Tra abusi legislativi e sovraffollamento carcerario
Ci risiamo. In Italia cambiano i governi, ma certi problemi – la cui soluzione pare impossibile tanto per la Casta quanto per i professori targati Bocconi e Luiss – restano, come quello dell’emergenza carceri. L’ennesimo decreto che dovrebbe, almeno secondo quanto dichiarato, adeguare le condizioni di vita dei detenuti italiani a un livello degno di un Paese civile (come non solo la legge, ma un criterio di semplice umanità esige), è stato presentato al Parlamento, e per una sua veloce approvazione si è posta la fiducia. I pilastri su cui si fonda il provvedimento sono
due: il primo consiste nel trattenere nelle camere di sicurezza degli uffici di polizia gli arrestati che devono affrontare un processo per direttissima anziché mandarli in cella (bloccando il meccanismo delle cosiddette ‘porte girevoli’); il secondo portare da 12 a 18 mesi quanto era stato stabilito dalla legge Alfano (entrata in vigore lo scorso anno), che prevede l’invio ai domiciliari dei condannati per reati non gravi che abbiano ancora da scontare non più di un anno di detenzione.
I numeri di cui si parla sono ambiziosi: dopo l’approvazione del decreto nelle carceri italiane ci saranno, secondo i conteggi resi pubblici da Paola Severino, 21-22.000 detenuti in meno grazie al primo provvedimento, e 3.300-3.600 detenuti in meno grazie al secondo, con un risparmio economico di 375mila euro al giorno (una manna per gli esausti budget ministeriali). Ma siamo di fronte a un’altra occasione persa, perché per l’ennesima volta la politica finge di non vedere la vera causa del sovraffollamento degli istituti di pena italiani: l’uso smodato della carcerazione preventiva.
Dati alla mano (1), dei 67.428 detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 settembre 2011, ben 28.564 risultavano ‘imputati’ (cioè non ancora condannati con sentenza definitiva e soggetti al regime di carcerazione preventiva); di questi, più della metà (14.639) erano ancora in attesa del giudizio di primo grado. Sono numeri impressionanti: nelle prigioni italiane sono ristretti – come si dice in gergo – quasi 30.000 persone presunte innocenti, e di loro, statisticamente, circa un terzo si rivelerà innocente oltre ogni ragionevole dubbio dopo i tre gradi di giudizio e verrà liberato, dopo mesi o anni di carcere, con le scuse del nostro sistema giudiziario e un indennizzo proporzionato alla durata dell’ingiusta carcerazione (il rimborso, ovviamente, è a carico della collettività).
Ma il sistema preferisce usare una maggiore clemenza nei confronti di chi è colpevole piuttosto che aumentare le garanzie per gli innocenti.
Nel frattempo, colpevoli accertati e presunti innocenti condividono la stessa – disumana in Italia – esistenza, e dal momento che i posti letto disponibili sono circa 46.000 (con un tasso di affollamento carcerario del 157,1% contro una media europea del 95,9%), i 21.000 detenuti in eccesso vengono stipati nelle celle senza alcun riguardo alla loro capienza: i pasti sono poveri (perché non ci sono i soldi), e i detenuti, quelli che possono, si comprano più cibo a proprie spese; i sistemi di riscaldamento sono insuffi cienti, così che in carcere si soffre il freddo e ci si ammala (sono per esempio segnalate nelle carceri italiane epidemie di TBC, causate sia dall’indebolimento del sistema immunitario per via delle condizioni di vita, sia dalla forzata convivenza con persone malate); per chi soffre di patologie croniche o pregresse, non vi è la possibilità di accedere a cure mediche di qualità, e per chi si ammala in carcere la diagnosi avviene con notevole ritardo, precludendo a volte ogni possibilità di guarigione (nel caso soprattutto delle patologie tumorali).
Come è logico, le sindromi depressive dilagano, e con esse i suicidi. Nel 2011 sono stati 54, il che significa che in carcere si suicida circa un detenuto ogni mille, mentre fuori dal carcere si suicida circa una persona ogni ventimila.
