Sick of myself di Kristoffer Borgli: il narcisismo ai tempi del capitalismo avanzato
Il mito di Narciso, descritto nelle Metamorfosi di Ovidio, è arcinoto: giovane di bellissimo aspetto, praticamente irresistibile, dopo aver respinto una lunga schiera di pretendenti, tra cui la ninfa dei boschi Eco, la quale muore di crepacuore a causa del rifiuto, viene condannato dalla dea Artemide a innamorarsi del proprio riflesso in un corso d’acqua; impossibilitato a soddisfare quell’amore, nel tentativo di abbracciare la sua stessa immagine, Narciso muore annegato, dando vita all’omonimo fiore. Meno conosciuta è l’etimologia del termine – dal greco narkào, stordire, poiché il profumo dei narcisi sarebbe appunto così intenso da stordire chiunque lo annusi. E di un vero e proprio stordimento generale ci parla Christopher Lasch nel suo saggio La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, pietra miliare degli studi sociologici dedicati al tema, pubblicato per la prima volta nel 1979 e ancora tremendamente attuale, anzi, più attuale che mai, vista la diffusione capillare che, nel corso degli anni, tale forma psicologica ha avuto a ogni livello della società – diffusione esacerbata, tra le altre cose, dall’avvento dei social-network. Tema affrontato finalmente anche dal cinema con Sick of myself (2022) di Kristoffer Borgli, commedia nera dall’impianto estremamente grottesco, che del lavoro analitico di Lasch sembra costituire la rielaborazione in chiave narrativa.
Signe (Kristine Kujath Thorp) e Thomas (Eirik Sæther) sono una coppia di Oslo, artista in corsa verso il successo lui, barista lei. Ma, più che l’amore a legarli, sembra essere un esasperato spirito di competitività per accaparrarsi l’attenzione degli altri; il che si evince fin dalle scene iniziali del film, che li vedono sedere al tavolo di un ristorante di lusso e ordinare una bottiglia di vino del valore di 2.300 euro, emblema degli status symbol che, alimentando un perenne senso di insoddisfazione, sono tra le principali cause dell’origine e del predominio della personalità narcisistica nelle società a capitalismo avanzato. Non per niente, una delle battute più significative pronunciate da Signe in questo contesto è la seguente: “Mi stanno guardando tutti”. Non si tratta solo di un’osservazione pragmatica legata al fatto che l’obiettivo della coppia è rubare quella bottiglia di vino, ma una chiara allusione simbolica a quanto la ragazza desidera più ardentemente, appunto essere guardata da tutti. E vale la pena riportare qui uno dei cardini dell’indagine di Lasch, ovvero la differenza tra l’attuale narcisismo e il vecchio individualismo americano, così com’era andato formandosi all’epoca dei pionieri.
Quest’ultimo, infatti, era caratterizzato da una netta divisione tra Io e mondo, laddove il mondo veniva considerato una terra di nessuno da modellare secondo la propria volontà: l’Io era estremamente forte e strutturato, seppur in una logica anche e soprattutto predatoria, e l’etica del lavoro, unita a una buona dose di repressione sessuale, doveva costituire un argine agli impulsi dell’Es che i primi coloni vedevano oggettivati nel paesaggio circostante – non ancora ‘civilizzato’: “La natura stessa dell’accumulazione implicava la sublimazione degli istinti, e la subordinazione degli interessi personali immediati al bene delle generazioni future” (1). Nel caso del narcisismo, invece, il rapporto col tempo è lacerato: l’individuo si riduce a un impasto confuso di pulsioni, perdendo così il senso della continuità storica in favore di un ‘eterno presente’. Gli interessi dell’Io, mediatore tra principio di piacere e principio di realtà, vengono sospesi in un ‘delirio di desiderio’. Ma proprio l’irruenza di tali desideri spaventa il soggetto che finisce per opporre loro un Super-Io tanto più severo e implacabile.
Innumerevoli sono le ragioni storiche, economiche e sociali, individuate da Lasch, che hanno portato il narcisismo a divenire il carattere dominante dell’Occidente postmoderno; alla base, lo spostamento dell’accento dalla produzione al consumo da parte del Capitale – giunto ormai a un tale livello di accumulazione da divenire immagine (Debord) – in un’ottica falsamente edonista e ‘libertaria’: “[…] la crisi dell’autorità ha, infatti, prodotto il crollo di gran parte dei divieti esterni che controllavano l’espressione degli impulsi pericolosi. Il Super-Io, nella sua lotta agli impulsi, non può più stringere alleanze con autorità esterne. Deve contare quasi esclusivamente sulle proprie risorse, e anche queste hanno perso di efficacia. […] L’Io ideale, che collabora all’opera di repressione convertendo lo stesso comportamento socialmente accettabile in oggetto di investimento libidinale, è diventato sempre più sbiadito e inefficace in assenza di modelli morali obbligati esterni al sé. Ciò significa […] che il Super-Io deve fare ricorso a imposizioni rigorose e punitive, attingendo agli impulsi aggressivi presenti nell’Es e orientandoli contro l’Io” (2).
