La ripresa economica che non c’è: il fallimento del Quantitative Easing: quando le iniezioni di denaro continuano ad alimentare il capitalismo finanziario speculativo
Si parla tanto di ripresa internazionale. I dati ci mostrano soltanto dei piccoli incrementi in alcuni settori della produzione, mentre tutto il resto rimane inchiodato sul binario morto della speculazione. In più, il capitalismo mondiale sta mettendo in campo una serie di tentativi di soluzione alla crisi che vanno dal Quantitative Easing all’erogazione di tassi negativi. In questa perversa situazione della crisi del capitalismo, dove l’economia reale stenta a produrre nuove remunerazioni e dove la speculazione continua a farla da padrone, anche il risparmio gestito è finanza a tutti gli effetti e la continua individuazione di ‘sicuri’ ambiti finanziari mette in drammatica evidenza come lo stimolo speculativo, nato dalla crisi dell’economia reale strozzata da bassi saggi del profitto, continui a stare alla larga dalla produzione, aggravando il rischio di collasso del sistema economico globale.
Quegli stessi analisti che ieri non hanno individuato il manifestarsi della crisi né, tanto meno, le sue cause, oggi ci informano che il peggio è passato, che la crisi è finita e che, con un po’ di buona volontà (leggi ancora sacrifici per i lavoratori), il futuro è roseo come un cielo in un tramonto senza nubi. È pur vero che la borghesia internazionale le ha tentate tutte pur di sopravvivere alle devastanti conseguenze della crisi economica che essa stessa ha prodotto, inasprendo le peggiori contraddizioni del sistema capitalistico. È anche vero che, dopo aver messo sul lastrico decine di milioni di persone, dopo aver ridotto considerevolmente il già scarso stato sociale e reso la precarietà lavorativa l’unica certezza di questo mondo, al pari dell’aumentato sfruttamento per chi il lavoro ce l’ha, la borghesia internazionale si è rivolta in tutti i modi alla finanza per far riprendere la macchina produttiva, ferma ormai da più di sette anni. In termini semplici, si è tentato di far riprendere la marcia alla inceppata macchina della produzione di plusvalore agendo sulla svalorizzazione della forza lavoro e sul ritorno dei capitali all’interno dell’economia ‘reale’.
Mentre sul primo dei fattori l’azione è stata veloce e profonda (decurtazione dei salari diretti e indiretti, aumento delle tasse, meno stato sociale, meno garanzie sul lavoro e sul posto di lavoro, maggiore disoccupazione e intensificazione dello sfruttamento), sul secondo i tentativi sono rimasti al palo, producendo ben pochi o nulli risultati. Nel circuito perverso dei meccanismi economici del capitalismo si investe solo se ci sono prospettive di guadagno per il capitale, se ci sono profitti in grado di soddisfare le esigenze di valorizzazione del capitale investito. Se queste prospettive non ci sono, il capitale fugge dall’economia reale, non si investe e si indirizza verso la speculazione, nella speranza di trovare in quell’area quelle ‘soddisfazioni’ economiche che la produzione non gli garantisce più o gli garantisce solo in termini insufficienti.
È esattamente quello che è successo nella recente crisi. I bassi saggi del profitto hanno spinto i capitali, americani soprattutto ma non solo, a fuggire dalla produzione per andare a gonfiare le bolle speculative che, una volta scoppiate, hanno travolto la già precaria economia mondiale. Per gli analisti di cui sopra l’insegnamento è stato folgorante. Per loro e per tutti gli addetti ai lavori è invalsa l’abitudine di usare un’espressione sintetica di cui lo stesso Obama ha voluto fare largo uso all’indomani dello scoppio della crisi: “Mai più un’economia di carta, mai più rincorrere i falsi miraggi della speculazione, occorre ritornare all’economia reale”.
Ma a danni fatti e fermi restando tutti i termini dell’economia capitalistica, la domanda è: che cosa può convincere i capitali ad abbandonare il mondo della speculazione per ritornare a quello della produzione? Semplice, risponderebbe lo stesso presidente degli Stati Uniti all’unisono con il capo della Federal Reserve, seguito dal codazzo dei soliti analisti: aiutando in tutti i modi possibili i capitali e chi li gestisce (banche centrali, banche d’interesse nazionale, fondi d’investimento, compagnie di assicurazione, istituzioni finanziarie e finanziatori di ogni risma) a ritornare a essere, attraverso ingenti finanziamenti statali e agevolazioni normative, il motore propulsore dell’economia.
