiatori, in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale. È evidente infatti come, risultando a carico di tali soggetti solo le granitiche risultanze di cui al tenore delle conversazioni in questione, non si sarebbe comunque potuto procedere alla relativa iscrizione degli stessi nel registro degli indagati data appunto l’attuale inutilizzabilità di tali elementi”. Da questo punto di vista l’autorizzazione del Parlamento assume una chiara valenza politica.
Il 26 settembre la Giunta delle autorizzazioni a procedere della Camera, chiamata a esprimersi in merito alla posizione di Fassino e D’Alema, ha votato per l’utilizzabilità delle intercettazioni del primo, mentre si è dichiarata incompetente in merito alla posizione del secondo, avendo rilevato che al momento in cui vennero compiute le intercettazioni era membro del Parlamento europeo. Una soluzione politicamente corretta per sistemare le faccende del passato mentre ci si organizza per evitarle in futuro. Se ancora qualcuno crede che non esistano interessi trasversali al Parlamento, dovrebbe attentamente riflettere sulla proposta di legge Mastella in materia di intercettazioni telefoniche e ambientali e di pubblicità degli atti di indagine. Presentato il 14 settembre 2006 su proposta del ministro della Giustizia, procede rapidamente in commissione, viene approvato dalla Camera il 17 aprile e a luglio è già in corso di esame in commissione al Senato. La norma è ampiamente condivisa anche a giudicare dal risultato della votazione alla Camera: 447 favorevoli, 7 astenuti, nessun contrario. “Un momento esaltante per il Parlamento” ha dichiarato il guardasigilli, frase che può dare adito a diverse interpretazioni. Il primo articolo del progetto di legge modifica la normativa prevista all’art.114 c.p.p. definendo non pubblicabili gli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico ministero e le investigazioni difensive, anche se non più coperte dal segreto, ampliando quindi quantitativamente gli atti sottoposti a segreto. Vieta inoltre la pubblicazione, anche parziale o per riassunto o nel contenuto, della documentazione degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, anche se non più coperti da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. In altre parole: la notizia è pubblica, non è coperta dal segreto, ma i mezzi di informazione non ne possono parlare. Inoltre, nel caso si vada a giudizio, gli atti del Pubblico ministero sono pubblicabili solo dopo la pronuncia della sentenza di appello, mentre la normativa in vigore autorizza la pubblicazione già dopo la pronuncia in primo grado.
Vengono anche aumentate le sanzioni per i giornalisti, con l’introduzione nel dl 30 giugno 2003 (legge sulla privacy) dell’art. 164-bis che definisce l’illecito per finalità giornalistiche, a cui è collegata una sanzione amministrativa che può arrivare a un massimo di 60mila euro, contro i 258 di ora. L’intento del disegno di legge Mastella non è quello di limitare la forza probatoria delle intercettazioni telefoniche, ma evitarne la pubblicazione e di conseguenza la visibilità. Rispetto al tema dell’immunità il tentativo è speculare a quello posto in essere nella scorsa legislatura: se con il Lodo Schifani si ampliavano i limiti costituzionali dell’istituto in se stesso, il disegno di legge Mastella procede per così dire dal basso, limitando la circolazione delle notizie che potrebbero danneggiare i personaggi pubblici. L’obiettivo della proposta di legge è, secondo le parole del relatore, “di contemperare le necessità investigative, le esigenze di pubblica informazione in occasione di vicende giudiziarie di pubblico interesse, il diritto dei cittadini a veder tutelata la loro riservatezza, soprattutto quando estranei al procedimento”, ma, alla luce delle evidenti connivenze che le intercettazioni attribuiscono a entrambi gli schieramenti, sembra piuttosto essere un altro tentativo per zittire i mezzi di informazione e addormentare definitivamente la coscienza del Paese.
L’immagine che emerge da tutto questo è desolante. Se per un decennio ci siamo illusi che la ricerca dell’immunità assoluta fosse un’aspirazione della destra impegnata a salvare il suo leader, la vicenda Unipol e l’approvazione a tempo di record del disegno di legge Mastella ci dimostrano che la questione è largamente condivisa. Pur nella diversità degli interventi, il fine è comunque la ricerca di una garanzia che non attiene al corretto funzionamento delle istituzioni, ma diviene paravento per ogni forma di illecito volto all’arricchimento personale o del proprio schieramento, il tutto a prescindere dagli interessi della collettività. La normativa in vigore, seppure perfettibile, ha il pregio di contemperare la libertà di informazione, determinante nella formazione della coscienza civile, con le esigenze di tutela del sistema giudiziario. Sembra invece che gli interventi che abbiamo analizzato, ben lungi dal tutelare questo già precario equilibrio, abbiano in comune l’obiettivo di spostare l’ago della bilancia a favore di una immunità che va ben al di là del dettato costituzionale.
La ricerca dell’immunità è sempre un indizio malevolo delle condizioni di salute di una classe politica e a giudicare da tutto questo c’è seriamente da preoccuparsi. Soprattutto quando si ha la consapevolezza di assistere a una partita in cui entrambe le squadre vestono la stessa casacca e giocano nella stessa direzione.