Come si vede, per molti aspetti, il narcisista rappresenta l’antitesi dell’individualista ‘primitivo’ che aveva svolto il ruolo di protagonista nella precedente fase storica di accumulazione del Capitale. Un Io estremamente debole e una costante ‘incertezza ontologica’ sono le caratteristiche costitutive di questo tipo di personalità. Ecco perché Signe desidera essere guardata da tutti – lo stesso motivo per cui chiede a Thomas di dire agli amici che incontreranno di lì a poco a una festa che è stata lei a rubare la bottiglia di vino, per quanto, in realtà, il furto vero e proprio venga commesso dal ragazzo: ciò che Signe cerca disperatamente nello sguardo altrui si riduce, in fondo, a una semplice conferma al fatto di esistere. Senonché anche Thomas è vittima della spirale narcisistica della società dei consumi e, disattendendo la promessa fatta alla propria fidanzata, si prende tutto il merito dell’impresa: alla domanda su dove si trovasse Signe al momento del ‘colpo’, racconta la verità, ovvero che lei era uscita prima dal ristorante. Del resto, è proprio in tale contesto che il tema principale del film viene presentato direttamente – e in maniera addirittura didascalica – in un dialogo tra Signe e Marte (Fanny Vaager), un’amica giornalista, destinata ad avere un ruolo importante nella storia, di fronte alla quale la prima sostiene che, per come funziona il mondo, sono i narcisisti ad avere successo nella vita. Il che ci rimanda ancora una volta al saggio di Lasch: non è, infatti, un mistero che il mito del self-made man statunitense si sia diffuso a tutto il mondo occidentale, così come larga parte dell’immaginario a stelle e strisce; dimodoché, per quanto le analisi di Lasch si rifacciano alla storia degli Usa, è possibile riconoscere le stesse dinamiche in tutti gli altri Paesi toccati dall’americanizzazione.
In particolare, secondo il sociologo, dopo l’avvento del consumismo, persino il self-made man per come era stato conosciuto fino a quel momento – contraddistinto da operosità, sobrietà, moderazione, autodisciplina e orrore per i debiti – è stato condannato a diventare un anacronismo: “Inizialmente sembrava che le virtù protestanti possedessero un proprio valore autonomo; anche quando, nella seconda metà del XIX secolo, esse diventarono puramente strumentali, il successo mantenne dei sottintesi morali e sociali in virtù del suo contributo al benessere e al progresso umani. Ora il successo veniva considerato fine a se stesso, e solo la consapevolezza di aver superato i propri concorrenti riusciva ancora a produrre un senso di auto-approvazione. I più recenti manuali per l’uomo di successo, assai diversi dai precedenti, […] sostengono apertamente la necessità di sfruttare e intimidire gli altri, non dimostrano alcun interesse per ciò che costituisce l’essenza del successo e insistono con candore sul fatto che le apparenze – ‘le immagini vincenti’ – contano più dei risultati, e le attribuzioni più delle realizzazioni. Uno degli autori sembra suggerire che il sé consista in poco più che la propria ‘immagine’ riflessa negli occhi degli altri. «Anche se non è un’affermazione originale, sono sicuro che sarete d’accordo con me sul fatto che il modo in cui vedete voi stessi rifletterà l’immagine che offrite agli altri». Nulla ha successo come l’apparenza del successo” (3). Così il fatto che Thomas stia per esporre le sue opere – pezzi di arredo perlopiù rubati nei negozi, particolare pregno di significato, se si considera la logica spettacolare che sottende una simile operazione – presso la Codard, un’importante galleria di Oslo, non suscita la gioia disinteressata di Signe, bensì la sua invidia: ribadiamo, solo la consapevolezza di aver superato i propri concorrenti è in grado di produrre ancora un senso di auto-approvazione. E, in una società di massa, dove la misura della competitività si espande al punto da travalicare la dimensione del lavoro, fino a invadere ogni aspetto della vita privata, persino il proprio partner può venire percepito come un ‘concorrente’.