Detto e fatto. Prima negli Usa poi in Giappone e infine anche nell’Europa dell’euro, le banche centrali hanno cominciato a sostenere la sfera finanziaria in pesante crisi di liquidità e in sofferenza da inesigibilità di molti crediti, con il ripulire le sue casse dalla presenza dei titoli tossici da essa stessa prodotti, con il ripianare i suoi bilanci e con il favorire la ricapitalizzazione dei maggiori istituti di credito. Il tutto ovviamente a spese del contribuente. La fase successiva è consistita nel drastico abbassamento dei tassi d’interesse con lo scopo di riattivare i canali del credito che, a loro volta, avrebbero dovuto finanziarie la ripresa degli investimenti e, quindi, a cascata, dell’intero sistema economico.
In terza battuta, le banche centrali hanno cominciato ad acquistare titoli pubblici con lo scopo di immettere ulteriore liquidità nei soliti istituti di credito che li detenevano. Il risultato sperato era che, attraverso queste manovre, si aumentasse il prezzo dei titoli a lunga scadenza diminuendone il rendimento e si contenessero ulteriormente i tassi di interesse. Checché se ne dica, il disposto combinato di questi tre fattori ha sortito risultati scarsi, in alcuni casi quasi nulli.
Negli Usa, che sono partiti abbondantemente per primi, così come nell’area euro, dove le misure sono partite in ritardo perché ‘appesantite’ da politiche restrittive, la prima ondata di iniezioni di capitale fresco verso le banche non si è trasformata in un inizio di ripresa dei finanziamenti verso le industrie ma, al contrario, la nuova disponibilità finanziaria è servita a gonfiare ancora di più la speculazione, sia verso titoli di Stato esteri, particolarmente appetibili dati i loro alti tassi di interesse, sia verso il mercato delle materie prime, petrolio innanzitutto, sino al tracollo del suo prezzo. Il che non significa che nessuna quota di questo capitale sia andata all’economia reale, significa soltanto che c’è andata con il contagocce e a tassi di interesse elevatissimi, nonostante il bassissimo costo del danaro.
Il che ha lasciato le cose sostanzialmente come stavano. Il perdurare della stagnazione ha costretto la Federal Reserve ad accompagnare le misure prese con un ulteriore incentivo finanziario che va sotto il nome di Quantitative Easing, alleggerimento quantitativo (QE), che consiste in uno dei modi indiretti di creazione di moneta da parte della banca centrale, con relativa immissione di liquidità, attraverso operazioni di mercato aperto, nel sistema finanziario, prima, e nella solita speranza che arrivi, poi, nella sfera della produzione di merci e servizi.
Nel caso di uso del QE, la banca centrale acquista, per una somma di capitale predeterminata e precedentemente annunciata, attività finanziarie dagli istituti di credito come azioni, obbligazioni o titoli di vario genere, inizialmente soprattutto quelli tossici, per incidere positivamente sulle loro strutture di bilancio. Passa poi all’acquisto di titoli di Stato che, di solito, avviene attraverso l’indizione di apposite aste. In realtà, nulla di nuovo rispetto alle tre misure di cui abbiamo fatto cenno in precedenza, solo che il QE finisce per avere la precedenza rispetto ad altri interventi finanziari e a essere più diretto e veloce.
Anche in questo caso la Federal Reserve ha anticipato la Bce. Sin dagli inizi della crisi fino al 2014, l’istituto americano ha sborsato, nell’arco di tre fasi, la bellezza di 3.500 miliardi di dollari per immettere liquidità, per deprezzare il dollaro, per diminuire i tassi di interesse sui buoni del Tesoro, nell’intento di far ripartire l’economia e la domanda interna. Misure ‘necessarie’, ma che in realtà avevano come scopo principale quello di far sì che il dollaro continuasse a essere la divisa guida negli scambi commerciali e rafforzasse il suo ruolo di bene di rifugio da un punto di vista speculativo. In altri termini, l’immissione di 3.500 miliardi di dollari nella sfera finanziaria doveva sì contribuire a far riprendere l’attività creditizia a favore dell’economia, ma, soprattutto, a ‘convincere’ i mercati finanziari che il dollaro era sempre il dominus monetario di cui l’economia internazionale non poteva fare a meno.