Lo scorso anno ad Asti, Aversa, Genova, Milano, Parma, Teramo, Treviso e Velletri, agenti della polizia penitenziaria sono stati messi sotto inchiesta per minacce, pestaggi, violenze sessuali, lesioni, concussione, peculato, abuso d’ufficio. Infine, mentre la pianta organica ministeriale prevede 1.331 educatori e 1.507 assistenti sociali, nell’anno 2010 risultavano in servizio 1.031 educatori e 1.105 assistenti sociali, con buona pace della funzione di reinserimento che la detenzione dovrebbe attuare a norma della Costituzione (2).
Se costringere chi è stato condannato con sentenza definitiva a un regime di questo tipo è di per sé una violazione della Carta dei diritti dell’uomo, assoggettarvi ‘presunti innocenti’ costituisce un’aggravante intollerabile in uno Stato di diritto, come si evince dalla Raccomandazione della Comunità Europea sulla custodia cautelare n. 13 del 2006: “Remand prisoners shall be subject to conditions appropriate to their legal status; this entails the absence of restrictions other than those necessary for the administration of justice, the security of the institution, the safety of prisoners and staff and the protection of the rights of others and in particular the fulfilment of the requirements of the European Prison Rules and the other rules set out in Part III of the present text”. (3).
E in particolare: il diritto a cure sanitarie adeguate; nessun controllo sulla corrispondenza; il diritto di voto; il diritto all’istruzione; l’esenzione da misure disciplinari punitive e da qualunque trattamento che comprometta la possibilità di preparare la propria difesa; e il diritto a essere controllati da personale carcerario selezionato e formato affinché tenga pienamente conto dello status particolare e dei bisogni di questa categoria di carcerati. Il confronto con le condizioni cui sono sottoposti i soggetti ristretti per misure cautelari in Italia è impietoso, e pone numerose domande.
Sebbene il Belpaese registri un tasso di criminalità inferiore a quello delle grandi nazioni europee, il tasso di detenuti in custodia cautelare è decisamente più alto della media: con il nostro 42% siamo secondi solo alla Turchia (60%), e ben al di sopra della Francia (23,5%), della Spagna (20,8%), del Regno Unito (16,7%), e della Germania (16,2%). Si potrebbe credere che il nostro ordinamento sia particolarmente incline alla sospensione delle libertà personali, ma non è così. La costituzione italiana ha fra i suoi capisaldi – come ogni altra grande democrazia – il principio di non colpevolezza (art. 27, comma 2): “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. In altri termini il nostro sistema (che viene pertanto definito garantista), preferisce assumersi il rischio che un colpevole sfugga alla pena piuttosto che incarcerare un innocente.
L’art. 27 può essere bypassato solo in casi specifici, giuridicamente definiti dal codice di procedura penale (parte prima, libro quarto, titolo primo): secondo quanto disposto dall’art. 273, nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza e, qualora questa condizione di base si verifichi, le misure di custodia cautelare possono essere disposte (ex art. 274) solamente:
a) quando sussistono specifiche e inderogabili esigenze attinenti alle indagini relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova, fondate su circostanze di fatto espressamente indicate nel provvedimento a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere individuate nel rifiuto della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato di rendere dichiarazioni né nella mancata ammissione degli addebiti;
b) quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga, sempre che il giudice ritenga che possa essere irrogata una pena superiore a due anni di reclusione;
c) quando, per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e pericolo di reiterazione del reato sono dunque i soli casi in cui possono essere disposte misure restrittive della libertà personale. E la legge non si riferisce all’eventualità in astratto che questi comportamenti vengano messi in atto, ma a un rischio concreto e dimostrabile. Così il pericolo di inquinamento delle prove dovrebbe venire a mancare quando le indagini sono concluse; il pericolo di fuga dovrebbe essere dimostrato sia sulla base della gravità del reato che sulle possibilità effettive dell’imputato di sottrarsi alla giustizia (per esempio qualora possegga adeguate somme di denaro e/o appoggi all’estero); e il pericolo di reiterazione del reato dovrebbe essere reale (come nei casi di gravi comportamenti illeciti seriali, o nel crimine organizzato). Ma ciò non signifi ca ancora la prigione, dal momento che il giudice può e deve scegliere fra tre modalità alternative di custodia cautelare, tenuto conto “della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto”, che sono: gli arresti domiciliari; la custodia cautelare in un luogo di cura (come per le persone che soffrono di infermità mentale o di gravi patologie – per esempio i malati di Aids per cui la legge vieta il ricorso al carcere); e solo in ultima istanza, qualora le esigenze cautelari non possano essere soddisfatte altrimenti, la carcerazione preventiva.