Il fatto di essere una semplice barista, in particolare, mentre Thomas si prepara a sfondare nel mondo dell’arte, risulta insopportabile per Signe. Ecco allora che un evento terribile come l’aggressione di un cane ai danni di una donna, la quale, con la gola squarciata, casca letteralmente tra le braccia della ragazza, diventa l’occasione per quest’ultima di ottenere finalmente un po’ di visibilità. “Ho solo seguito l’istinto, però nessuno stava aiutando, solo io, stavano solo guardando” è quanto continua a ripetere alla stregua di un mantra davanti al poliziotto incaricato di stendere il verbale, prima, e ai suoi amici, poi; peccato fosse stata proprio lei a tenere lontano altri potenziali soccorritori al grido di non avvicinarsi. Totalmente ricoperta del sangue della vittima, invece di prendere un taxi per tornare a casa, sceglie di farlo a piedi, compiacendosi dell’attenzione che desta nei passanti, con particolare riferimento a un’anziana signora che, preoccupata, le chiede se stia bene. Preoccupazione manifestata anche da Thomas nel momento in cui Signe arriva a destinazione: quest’ultima, infatti, si guarda bene dal comunicargli fin da subito che non è lei a essere stata ferita, nonostante le apparenze. Al contrario, tutti i movimenti, le espressioni e le parole che utilizza in tale circostanza sono studiati in modo da accrescere l’effetto drammatico della propria ‘entrata in scena’ – effetto che si sforza di mantenere, nelle settimane successive, davanti a chiunque si ritrovi a raccontare ossessivamente l’accaduto. Solo la scena in cui Signe – finalmente sola, senza un ‘pubblico’ – rievoca il momento dell’incidente sulla scorta di un’associazione freudiana tra una macchia rossa di marmellata e il sangue della vittima suggerisce che l’episodio l’abbia davvero turbata, almeno a livello inconscio. Ma, per citare il ribaltamento operato da Guy Debord a una celebre formula hegeliana: “Nel mondo realmente rovesciato, il vero diventa un momento del falso” (il corsivo è mio) (4). La narrazione dell’evento assume maggiore rilevanza dell’evento stesso. E Signe ha ormai capito come sfruttare a proprio vantaggio un simile status quo – dove, tra le altre cose, vige quello che potremmo definire un ‘feticismo della vittima’ – tanto che, dal suo punto di vista, si potrebbe considerare la disgrazia occorsa alla donna una vera e propria epifania.
Così, quando partecipa alla cena in onore di Thomas, dopo l’inaugurazione della mostra, si inventa un’inesistente allergia alle nocciole, per poi inscenare uno shock anafilattico proprio durante il discorso del fidanzato; il quale, del resto, si dimostra maggiormente preoccupato dal fatto che i commensali non stiano più a sentire le sue asserzioni trite e ritrite sulla solitudine dell’artista – autocelebrazione da cui il ruolo di Signe in quanto complice dei furti di Thomas viene accuratamente omesso – invece che dall’eventualità che la ragazza si senta davvero male. Il narcisismo, come abbiamo visto, ha assunto ormai le proporzioni di una malattia sociale, dalla quale nessuno risulta immune. Nemmeno il cameriere del ristorante dà prova di una reale empatia nei confronti di Signe, a inquietarlo sono piuttosto le ripercussioni legali verso cui potrebbe incorrere: “Solo per chiarirci, tutti i piatti sono stati messi nel posto giusto. Tutti voi l’avete vista mangiare dal suo piatto [quello di Thomas, n.d.a.], giusto? Sono stato molto cauto”. Addirittura, in una scena seguente, Signe arriva a provocare un cane, sperando che la morda, in modo da sentirsi di nuovo al centro dell’attenzione: infatti, se è vero che, secondo Lasch, il narcisismo ha sostituito alla logica del miglioramento di sé quella dell’autoconservazione, in un’epoca talmente ‘rarefatta’ in cui si arriva a dubitare persino della propria esistenza, autoconservazione/sopravvivenza significa innanzitutto essere notati dagli altri; al cogito ergo sum di Cartesio si sostituisce la formula spector ergo sum (mi guardano, dunque sono); ed è, dunque, paradossale, ma drammaticamente realistico sul piano psicologico, che Signe metta a repentaglio la sua stessa vita, pur di ‘sopravvivere’ in questi termini…
Che sono poi i termini della merce. Quanto la ragazza va cercando disperatamente non è altro che una vetrina in cui massimizzare il proprio grado di reificazione. E non potrebbe essere altrimenti in un mondo in cui la pubblicità, i social-network, la televisione – i mass media, in generale – non fanno altro che passare il meta-messaggio secondo cui a esistere non sono gli esseri umani o le cose, bensì le loro immagini. Per dirla con Lasch: “La proliferazione di immagini registrate minaccia il nostro senso della realtà. Come osserva Susan Sontag nel suo studio sulla fotografia, «sembra che la realtà somigli sempre più a ciò che vediamo attraverso la macchina fotografica». Diffidiamo delle nostre percezioni, fino a quando la fotografia non le conferma. Le immagini fotografiche ci danno la prova della nostra esistenza, senza la quale avremmo delle difficoltà a ricostruire persino la nostra storia personale” (5). Dimodoché diventare immagine si pone quale unica maniera di assumere una ‘reale’ consistenza ontologica…