La Bce ne ha seguito le orme solo a partire dalla seconda metà del 2014, quando l’esperimento americano andava esaurendosi. Quali i risultati dell’intenso ricorso al QE? Negli Usa la ripresa si è espressa soltanto parzialmente e con gravi problemi di ordine sociale ed economico. Intanto l’enorme esborso di capitale finanziario effettuato dalla Fed ha avuto come risultato quello di creare un innalzamento del debito pubblico, che è arrivato a toccare ufficialmente il 105%, con un incremento del 72%. Per altri analisti, non appiattiti sulle cifre propaganda del governo, si sarebbe arrivati al 120%, perché l’esborso di miliardi effettuato dalla Fed sarebbe di molto superiore a quello dichiarato, grazie a una serie di finanziamenti occulti o comunque non ufficiali, quindi non a bilancio, verso imprese e istituti di credito di seconda fascia.
Molti Stati, soprattutto quelli del sud, sono sull’orlo della bancarotta e hanno potuto erogare gli stipendi ai dipendenti pubblici solo grazie all’intervento del governo che ha innalzato per legge il tetto del debito federale. E a proposito di debiti, se si sommano quelli privati a quelli pubblici, si arriverebbe all’astronomica percentuale del 520% del Pil, il che ha comportato la stampa di un’enorme quantità di biglietti verdi, che ormai non valgono nemmeno la carta su cui sono stampati. Ma la cosa è possibile alla sola condizione che la divisa americana sia sostenuta con la forza del ruolo imperialistico degli Usa. Solo così si spiega come, a fronte di un enorme indebitamento interno e con l’estero, riescano a imporre l’egemonia del dollaro sul mercato monetario internazionale, a convogliare al proprio interno miliardi di dollari sotto forma di investimenti speculativi sul dollaro stesso e sui migliori asset dell’economia americana, nonostante essa sia stata alla base della crisi internazionale e che, ancora oggi, abbia voci di deficit enormi che la collocherebbero tra i Paesi a più alto rischio.
Solo a queste condizioni è potuto accadere che, in piena crisi, tra il 2009 e il 2013, si sono riversati negli Usa 2.510 miliardi di dollari a fronte dei 2.600 stampati dalla Fed per le prime due quote del QE. In pratica, gli Usa, in quella fase, non hanno speso un soldo per tentare di rivitalizzare la propria economia e per risanare i gravi dissesti dell’apparato finanziario messo in crisi dall’esplosione della bolla speculativa dei subprime tossici. Nello stesso periodo, 2009-2013, tra i maggiori finanziatori del debito federale Usa, oltre alla Cina con 543 miliardi di dollari per l’acquisto di bond, ci sono i 556 miliardi del Giappone 129 del Brasile, 60 dell’India, 32 del Regno Unito e a scalare un altro miliardo di dollari tra una ventina di Paesi minori. Senza il ruolo egemone del dollaro, non solo tutto ciò non sarebbe stato possibile, ma gli Usa si sarebbero trovati nella condizione di creare una voragine debitoria che li avrebbe messi in una situazione di non ritorno.
Intanto il governo Usa sbandiera un aumentato numero di occupati che avrebbe portato il tasso di disoccupazione al 5,4 sulla base di un poco credibile incremento medio di 200 mila posti di lavoro al mese. Il dato è assolutamente falso. A fronte delle cifre appena citate, vanno evidenziate quelle relative alla perdita di posti lavorativi, perché il dato di 200 mila non è il saldo attivo tra le due voci, ma è relativo soltanto a quelli creati ex novo a cui vanno sottratti gli altri. Per cui l’incremento ci può anche essere, ma in termini decisamente più contenuti.
