Si racconta che quando nel gennaio del 1959 i rivoluzionari di Castro presero L’Avana, tennero una prima rapida riunione per distribuire gli incarichi di governo. Erano tutti parecchio giovani e inesperti, e soprattutto erano stanchissimi.
Così avvenne che quando Fidel Castro chiese: «Chi di voi è economista?», il trentaduenne Guevara alzò la mano. E quindi fu nominato presidente della Banca centrale di Cuba. Il fatto è che Guevara aveva capito: «Chi di voi è comunista?» Nonostante la sua totale impreparazione, divenne un buon ministro e banchiere (citato da Enrico Deaglio ne Il buon senso, Diario della settimana, 8 ottobre 1997). Beati loro. Anni dopo, qui da noi avremmo avuto lo storico Settimo, ruba un po’ meno di Dario Fo e il revisionato “errare humanum est, perseverare democristianum”. Ancora più avanti, la spudoratezza degli attuali governanti ha svilito il nobile e umanissimo errore (foriero talvolta di veri capolavori involontari, come vedremo) a gaffe – quando va bene – e alla negazione dell’evidenza, giacché non basta rinnegare ciò che è stato detto e registrato tre secondi prima, bisogna ribattere che sono i giornalisti a essere imbecilli perché hanno equivocato su una carineria. Ri-nobilitare l’errore dunque: in tempi di assoluta verità digitale equivale a tornare allo ‘sporco’ dell’analogico e contentarsi di ciò che viene fuori dal proprio sacco senza pretese di immortalità. Torna persino a far brodo il buon dottor Sigmund coi suoi omonimi lapsus, chiamati “atti mancati”, giacché rivelano un inconscio desiderio di chi li compie, e a credergli dovremmo concluderne che Silvio da Arcore non compie mai tali errori e dunque è irrevocabilmente e senza appello un delinquente esplicito.
Del resto, la nobiltà dell’errore non è cosa di oggi, già scandagliata da fior di autori: a partire da Luigi Pirandello (per avere introdotto nella superficie ininterrotta dell’identità il cuneo dell’errore), e via via Gadda, Sciascia, Manganelli, Umberto Eco, Gianni Rodari e la Torre di Pisa, Daniele del Giudice e per finire lo stratosferico Alberto Savinio, che si incantava davanti a tutti i suoi errori di battitura e diceva di voler psicanalizzare la sua macchina da scrivere – quest’ultimo, vero genio fondatore della metafisica e della metapratica sistematica dell’errore di battitura e anticipatore di una futura e auspicabile collezione editoriale di pagine possibili ottenute con i suggerimenti di Word rispetto al testo che state scrivendo o traducendo. Ma Savinio, soprattutto, è il padre nobile di un altro sublime come Matthew Herbert.
Fortunato ragazzo inglese, figlio di un tecnico del suono della BBC e allievo di un maestro che considerava gli standard jazz, oppure i contemporanei Reich e Xenakis, allo stesso livello di Beethoven. Il che significa crescere senza il pregiudizio della musica ‘alta’ o ‘bassa’. Doppiamente fortunato, perché ha esteso successivamente tale apparentemente irrispettosa metodica alla produzione sonora (comunque intesa) nel e del mondo: sicché il nostro, nel ’95, esordisce coerentemente dal vivo con un concerto per campionatore e sacchetto di patatine fritte. Da quel momento la sua attività esplora la scena dei dj di musica house ed elettronica, dove diventa un maestro grazie alla sua capacità di lavoro e cut-up coi campionatori di suono e allo stesso tempo produce ed esegue opere di musica assai vicina alla musique concrète di Pierre Schaeffer (1948) o meglio ancora alle teorizzazioni geniali del futurista Luigi Russolo (1908). Nel 2000 Herbert scrive un vero e proprio manifesto programmatico della sua musica, chiamato Contratto personale per la composizione di musica che incorpora il Manifesto degli errori. Tale manifesto, non dissimilmente a quanto avvenuto per Dogma 95 di Lars von Trier per il cinema, comprende le regole che da quel momento ne hanno segnato e definito la produzione musicale. Tali regole comprendono la proibizione dell’uso di sorgenti musicali pre-registrate, così come l’uso di suono sintetico riproducente o imitante strumenti acustici.
Inoltre, suoni accidentalmente inseriti (come il camion che passa di sotto in strada), note registrate precedentemente e solo parzialmente sovraincise e dunque errori di programmazione e/o registrazione sono i benvenuti come deus ex machina di un’umanità che agisce a caso in un mondo oramai sterilizzato dall’assoluta precisione delle macchine. Non a caso si tratta di un musicista che possiede una sua etichetta discografica chiamata Accidental music. Che direbbe Glenn Gould, da un lato innamorato della neonata possibilità di effettuare registrazioni nota per nota del suo pianoforte e dall’altro assoluto sconvolgitore dell’ortodossia esecutiva di monumenti come Bach?