Anche se si tratta dell’immagine di un mostro. Sì, perché, dopo aver letto una notizia in rete relativa a un medicinale che, per un effetto collaterale, provocherebbe degli orribili sfoghi sulla pelle, Signe si risolve, infine, a procurarsi tale farmaco per assumerlo con l’intenzione precisa di ammalarsi. Degno di nota il fatto che il Lidexol – questo il nome del prodotto – sia un tranquillante simile allo Xanax, ma più potente, poiché, come spiega Lasch, a caratterizzare i nevrotici odierni, a differenza di quelli studiati da Freud all’epoca dell’organizzazione capitalistica nella fase iniziale del suo sviluppo, non è più un fondamentale senso di colpa, bensì un’ansia continua e smisurata, ribadita, nel lavoro di Borgli, dai numerosi sogni – o incubi – a occhi aperti fatti da Signe in vari momenti della storia, con particolare riferimento all’anamnesi kafkiana a cui la sottoporrebbe un medico, dopo essere stata ricoverata in ospedale: “Ho visto i risultati. È veramente sconvolgente. Apparentemente hai fatto abuso di droghe illegali. È per questo che stai male. Vediamo che c’è un motivo ricorrente. Dici tante bugie. La tua personalità non è il massimo. Non sei la persona più divertente alle feste. Anche il tuo senso dell’umorismo non è il massimo. In particolare, il modo in cui imiti delle caricature razziste di fronte allo specchio per divertirti. Era da un po’ che non vedevo una cosa del genere su una TAC”. Per dirla con Lasch: “[…] la propaganda trasforma in merce l’alienazione stessa. Essa si appunta sulla desolazione spirituale della vita moderna per proporci il consumo come rimedio. Non solo promette di mitigare quell’infelicità che da sempre è retaggio della carne; crea o esaspera nuove forme di infelicità – l’insicurezza personale, la preoccupazione per il proprio status sociale, nei genitori il timore di non riuscire a soddisfare i bisogni dei figli. Avete l’aria un po’ dimessa in confronto ai vostri vicini? La vostra macchina è meno potente della loro? I vostri figli sono altrettanto robusti? Altrettanto benvoluti? A scuola vanno bene come i loro? La pubblicità istituzionalizza l’invidia e i suoi tormenti” (6). Da qui il massiccio abuso di psicofarmaci – ansiolitici e antidepressivi, in particolare – che contraddistingue l’Occidente postmoderno. Inoltre, in rapporto al tema del narcisismo in quanto ‘fuga dal sociale’, risulta emblematica la figura di Stian (Steinar Klouman Hallert), lo spacciatore a cui Signe si rivolge per ottenere il Lidexol. Caratterizzato da un rapporto al contempo conflittuale e di assoluta dipendenza dalla madre, con la quale vive praticamente recluso in casa, egli incarna alla perfezione il concetto di hikikomori in salsa norvegese. Non per niente, subito dopo aver accolto Signe nel suo appartamento, le chiede ancora scusa per averle inviato in passato una foto in cui tentava di praticarsi un’auto-fellatio: al di là dell’immediato effetto comico/patetico della battuta, risulta chiaro il suo significato simbolico in relazione al tema dell’immagine (la foto) e, ancora di più, a quello del ripiegamento su se stessi da parte degli individui, resi ormai incapaci di avere un rapporto ‘dialogico’ con la realtà circostante, terrorizzati dal loro stesso essere-nel-mondo.
In breve, gli effetti collaterali del Lidexol si fanno sentire su Signe, all’inizio in forma relativamente leggera; in seguito, dopo aver ingerito una dose particolarmente pesante del farmaco, poiché Thomas non sembrava preoccuparsi abbastanza per lei, in maniera devastante. Il volto della ragazza, più che piacente fino ad allora, si gonfia e si squama, riempiendosi di ecchimosi e ferite; un processo di abbruttimento in cui si condensa, sul piano metaforico, la morte della bellezza – intesa, quest’ultima, nel senso più ampio del termine, riferita a tutto ciò che è in grado di dare un significato davvero umano alla vita – in una società ridotta a un mero contenitore di merci. Ed è straziante osservare il compiacimento con cui Signe accoglie le scuse di Thomas in ospedale, il quale, tuttavia, non dimentica di portarle una copia di D2, un’importante rivista di arte e design, per cui era stato intervistato in precedenza, con tanto di servizio fotografico: la competizione narcisistica insita nella coppia postmoderna non si ferma davanti a niente. Persino a letto, dopo essere stata dimessa, il viso coperto da un fitto strato di bende – elemento dal chiaro valore simbolico in relazione al concetto di immagine, inquadrata qui nei termini di maschera pirandelliana – Signe chiede a Thomas di ripetere quanto gli dispiace per lei e quanto si fosse preoccupato, al punto che temeva che sarebbe morta; al che la ragazza pretende le venga descritto il suo stesso funerale, come se si trattasse di un grande evento – qualcosa di simile a un concerto o una serata di gala, con invitati addirittura dall’estero e una lista