In più, va aggiunto che, ormai da anni, sono centinaia di migliaia i (ex)lavoratori che hanno rinunciato a trovare un lavoro e che non appartengono a nessuna lista di disoccupazione, in altri termini sono completamente scomparsi dalle statistiche e, quindi, non risultano alla voce ‘disoccupati’. Un altro dato che va a confutare lo strombazzato 5,4 è fornito dal fatto che vengono considerati a tutti gli effetti come occupati quei lavoratori che sono impiegati a part time e lavoratori stagionali o, addirittura, lavoratori che prestano il loro servizio lavorativo, tra l’altro a salari di fame, soltanto qualche settimana all’anno. Più di un analista americano ha calcolato che la disoccupazione effettiva non è inferiore al 15% e che, nelle ipotesi più pessimistiche, potrebbe arrivare a sfiorare il 20%. Sempre secondo questi analisti, l’attuale livello di occupazione negli Stati Uniti è pari a quello che c’era nel 1978, ovvero la crisi avrebbe portato indietro il livello occupazionale di quasi quarant’anni.
Per quanto riguarda l’impatto sociale della crisi sulla distribuzione del reddito, dopo le dispendiose iniezioni di capitali a favore delle banche, secondo un’indagine dell’Università di Berkeley, il 95% degli aumenti di reddito tra il 2009 e il 2012 ha riempito le tasche dell’1% più ricco della popolazione. Mentre le entrate del rimanente 99% sono rimaste bloccate o, addirittura sono diminuite. Infatti, nella seconda metà degli anni ‘60 i salari rappresentavano il 51% del reddito lordo, nel 2007 erano già scesi al 45% e attualmente sono al 42%. Sempre secondo statistiche interne, ben 46 milioni di americani sopravvivono grazie alla carità di associazioni assistenziali che forniscono pasti e un minimo di prime cure a chi ne ha bisogno e non ha un centesimo per curarsi. Per cui quel poco di ripresa economica sta costando enormi quantità di capitali pubblici, un aumento della disparità sociale, maggiore sfruttamento e disoccupazione tra i lavoratori oltre a un significativo aumento della miseria, vero e proprio processo di pauperizzazione, in quella che viene considerata la punta avanzata del capitalismo occidentale.
Adesso tocca a noi ma senza il potere del dollaro
Nell’area Ue, con qualche anno di ritardo, si sono fatte le stesse cose: abbassamento dei tassi di interesse, sostegno agli istituti di credito e poi il QE (dalla fine del 2014 per un ammontare di poco più di 1.100 miliardi di euro) per raddrizzare una situazione economica che non ne voleva sapere di ripartire. Conclusioni? Zero o quasi, a parte la Germania, sempre stata al di sopra della media degli altri Stati europei per competitività economica-commerciale e per capacità finanziarie, che è riuscita a galleggiare un po’ meglio nelle acque torbide della crisi. Galleggiamento dovuto anche a una riforma del mercato del lavoro che risale a dieci anni fa e all’invenzione dei mini job ovvero di lavori precari, pagati pochi euro all’ora, con contratti a tempo determinato, che sono serviti al Capitale tedesco ad avere a disposizione una mano d’opera sottopagata e facilmente ricattabile, e alle statistiche governative per confezionare dei dati sulla disoccupazione confortanti, anche se falsi, quasi come quelli statunitensi.
La ricetta Draghi del QE, al momento, non ha sortito grandi effetti nemmeno sui Paesi più deboli. A parte la Spagna che sembrerebbe ripartire, ma con ritmi molto lenti e grazie, anche in questo caso, a una riforma del mercato del lavoro rispetto alla quale quella di Renzi fa ridere, l’Italia, la Francia, la Grecia e il Portogallo sono ancora al palo. In Italia la tanto auspicata ripresa industriale non si vede, il Pil è diminuito per anni e ora è preoccupantemente stazionario con qualche piccolo sussulto verso l’alto. Secondo gli ultimi dati di maggio 2015, il debito pubblico è ancora aumentato e la disoccupazione, nonostante la falsa propaganda del governo Renzi, non accenna a diminuire, sia in termini assoluti che per il segmento giovanile. L’apparato industriale è fermo, l’unica voce in attivo è quella relativa ad alcuni settori che operano prevalentemente per le esportazioni che da sole hanno portato, nel primo trimestre del 2015, a un più 0,3% grazie al basso costo del dollaro e alla diminuzione del prezzo del greggio. A parte l’industria automobilistica, peraltro la più penalizzata in questi lunghi anni di crisi, che sembra riprendere un filino di fiato, tutto il resto è ancora nella palude della stagnazione.