Se il ricorso al carcere è quindi una misura di ultima istanza, perché in Italia se ne fa un uso così intensivo? Giuseppe Cascini, segretario dell’Associazione nazionale magistrati, intervistato da Il Manifesto (4), spiega che l’eccessivo uso della detenzione preventiva nel nostro Paese “deriva in primo luogo dalla legge stessa, che spinge il giudice verso un’applicazione rigorosa dei meccanismi cautelari. E, oggettivamente, è anche una conseguenza dell’inefficienza del sistema: più il processo è lungo più tende a espandersi alla custodia cautelare”. Ora, questa affermazione appare quanto meno curiosa, in primo luogo perché, come abbiamo visto, la nostra legislazione non è affatto morbida in termini di garanzie, tanto che anche il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, nel suo Report of the working group on arbitrary detention: mission to Italy (26 gennaio 2009), le considera “numerose e robuste”. Tuttavia si dice preoccupato che il ricorso eccessivo alla carcerazione preventiva possa condurre a situazioni di detenzione arbitraria (5), e raccomanda al nostro governo di prendere misure più efficaci affinché la carcerazione preventiva venga strettamente impiegata come soluzione di ultima istanza (“stricter application of the principle that remand detention is a last resort”). Il problema identificato dal Security Council è dunque l’opposto di quel che segnala Cascini: non è la legislazione a spingere verso la custodia cautelare in carcere, ma una sua interpretazione in senso ampio da parte dei magistrati. Il nesso logico fra i lunghi tempi processuali italiani e la detenzione di presunti innocenti non è dunque causale: i tempi necessari a raggiungere un giudizio definitivo agirebbero semmai sulla durata della custodia cautelare, non sulla sua applicabilità.
D’altro canto, se il problema non fosse la discrezionalità dei giudici, non si spiegherebbe come da normative analoghe (le disposizioni circa l’applicabilità della custodia cautelare in carcere sono infatti simili in tutte le grandi nazioni europee, a esclusione del Regno Unito che segue le regole della common law) (6), e che permettono dunque comparazioni statistiche, emerga per l’Italia un dato tanto discordante (il 42% contro una media europea del 25%). Il problema della lunghezza dell’iter processuale ha ben poca influenza, dal momento che, come ha dichiarato l’ex ministro della Giustizia Nitto Palma al Senato lo scorso 21 settembre, i numeri indicano che 21.093 persone restano in carcere per 3 giorni, 1.915 fino a 7 giorni, 5.816 fino a 1 mese, 5.009 fino a 3 mesi, 9.829 fino a 6 mesi: ‘‘Tutto ciò denuncia inequivocabilmente come, in particolare per la custodia cautelare fino a 3 mesi, non sia puntualmente rispettato il criterio in base al quale la reclusione in carcere è una extrema ratio’’.
‘‘Anche per evitare inutili polemiche” ha aggiunto Palma, “quanto detto è ampiamente condiviso dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha invitato i magistrati a un uso sempre più prudente e misurato della misura cautelare restrittiva. Per non tacere di quanto affermato dal Presidente della Repubblica che ha denunciato un’abnorme estensione della carcerazione preventiva”.
Luca Marafioti, ordinario di diritto processuale penale all’Università di Roma Tre (7), nota: “L’art. 292, comma 1, lettera c del codice di procedura penale impone al giudice, nella redazione della motivazione, ‘l’esposizione delle specifiche esigenze cautelari […]’ e, prosegue la lettera c bis del medesimo articolo, ‘l’esposizione dei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare
in carcere, l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenza di cui all’art. 274 (pericolo di inquinamento delle prove, di fuga, o di reiterazione del reato, n.d.a.) non possono essere soddisfatte con altre misure’. Eppure, del tutto diversa si presenta la realtà esibita […], dove la motivazione utilizzata per giustificare in concreto la sussistenza delle esigenza cautelari tende a ridursi nell’enunciazione di mere ‘clausole di stile’. Si tratta di un ‘certo modo’ di confezionare la motivazione dei provvedimenti cautelari che assume contorni ancora più netti, riprodotti in affermazioni assai recise, nel momento in cui il discorso giustificativo coinvolge l’esigenza di cui alla lettera c dell’art. 274 (pericolo di reiterazione del reato, n.d.a.). Qui la motivazione subisce un brusco arresto nel suo sviluppo argomentativo, esaurendosi, non di rado, nell’enunciazione pura e semplice dell’asserita ‘pericolosità sociale’ del destinatario della misura; senza chiarire, però, le reali ragioni che militano nel senso di ritenere, nella singola situazione, concreto il pericolo di reiterazione di uno specifico reato […]. In alcuni casi, addirittura, l’esigenza cautelare in discorso viene ravvisata nel contegno processuale serbato dall’interessato, oppure desunta dall’esistenza di altri procedimenti penali in corso, coincidendo quindi con l’esistenza di una soltanto potenziale recidiva, o, ancora, da comportamenti dell’indagato risalenti nel tempo e, comunque, sguarniti di ogni profilo di attualità”.