all’ingresso per accoglierli – il tutto mentre i due fanno sesso! Evidente qui un’allusione alla dimensione dell’Eros strettamente intrecciata a quella del Thanatos che, nell’analisi di Lasch, si collega sempre, non tanto al declino del Super-Io, quanto alla modificazione del suo contenuto: “L’inadeguatezza dei genitori a fungere da modelli di autocontrollo o la loro incapacità di frenare il bambino non si traducono automaticamente in un’assenza di Super-Io nel bambino che diventa adulto. Favoriscono, al contrario, lo sviluppo di un Super-Io rigido e punitivo basato in larga misura su raffigurazioni arcaiche dei genitori, amalgamate con grandiose rappresentazioni di sé. In queste condizioni, il Super-Io consiste in immagini introiettate dei genitori piuttosto che in modelli di identificazione. Esso indica all’Io standard elevati di fama e successo e lo punisce con selvaggia ferocia quando si rivela inferiore agli standard proposti. È questa l’origine delle oscillazioni della stima di sé che spesso compaiono in casi di narcisismo patologico. […] Le trasformazioni sociali che impediscono al bambino di interiorizzare l’autorità parentale non hanno abolito il Super-Io, ma hanno semplicemente intensificato l’alleanza tra Super-Io e Thanatos – quella «autentica cultura dell’istinto di morte», come è stata chiamata da Freud, che scatena contro l’Io un fiume di critiche aspre e implacabili” (il corsivo è mio) (7).
Ricapitolando: i mutamenti nella sfera sociale dovuti all’evoluzione del capitalismo dalla fase di accumulazione a quella consumistica mandano in crisi il concetto di autorità, crisi che si manifesta in vari ambiti, non ultimo quello della famiglia; per i motivi che abbiamo visto, ciò determina la formazione di un Super-Io tanto più severo e implacabile, che, insieme all’ansia, alla ricerca di gratificazioni immediate, a un perenne senso di insoddisfazione, alla mancanza di empatia e/o solidarietà, a un rapporto lacerato con il tempo, costituisce uno dei tratti essenziali della personalità narcisistica. Da questo punto di vista, risulta estremamente significativo, nel film di Borgli, il rapporto conflittuale di Signe con il padre assente, il quale, nelle fantasie della ragazza – insieme a un’amica colpevole di non essere venuta a trovarla in ospedale – non dovrebbe essere nemmeno ammesso al suo funerale. Assenza, questa del padre, che nell’analisi di Lasch trova una precisa collocazione in merito alla sopracitata formazione del Super-Io su immagini dei genitori, piuttosto che su modelli in carne e ossa, passibili di un confronto costruttivo con la realtà; collocazione rispetto alla quale va, tuttavia, tenuto conto del periodo storico in cui l’autore scriveva, quando, se è vero che da una parte avveniva già una pseudo-emancipazione femminile sul piano del lavoro – pseudo in quanto nel sistema capitalistico il lavoro è sempre alienato – dall’altra sussisteva ancora una divisione abbastanza netta dei ruoli tra uomo e donna all’interno della famiglia: “La produzione industriale strappa il padre al nucleo domestico e riduce il suo ruolo nella vita conscia del bambino. La madre cerca di compensare il bambino della perdita del padre, ma spesso le mancano le cognizioni pratiche sull’educazione dei figli, si rende conto di non riuscire a capire i bisogni del proprio e dipende dagli esperti esterni in misura tale che le sue premure non riescono a fornire al figlio un senso di sicurezza. Entrambi i genitori aspirano a trasformare la famiglia in un rifugio dalle pressioni esterne, ma gli stessi standard sui quali misurano i propri risultati e i sistemi cui ricorrono per conseguirli, derivano ampiamente dalla sociologia industriale, dall’organizzazione del personale, dalla psicologia infantile, vale a dire, in definitiva, dall’apparato organizzativo del controllo sociale. Gli sforzi della famiglia per uniformarsi a un ideale imposto dall’esterno di solidarietà familiare e di centralità della figura del genitore danno luogo a una parvenza di solidarietà a spese della spontaneità, a un rituale obbligato degli ‘affetti’ svuotato di ogni contenuto” (8). Va precisato, inoltre, che, nel caso di Signe, non è la produzione industriale nei termini di tempo di lavoro contrapposto a tempo di vita a strapparle il padre, poiché quest’ultimo ha scientemente abbandonato moglie e figlia – abbandono in cui riecheggia il tema del narcisismo in relazione a un massiccio processo di deresponsabilizzazione, dovuto anche e soprattutto alla stimolazione dei desideri infantili operata dalla pubblicità. Infatti: “Funzione della pubblicità non è tanto reclamizzare un prodotto quanto promuovere a modo di vita il consumo. Essa ‘educa’ le masse a nutrire un’insaziabile avidità non solo di merci, ma di nuove esperienze e di realizzazione personale” (9). Dimodoché i concetti di ‘amore’ e ‘significato’ come devozione a qualcosa che trascenda il proprio ego, a livello culturale, vengono vissuti come oppressioni intollerabili, offese al buon senso, nocivi alla salute e al benessere individuale.