E allora perché dopo un impiego colossale di capitale finanziario regalato alle banche, dopo che i tassi di interesse del danaro sono arrivati vicino allo zero e dopo che si sono dati parecchi giri di vite alle pensioni, ai salari e a tutti i fattori che ruotano attorno al deprezzamento del costo della forza lavoro, la macchina capitalistica stenta a riprendersi? Per il semplice motivo che i saggi del profitto sono ancora scarsi per giustificare degli investimenti. Perché il livello dei salari è ancora troppo alto per giustificare nuove, vere assunzioni. Perché le imprese stesse preferiscono, quando possono, destinare la quota parte maggiore dei propri investimenti ad attività non produttive limitando alle attività produttive lo stretto necessario.
E perché gli istituti di credito, nonostante nei loro forzieri siano arrivati fiumi di capitali a costo zero, preferiscono non rischiare con incerti finanziamenti alle imprese in crisi, per paura di entrare in una nuova fase di sofferenza creditoria, con un mercato fermo e con profitti industriali bloccati o in discesa libera. Meglio la speculazione, meglio il rischio del “poco, maledetto ma subito” che lo spauracchio, già recentemente vissuto, di investimenti a lunga scadenza che con la crisi si sono trasformati in quella sofferenza creditoria di cui portano ancora i segni. E soprattutto perché la svalorizzazione dei mezzi di produzione e del costo della forza lavoro non ha ancora raggiunto il punto di inversione inferiore, l’unico che potrebbe determinare un minimo di ripresa economica.
Tassi negativi
Prima dello scoppio della crisi da carenza di saggi del profitto sufficientemente remunerativi per i capitali investiti, il mercato aveva già prodotto una progressiva separazione tra capitale e produzione che, a sua volta, aveva generato una enorme massa speculativa, pronta a spostarsi su qualsiasi affare che gli consentisse, nel breve periodo, di realizzare quei profitti che la sfera della produzione reale rendeva sempre più difficili. Prima dell’agosto del 2007, la nube tossica della speculazione era pari a 12 volte il Pil mondiale. Oggi, a otto anni di distanza, il Pil mondiale si è ridotto di almeno una decina di unità percentuali, mentre la nube tossica si è ulteriormente ingigantita e, nonostante gli sforzi di governi e banche centrali, il rapporto tra capitale e produzione non è stato riannodato. Le banche continuano a non fare le banche, le imprese non investono e la ripresa latita in quasi tutti i settori produttivi.
Nel perdurare di questa situazione, come un fulmine a ciel sereno, il 5 marzo dello scorso anno il Tesoro tedesco ha messo all’asta un consistente quantitativo di titoli di Stato che, come al solito, hanno immediatamente ricevuto una buona accoglienza da parte degli operatori finanziari. Tutto normale, tutto come al solito, se non fosse che gli interessi praticati non erano bassi o bassissimi, bensì negativi. Il Tesoro tedesco ha praticato verso i sottoscrittori di bond un tasso pari allo -0,08%.
È pur vero che viviamo in una società contraddittoria, che viaggia al contrario rispetto ai bisogni sociali, come nel caso dell’aumento della produttività che, nel lungo periodo, innesca la caduta del saggio del profitto mettendo in crisi gli stessi meccanismi di valorizzazione del capitale. Come una maggiore produttività del lavoro invece di creare tempo libero per i lavoratori ne sancisce un maggiore sfruttamento, un allungamento della giornata lavorativa e una maggiore disoccupazione. Come nel caso dello sviluppo delle forze produttive che, invece di creare un maggiore e migliore benessere sociale, arricchisce solo il 10% della popolazione, mentre il restante oscilla tra una esistenza appena decente e la famigerata soglia di povertà. Come il ‘progresso sociale’ si coniuga sempre di più con la precarietà lavorativa, con lo smantellamento dello stato sociale che è diventato inversamente proporzionale al crescere delle esigenze della popolazione, da quelle sanitarie a quelle pensionistiche.