Ecco dunque come si aggirano, a danno dei presunti innocenti, le norme di legge relative alla disposizione della custodia cautelare in carcere: le condizioni da soddisfare nelle motivazioni dei provvedimenti – soprattutto in caso di paventato pericolo di reiterazione del reato – vengono rispettate solo formalmente. Se a questa considerazione aggiungiamo il fatto che i provvedimenti di carcerazione preventiva, come abbiamo visto, hanno una durata di soli 3 giorni in più di 21.000 casi, è lecito chiedersi se il pericolo di inquinamento delle prove, o di fuga, o di reiterazione del reato scompaia magicamente nel giro di poche ore, oppure se vi sia mai stato.
Tutti concordi che di carcerazione preventiva se ne abusa, insomma (tranne ovviamente i ppmm e i magistrati), ma nessuno sembra disposto a spiegare perché. Tuttavia una vecchia vicenda, tutta italiana, potrebbe aiutarci a capire. Degli eccessi nell’uso della custodia cautelare e delle motivazioni sottostanti si parlò molto all’epoca di Tangentopoli.
I detrattori del pool di Mani Pulite sostenevano che venisse usata verso gli imputati – cittadini incensurati che non riuscivano a sopportare la prova del carcere – per estorcere loro confessioni di reato e soprattutto i nomi di altri personaggi coinvolti, così da permettere l’allargamento a macchia d’olio dei procedimenti. La teoria sembra trovare un fondamento in un articolo del Corriere del 13 luglio 1993, che recita: “Da tempo non c’era più dialogo fra politici e magistrati. Adesso sono arrivati ai ferri corti. I magistrati si sono fatti guardinghi, diffidenti. Hanno paura che il Parlamento voglia togliere loro il potere di mandare in carcere gli imputati di Tangentopoli. Ieri si sono riuniti nella sede della loro Associazione nazionale e alla fi ne hanno concluso unanimi che la custodia cautelare va mantenuta, altrimenti tutte le inchieste sulla corruzione saltano” (8).
Una prova della ‘collusione’ fra pm e gip in caso di misure cautelari venne scovata all’interno di centinaia di migliaia di pagine di materiale processuale, e riguardava il caso di Mario Maddaloni, dirigente della TPL: si trattava di uno scambio di lettere avvenuto all’inizio del 1994. La missiva era contenuta in una busta della procura con il timbro di Antonio Di Pietro e la dicitura manoscritta: “Al GIP Italo Ghitti. Personale”. All’interno, oltre alla nota sul “perché Maddaloni dovrebbe andare dentro al più presto”, c’era un lungo promemoria anonimo, che riguardava le attività del manager, già arrestato da Mani Pulite nel giugno 1993. La risposta è su carta intestata del tribunale e porta la data del 4 gennaio 1994: “Per Antonio. Trova un altro capo di imputazione perché il 2621 (falso in bilancio, n.d.a.) è già stato contestato ‘quanto meno fino al 1991’ con il precedente provvedimento di custodia cautelare e i fatti vengono contestati in continuazione” (9).
Altre volte le accuse al pool si fondavano sulla registrazione dello squilibrio conoscitivo tra magistratura inquirente e giudicante: già nel processo a Cusani la difesa lamentava che alcune decisioni del gip contenevano note a margine e post-it con la grafia di Antonio di Pietro. Molti anni dopo, il 17 febbraio del 2002, Italo Ghitti ammise in un’intervista televisiva a TV7 (il settimanale di approfondimento del Tg1), che le decisioni da lui assunte nel 1992-1993 erano spesso pedissequi accoglimenti delle richieste della Procura della Repubblica, non essendogli possibile o pratico revisionare tutti gli elementi di prova (che venivano ritenuti fondati spesso senza neppure aver avuto il tempo di esaminarli); a sua volta, sostenne Ghitti, lo stesso pm spesso prende per buone le attività di indagine effettuate dalla polizia giudiziaria, senza un reale riscontro.