D’altra parte, il rapporto che la ragazza ha con la madre risulta estremamente artefatto e superficiale. Lungi dal mostrarsi seriamente preoccupata per la figlia, la donna si limita a suggerirle di frequentare un centro olistico che, dal suo punto di vista, costituirebbe la panacea per ogni male – luogo simbolo della forma presa dalla pseudo-consapevolezza di sé (Lasch) nell’ambito della corrente New Age, divenuta estremamente popolare in Occidente a partire dagli anni Settanta, quando la diffusione delle filosofie orientali in salsa ‘pop’, cominciata negli Stati Uniti e proseguita poi nel resto dei Paesi a capitalismo avanzato, coincideva con una generale tendenza alla spoliticizzazione dell’individuo. Poiché l’organizzazione sociale basata sulla logica della competitività – una lotta di tutti contro tutti che, dagli strati inferiori, dove ha sempre infuriato senza sosta, si propaga, camuffata da edonismo, al resto della società, con particolare riferimento al ceto medio – trasforma il disagio collettivo in problemi personali da sottoporre a intervento terapeutico, appunto i terapeuti sono diventati i più importanti alleati del narcisista nella lotta per raggiungere un equilibrio: “[…] è a loro che si ricorre nella speranza di conseguire il moderno equivalente della redenzione, la ‘salute mentale’. La terapia si è definitivamente imposta come erede dell’individualismo primitivo e della religione, ma non nel senso che il ‘trionfo del terapeutico’ sia diventato automaticamente una nuova religione. La terapia costituisce, infatti, una forma di anti-religione, e non certo perché si attenga a spiegazioni razionali o a metodi scientifici, come vorrebbero farci credere gli addetti ai lavori, ma piuttosto perché la società moderna ‘non ha futuro’, e per questo qualunque cosa trascenda i bisogni immediati non viene presa in considerazione” (10). Senonché la logica della competitività penetra anche nel gruppo di sostegno frequentato da Signe, come dimostra la scena in cui, mentre lei sta parlando della sua ‘misteriosa’ malattia, viene interrotta da un’altra paziente al grido che la propria patologia sarebbe molto peggiore di quella della ragazza. Persino il dolore, da esperienza potenzialmente formativa, si trova a essere banalizzato nei termini di una prestazione: vince chi soffre di più.
Del resto, Signe è decisa a ‘capitalizzare’ al massimo – in termini di spettacolo – la propria condizione. Ed è qui che rientra in scena il personaggio di Marte, l’amica giornalista alla quale avevamo accennato più sopra. L’intervista che Signe riesce, infine, a strapparle nel salotto di casa propria, realizzata ‘a colpi’ di flash e domande e risposte strappalacrime, è il doppio speculare di quella fatta precedentemente a Thomas, il quale, non per niente, si dichiara preoccupato dal fatto che nelle foto possa vedersi lo stesso sfondo, con particolare riferimento a una sedia che dichiara di voler esporre alla sua prossima mostra – “Se la usi in questo modo, rovina un po’ il modo in cui la userò più avanti, non come oggetto; così c’è già stata nei media” – correlativo oggettivo del processo di ‘distorsione semantica’ che subisce la realtà sottoposta alla lente mediatica. Il leitmotiv della specularità emerge, inoltre, nel binomio di scene che descrivono una cena tra Signe, Thomas e un’altra coppia di amici, Yngve (Fredrik Stenberg Ditlev-Simonsen) ed Emma (Sarah Francesca Brænne). Se la prima volta è Thomas a trovarsi al centro dell’attenzione in virtù del proprio vernissage alla Codard, in seguito è Signe, già sfigurata dalla malattia, a raccontare di essere stata presa come modella da un’agenzia specializzata nel ‘settore’ dell’inclusività. In entrambi i casi, i due fidanzati si alternano nello sminuire i successi dell’altro, il che rimanda ovviamente al tema della competitività; ma ciò che è più interessante notare qui è lo stretto legame tra il narcisismo e la dimensione del politicamente corretto, così come viene descritto da Jonathan Friedman nel suo saggio Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime (11), in relazione alla carriera di Signe nel mondo della moda.