Ma che si arrivasse a dover pagare per prestare i soldi allo Stato è il colmo. Sembrerebbe un non senso, un ossimoro economico. In realtà tutto ciò che avviene nel capitalismo, contraddizioni e crisi comprese, ha una sua logica, molto spesso perversa, che affonda le sue radici nei tentativi del Capitale di mettere in atto tutti quei meccanismi che abbiano, come fine ultimo, la sua stessa sopravvivenza. Tra gli sconquassi che la crisi ha prodotto, soprattutto nei confronti dei lavoratori, per il Capitale, fatte salve tutte le manovre contro il mondo del lavoro, tre sono gli obiettivi da raggiungere per tentare di rimettere in moto la macchina dei profitti:
- mettere in atto tutte quelle misure finanziarie per favorire la ripresa, ovvero riannodare la relazione tra banche ed economia, tra Capitale e lavoro. In tal senso vanno lette la riduzione del costo del danaro e l’abbassamento dei tassi d’interesse e il ricorso al QE;
- allontanare il più possibile lo spettro della deflazione (diminuzione generalizzata dei prezzi) che erode ulteriormente i profitti già abbondantemente penalizzati dal perdurare della crisi. Infatti i prezzi di vendita delle merci, inizialmente, hanno cominciato a non salire più, poi sono diminuiti a causa della mancanza di reddito di una parte consistente della domanda, rendendo così letale per il Capitale l’accoppiata recessione-deflazione che in qualche modo deve essere assolutamente superata;
- abbandonare il credit crunch (la stretta creditizia), per spingere le imprese verso gli investimenti. Ma spingere le imprese verso gli investimenti vuol dire mettere in condizioni il sistema di finanziare famiglie e imprese, rimettere cioè il capitale al suo posto, quale motore propulsore dell’economia reale e, parallelamente, disincentivare i depositi vari o gli acquisti di titoli di Stato, in quanto pericolose premesse a qualsiasi atto di speculazione finanziaria. È in questa prospettiva che è maturata l’iniziativa di abbassare gli interessi del credito sino a renderli negativi.
Al caso della Germania, come abbiamo visto, sono seguiti quelli di Olanda, della Finlandia e della Danimarca. In questo modo, depositare i soldi in banca rappresenta un costo anziché essere un investimento, anche se soltanto con un minimo di remunerazione. Per la stessa ragione le banche dell’Eurozona, che devono pagare la Banca centrale europea per depositare i propri capitali, sono disincentivate dal farlo, o perlomeno questa è la speranza. Anche se soltanto da poco la Bce ha portato a -0,2% il tasso sui depositi e non paga più interessi positivi agli istituti di credito che immobilizzano la propria liquidità presso le sue casse. Al contrario sono le banche che devono pagare lo 0,2 alla Bce perché trattenga i loro depositi. Eccezionale ma vero, è l’ultima spiaggia a cui sono approdate le misure finanziarie per rimettere in piedi una baracca che pencola da ogni lato rischiando un altro rovinoso crollo?
Forse. Ma una cosa è certa, tutto questo è fatto nel tentativo di disincentivare i depositi e gli acquisti di titoli di Stato e, contemporaneamente, di stimolare gli investimenti di liquidità e, quindi, i finanziamenti delle banche all’economia; tale è il senso della politica della Bce dei tassi negativi. Anche il tasso d’interesse interbancario a un mese (Euribor) è arrivato sotto lo zero. In assoluto è la prima volta che succede a partire dal 19 gennaio 2015. È certamente una situazione straordinaria, mai accaduta prima in Europa, che i tassi di interesse ufficiali, quegli stessi che sono normalmente utilizzati come riferimento per i costi dei mutui e per i finanziamenti alle aziende, si esprimono con valori negativi.
Queste manovre estreme non sono altro che il sintomo di una situazione grave, gravissima che non solo stenta a far ripartire l’economia ma che, persino secondo molti analisti borghesi, potrebbe essere il segno premonitore non di una soluzione del problema, ma di una nuova catastrofe economica. Infatti molto spesso i detentori di capitale che sono disposti a pagare una sorta di commissione o di servizio per la giacenza presso le banche dei loro ‘risparmi’, o le banche stesse quando acquistano titoli di Stato, lo fanno in attesa di aspettative di remunerazione dei loro capitali che il più delle volte si collocano ancora nel settore della speculazione, e non in quello asfittico della produzione. Infatti, se il denaro venisse concesso sotto forma di prestito alle attività produttive, come sarebbe nelle strategie della Bce, saremmo in presenza di una situazione di penalizzazione per le banche stesse, perché il prestito all’impresa tramite le forche caudine dei conti correnti si trasformerebbe in deposito presso la Bce stessa e, quindi, sarebbe soggetto alla tassazione dello 0,2% che la Bce ha introdotto già da un anno al solito scopo di disincentivare i depositi inoperanti presso le sue casse e per favorire i finanziamenti alle imprese.