Nel 2006 Herbert produce Scale, un supremo e mellifluo tentativo riuscito di combinare ritmiche house, romanticherie jazz e lucide superfici pop con meditazioni tutt’altro che serene sulla morte della civiltà del petrolio e sulla mortalità in genere. Tra i ben 723 oggetti campionati, usati e pignolescamente enumerati, vi sono bare in plastica, pompe di petrolio, meteoriti, un bombardiere della RAF, un tipo che vomita fuori da una convention di produttori di armi. Allo stesso modo quest’ultimo capolavoro, There’s me and there’s you, combina languori jazz-soul con materiale potenzialmente sovversivo, come il suono di 70 preservativi gettati sulle scale interne del Parlamento, o i rumori provenienti dalle stanze dello stesso Parlamento durante la discussione di una proposta di legge che avrebbe consentito la carcerazione preventiva sino a 48 giorni per sospetti di terrorismo senza accuse formalizzate e senza che alcuno ne fosse informato.
Herbert ha anche campionato i beep dell’incubatrice dove giaceva suo figlio, nato prematuro. Ogni suono della macchina rappresenta 100 persone che muoiono costantemente in terra irachena. Gli strali colpiscono la monarchia, lo sfrenato consumismo, la preoccupazione per i veloci mutamenti climatici dei quali i vari governi non si curano.
In cima a tutti la copertina, un bell’esempio di manifesto programmatico, con una serie di firme di amici e colleghi dove si afferma che questo disco, che a tutti gli effetti appare come uno stralunato musical di Broadway per full orchestra & choir, è in realtà un’opera musicale a valenza politica, con contenuti degni di nota, e non soltanto la colonna sonora del consumismo selvaggio. La scelta del gruppo di esecutori marca già una scelta di campo: la big band jazzistica era un medium della cultura bianca e ‘alta’ dei novelli ricchi e capitalisti statunitensi e dei loro epigoni europei (inglesi in cima alla lista), e il tipo di musica che essa eseguiva era altamente popolare in un periodo in cui gli statunitensi facevano di tutto per esorcizzare la presenza delle forze socialiste e comuniste anche in patria (vedi la vicenda di Woody Guthrie e degli International workers of the world). In questo disco a cucire gli interventi musicali c’è la strepitosa voce di Eska Mtungwazi, nativa dello Zimbabwe e compagna di Herbert (presente in altre produzioni tra cui Ma Fleur della Cinematic Orchestra, già qui recensita) e una serie di campionamenti da mal di testa puntigliosamente elencati all’interno del cd.
La sostanza musicale è assai british: Herbert recupera tutto il patrimonio nazionale, che va dal vaudeville alla canzonetta satirica agli arrangiamenti patriottici dei musical di Broadway, e lo frulla con sadica lucidità in una salsa che, non foss’altro che per i campionamenti e i testi, è altamente corrosiva.
Non è la prima volta che accade: pensate solo ad alcuni brani dei Beatles del White Album (When I’m sixty-four) o a certe cose dei Genesis (Selling England by the pound) con testi mutati e al vetriolo per averne un’idea.
Andiamo così da Yesness (immaginate la Marcegaglia che si fa un acido e crede di essere Liza Minnelli), a Battery (quando sono in scena tutti i performers indossano cappucci e si capisce che si tratta di un brano contro la tortura) alle invettive di Pontificate e Regina contro il papa e la monarchia.
Un amico mi ha segnalato il video dal vivo del brano finale (Just Swing), che è nostalgia di Broadway, live act sovversivo e coerenza pura col suo Manifesto: Herbert afferra il Daily Mail e lo stropiccia, mentre ne campiona il suono costruendo immediatamente un anello di suono. A turno gli esecutori prendono le pagine e le strappano in strisce lanciandole poi in aria. L’immagine delle strisce che svolazzano per aria come confetti nuziali nella luce rosa e blu del palco, mentre la band swinga dolcemente in lontananza ed Eska è sempre più aliena nel suo corsetto metallico a cerchi concentrici neanche fosse una Shirley Bassey da Marte, è assolutamente impagabile….
Dedicato a coloro che, come me, si sono persi tutte e due le date italiane di ottobre della Matthew Herbert Big Band. D’altronde, come egli ben sa, l’esecuzione della vita presenta inevitabilmente certi elementi di alea….
The Matthew Herbert Big Band, There’s me and there’s you, K7, 2008