Tesi fondamentale dell’antropologo statunitense naturalizzato svedese è che il declino del modernismo in combinazione a una ‘ristrutturazione valoriale’ all’interno delle élite occidentali – interessate, già dopo la fine dell’esperimento sovietico, con il processo di globalizzazione in corso, a promuovere l’ideologia neoliberista alla stregua di un nuovo progressismo – abbia portato con sé una crisi del pensiero razionale che si traduce in uno spostamento dell’attenzione dal contenuto e dall’intenzionalità delle affermazioni alla loro indessicalità. In altre parole, conta più il contesto sociale in cui un’idea o un giudizio vengono espressi che non la loro sostanza effettiva; l’aderenza a una particolare identità piuttosto che la comprensione e l’analisi di un dato fenomeno. Da qui il proliferare di discorsi e pratiche ‘inclusivi’ che poco hanno a che fare con una sincera sensibilità verso categorie sociali realmente discriminate e/o marginalizzate e molto, invece, con la logica gattopardesca del potere: tutto cambia affinché nulla cambi davvero. Tale trasformazione che – secondo il precetto marxiano per cui le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti – si propaga dalle élite ai ceti inferiori, fino a imporsi all’intera collettività, esaspera la dinamica del narcisismo, tanto più che avviene in un periodo storico in cui l’individuo si trova costantemente esposto a messaggi di morte, legati al pericolo effettivo di un nuovo conflitto mondiale e/o una catastrofe climatica, senza contare l’ormai perenne crisi economica, la sperequazione e la guerra tra poveri che ne deriva in rapporto a una drammatica incoscienza di classe. Per dirla con Friedman: “Classifichiamo sempre in categorie gli interlocutori nel mondo sociale in cui ci muoviamo, e tra i diversi classificatori ci può essere più o meno corrispondenza. Ma questo processo di classificazione o di identificazione interferisce con le pratiche più razionali e critiche soltanto laddove la sfera pubblica della critica razionale si è indebolita. Questo accade in condizioni di instabilità sociale particolarmente critiche, quando il soggetto inizia a perdere i suoi punti di appoggio e il suo senso di identità personale. Il declino del modernismo crea le condizioni di insicurezza che portano a una crescente dipendenza dal riconoscimento altrui del Sé, ossia a un crescente narcisismo. In una situazione in cui il soggetto perde la sua sicurezza ontologica, l’identificazione relativa diventa più importante del contenuto della comunicazione. Il valore sociale diventa più potente del contenuto semantico. Essere dalla parte giusta e fare la cosa giusta diventano strumenti di controllo intellettuale sempre più potenti” (12).
L’atmosfera che si respira all’interno dell’agenzia di modelle per cui Signe inizia a lavorare è appunto questa, basata su una netta cesura tra la realtà e le sue rappresentazioni, come dimostrano le scene in cui l’assistente cieca di Lisa (Andrea Bræin Hovig), la principale, chiamata a offrire a Signe un bicchiere d’acqua, dimostra, com’è ovvio, delle difficoltà oggettive a espletare il compito; cecità che, secondo la lezione shakespeariana – si pensi alla gobba di Riccardo III, correlativo oggettivo della sua deformità morale – andrebbe letta anche sul piano simbolico in quanto ‘cecità sociale’, applicata alla dimensione del politicamente corretto nel modo descritto da Friedman, rispetto alla quale, aggiungiamo noi, si potrebbe parlare di una regressione a una sorta di idealismo infantile, per cui non conta il mondo così com’è davvero, bensì come dovrebbe essere, a prescindere dalle questioni strutturali da affrontare perché avvenga un’effettiva trasformazione. Ovviamente non si tratta di negare il diritto a chiunque – disabile o meno – a condurre una vita piena e soddisfacente: il j’accuse di Borgli, come abbiamo visto, è diretto al meccanismo di ‘feticizzazione della vittima’ operante all’interno della società dello spettacolo, insista già nella riduzione al ruolo di vittima che subiscono i soggetti appartenenti a determinate categorie – per quanto vittime ‘forti’, secondo la narrazione woke, capaci di superare tutte le difficoltà che l’esistenza pone loro davanti. In ciò l’empatia e la sensibilità non c’entrano affatto, se non a livello di strumentalizzazione di tali sentimenti: in pratica, è ancora il Capitale che, nel suo processo di sussunzione della vita – iniziato subito dopo la fase di accumulazione, durante la quale a essere sussunto era ‘solo’ il lavoro – riesce a trasformare in merce persino la malattia. Un cinismo mascherato da filantropia ben rappresentato da Lisa, la quale – e a emergere qui è ancora il tema della deresponsabilizzazione – fa firmare a Signe un contratto dov’è previsto che la propria azienda venga esentata da ogni ripercussione legale, nel caso in cui la ragazza dovesse sentirsi male durante il lavoro; il che accade puntualmente.