Per cui la norma, invece di avere una funzione espansiva, finisce per giocare un ruolo recessivo costringendo le banche a trovare altre soluzioni.
A questo stadio delle cose, due sarebbero le certezze: la prima è quella di vedersi tassare pesantemente il prestito rendendo più oneroso l’investimento, la seconda è che, nell’attuale critica fase in cui versa il mercato, il rischio non vale la candela. Ecco un’altra ragione per cui le banche hanno tutto l’interesse a ridurre le loro esposizioni e a dare con molta parsimonia prestiti alle imprese. Molto meglio impiegare il capitale in investimenti di titoli sovrani acquistandoli da Paesi che garantiscono ancora tassi d’interesse alti o, rischiando ancora di più, investire nel breve periodo, in titoli emessi da governi in profonda crisi che, pur di ricevere finanziamenti dalla Bce, dal Fmi o dalla speculazione, sono costretti a praticare dei tassi altissimi. In questo caso la manovra dei tassi negativi, invece che risolvere il problema dei finanziamenti alle imprese può favorire il suo opposto, ovvero l’intensificazione della speculazione che continuerebbe a fuggire la produzione penalizzando ulteriormente la tanto invocata ripresa economica.
In seconda battuta, la politica degli interessi negativi, se dovesse continuare e allargare la sua portata sui meccanismi finanziari, costringerebbe una serie di investitori istituzionali come le assicurazioni e i fondi pensione, notoriamente meno propensi all’alto rischio, a diversificare i loro investimenti in assenza di rendimenti accettabili, o addirittura di rendimenti negativi, per finanziare le loro attività, come l’erogazione delle pensioni e i premi assicurativi. L’inevitabile risposta che spontaneamente entrerebbe in funzione è che il loro portafoglio verrebbe riempito prevalentemente di azioni che rappresentano sempre un rischio, ma di minore entità. Anche in questo caso i bassi tassi d’interesse non spingono verso gli investimenti produttivi ma si limitano a spostare l’asse della speculazione dai depositi bancari, dai titoli di Stato al mercato azionario. In conclusione: che il capitale vada alla speculazione ad alto rischio o a quella di un rischio meno elevato lo scenario non cambia di molto. Siamo sempre in presenza di movimenti finanziari che difficilmente riescono a spingere il capitale a riprendere la strada della produzione.
In questa perversa situazione della crisi del capitalismo, dove l’economia reale stenta a produrre nuove remunerazioni e la speculazione continua a farla da padrone, anche il risparmio gestito è finanza a tutti gli effetti e la continua individuazione di ‘sicuri’ ambiti finanziari mette in drammatica evidenza come lo stimolo speculativo, nato dalla crisi dell’economia reale strozzata da bassi saggi del profitto, continui a stare alla larga dalla produzione, aggravando il rischio di collasso del sistema economico globale.
Il che non significa che il capitalismo si autodistrugga, ma soltanto che i mezzi messi in campo per superare la ‘contingenza’ sono scarsi e, molto spesso, inefficaci. Perché la macchina del profitto possa ricominciare a muoversi occorre che il processo di svalorizzazione dei beni strumentali e del costo della forza lavoro continui ancora. Solo quando la svalorizzazione avrà toccato il punto di inversione inferiore si potrà parlare di ripresa degli investimenti e della produzione.
Ma di una ripresa parziale, tutta all’interno dei limiti economici e finanziari che hanno creato questa crisi; una ripresa non sarà l’inizio di un nuovo ciclo di accumulazione, ma soltanto la coda del vecchio ciclo che stenta sempre di più a procedere, anche se per piccoli passi. Secondo gli stessi analisti borghesi, se tutto andasse bene, ci vorrebbero vent’anni perché il sistema globale ritorni al livelli di pre-crisi. Nel frattempo, ci sarà una ancora più selvaggia recrudescenza di episodi bellici e un ulteriore assalto alle condizioni di lavoro e di vita delle popolazioni.
* Pubblicato in Prometeo, giugno 2015, serie VII, n. 13