Che il ricorso facile alla carcerazione preventiva avvenga per via di una sorta di implicita (ma inammissibile) ‘collaborazione’ fra magistratura inquirente e giudicante, oppure a causa della mole di lavoro eccessiva che i giudici si trovano spesso ad affrontare (tuttavia vengono in mente i cori di proteste indignate che si levano dalla magistratura ogni volta che in Italia si prova a parlare di separazione delle carriere e soprattutto di responsabilità civile dei giudici in caso di dolo o colpa grave, nonostante l’Europa ci chieda da anni una modifica della normativa in questo senso e che il popolo sovrano si sia espresso a favore già nel referendum del 1987 con oltre l’80% dei consensi), le conseguenze sono devastanti, non solo per il singolo imputato o per il sistema carcerario, ma per tutta la collettività.
Un libro che si intitola The socioeconomic impaxt of pretrial detention (10), e che viene citato nel documento Excessive use of pre-trial detention runs against human rights (11), scritto dal commissario europeo per i diritti umani Thomas Hammarberg nell’agosto 2011, afferma che ogni anno circa 10 milioni di persone nel mondo vengono incarcerate preventivamente e passano mesi o anni dietro le sbarre senza che la loro colpevolezza venga provata. Al di là delle considerazioni legali o umanitarie, il libro sostiene che “locking away millions of people who are presumed innocent is a waste of human potential that undermines economic development” (12).
Quantificando per la prima volta il costo complessivo degli eccessi di carcerazione preventiva a livello mondiale, attraverso l’analisi degli effetti negativi che l’uso scorretto di questo strumento provoca a livello del tasso di disoccupazione e di quello di crescita economica, sui costi sanitari, su quelli relativi alla corruzione e per l’uso improprio delle risorse statali, il libro fornisce numerose prove empiriche a sostegno della maggiore limitazione possibile del suo impiego. Forse in futuro potremmo dire una volta di più che quod non potest ius, potest pecunia.
(1) VIII Rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Associazione Antigone, Edizioni dell’Asino, 2011
(2) “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, Costituzione, art. 27, comma 3
(3) “I prigionieri detenuti in custodia cautelare devono essere soggetti a condizioni appropriate al loro status legale di presunta innocenza; questo comporta l’assenza di restrizioni che non siano quelle necessarie all’amministrazione della giustizia, la sicurezza dell’istituzione carceraria, la sicurezza dei prigionieri e dello staff e la protezione dei diritti altrui e in particolare l’ottemperanza ai requisiti delle Regole Europee per le Prigioni e alle altre regole stabilite nella Parte III del presente testo”
(4) Dal fatto alla persona: così il diritto penale è andato alla deriva, Eleonora Martini, Il manifesto, 28 agosto 2011
(5)“The Working Group finds that safeguards against illegal detention in the criminal justice system are numerous and robust. Situations of arbitrary detention can, however, result from the unreasonable length of criminal proceedings and from excessive recourse to remand detention”
(6) www.camera.it/temiap/Custodia%20cautelare.pdf
(7) Luca Marafioti, Sovraffollamento delle carceri e custodia cautelare, una proposta di riforma, relazione tenuta al Convegno ‘Carcere: idee contro il disastro’, organizzato dalla Camera Penale di Roma, Roma, 7 luglio 2010
(8) I giudici difendono la custodia cautelare: “garanzia contro la corruzione”, Marco Nese, Corriere della Sera, 13 luglio 1993
(9) Di Pietro a Ghitti: metti dentro Maddaloni, Gianluca Di Feo, Corriere della Sera, 16 giugno 1997
(10) L’impatto socioeconomico della carcerazione preventiva, scritto e pubblicato da Open Society Foundations & United Nations Development Program
(11) “L’uso eccessivo della carcerazione preventiva va contro i diritti umani”
(12) “Incarcerare milioni di persone presunte innocenti è uno spreco di potenziale umano che mina lo sviluppo economico”