Degno di nota il fatto che, al momento del colloquio, Signe è ancora relativamente piacente, almeno secondo gli attuali standard di bellezza occidentali; così come la modella di punta dell’agenzia, la quale, a parte soffrire di micromelia a una mano, si dimostra addirittura radiosa nella sua perfetta aderenza al canone. Appunto in tale modella Signe vede una rivale da abbattere – ennesimo riferimento al tema della competitività – anche a costo di rinchiuderla in bagno, mentre si trovano entrambe sul set per la reclame di una marca di vestiti unisex, pubblicizzati come ‘inclusivi’; tanto più che gli effetti collaterali del Lidexol hanno ormai portato la ragazza a perdere quasi tutti i capelli, oltre a sviluppare degli spasmi muscolari e un’inquietante tendenza a vomitare sangue. L’imbarazzo con cui viene accolta da Lisa e altri membri della troupe il giorno del servizio fotografico è emblematico dell’ipocrisia che regna all’interno di certi ambienti: sembra che l’inclusività nella moda valga solo per chi, pur presentando delle patologie, non superi determinati livelli di ‘bruttezza’. Senonché Signe si mostra realmente portata per quel lavoro, tant’è che il regista/fotografo, interpretato dallo stesso Borgli – particolare dal chiaro significato metanarrativo in relazione alla sussunzione operata dal Capitale anche nei confronti di tutto ciò che rappresenta una critica allo status quo, circostanza dalla quale non sfuggirebbe neppure lo stesso film Sick of myself; ma di questo aspetto parleremo meglio a breve – il regista, dicevamo, vorrebbe girare un video in cui la ragazza pronuncia lo slogan del marchio pubblicizzato: “Regardless significa che mi va bene”. Ed è a questo punto che Signe, dopo aver iniziato a sanguinare dalla fronte, crolla al suolo, preda degli spasmi. Ciò che avviene qui è un’irruzione traumatica del reale nella dimensione dell’immagine; irruzione vissuta parallelamente anche da Thomas, arrestato per il tentato furto di alcuni mobili in un negozio di arredamento, dopo essere stato riconosciuto dalla commessa, la quale aveva notato significativamente la foto dell’artista – o presunto tale – sulla copertina della rivista D2, sotto il titolo: Thomas il ladro. In termini tragici, si potrebbe considerare tale accadimento una punizione divina per il peccato di hybris, che, nel caso specifico, assume la forma di un vero e proprio contrappasso: la celebrità si ritorce contro colui che aveva fatto di tutto pur di ottenerla.
A questo punto, ci si aspetterebbe che Signe, se non altro, abbia imparato la lezione; e, invece, no. Quando si risolve, infine, a confessare tutto a Marte – il fatto, cioè, che la propria non fosse una malattia ‘misteriosa’, bensì autoindotta – tale confessione è pronunciata ancora nella speranza che questo le conferisca visibilità. La sua non è una redenzione, ma una pseudo-redenzione; non una consapevolezza, ma una pseudo-consapevolezza. E sono struggenti, nella loro pateticità, le scene che descrivono i sogni a occhi aperti di Signe – moderna madame Bovary – secondo cui, in seguito alle sue rivelazioni, Marte le proporrebbe addirittura di scrivere un libro, destinato ovviamente a ottenere un successo planetario. Di nuovo: nel mondo realmente rovesciato, il vero diventa un momento del falso. Per questo, come accennavamo più sopra, qualsiasi forma di critica al capitalismo è stata destinata, finora, a essere sussunta dallo stesso Capitale: nella società dello spettacolo, nessuno può considerarsi seriamente un’alterità – contro a o fuori dal sistema.
Senonché Marte non ci sta. Quando Signe termina la sua confessione, è ancora un calcare, da parte di Borgli, sul tema dell’irriducibile dicotomia tra la realtà e le sue rappresentazioni – il penoso scarto tra la scena immaginata dalla ragazza e la situazione in cui effettivamente si trova con l’amica giornalista; la quale le fa capire chiaramente che lei non è una vittima innocente, poiché ha sempre avuto la facoltà di scelta – quel libero arbitrio che Signe pretenderebbe, in teoria, essere negato a chiunque. Così Borgli si accomiata dallo spettatore, con un’ulteriore stoccata sul tema della deresponsabilizzazione quale tratto tipico della personalità narcisistica, prima di offrirci un’ultima immagine di Signe sdraiata a terra presso il centro olistico, impegnata a ripetere tra le lacrime: “Amo vivere!” – emblema dello spreco e della farsa grottesca a cui si riduce l’esperienza umana, distorta, oppressa, reificata, sotto l’azione aberrante dello spettacolo.
1) Christopher Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, Bompiani
2) Ibidem
3) Ibidem
4) Guy Debord, La società dello spettacolo, Dalai Editore
5) Christopher Lasch, op. cit.
6) Ibidem
7) Ibidem
8) Ibidem
9) Ibidem
10) Ibidem
11) Per un approfondimento del tema, rimandiamo a Giovanna Cracco, Contro il politically correct, Paginauno n. 73, luglio 2021
12) Jonathan Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi

