Vivo immerso – esattamente come voi che mi leggete, ma non solo – in un universo sensoriale incredibilmente ricco di stimoli. Sono dunque un essere fortunato. Mi funzionano tutti i sensi; e anche i vari appetiti direi che vanno ancora benone. Dunque, non avrei motivi seri per lagnarmi o recriminare.
Eppure, sapete com’è, le vecchie abitudini sono come i vestiti vecchi: consumati, ma oramai come se avessero dentro l’impronta delle parti del nostro corpo. E dunque accoglienti, e in qualche modo rassicuranti. Conservo, tra queste vecchie abitudini, un certo scetticismo che talvolta si trasforma in irritazione schietta. Recentemente mi sono trovato ad alzare le sopracciglia, guardando dal basso verso l’alto al modo ineguagliabile di Totò, di fronte all’abitudine invalsa di riprendere la propria immagine in qualunque situazione, per quanto effimera, se non addirittura futile. Incontro Tizio dal fioraio? Un bell’autoscatto, tirando fuori la lingua e stirando gli angoli della bocca.
Il cane del mio amico piscia sul pneumatico della mia auto? Altro scatto tra me, il mio amico e Fido con facce orrifi che e mani tri-cornute alla Ronnie James Dio (le corna col pollice aperto, così di moda specie tra i metallari, il buon Ronnie pare abbia appreso a farle dalla nonna terrona incazzereccia). Peggio ancora di questo, l’abitudine di riprendere eventi di estrema drammaticità brandendo verso l’alto il proprio telefono cellulare. Invece di cagarvi nelle mutande, tremare peggio d’una foglia esposta a tramontana, addirittura svenire collassando o alzare al cielo un obelisco di urletti isterici – tutte conseguenze di un violento somatizzare l’emozione che vi assale – invece di tutto questo, che fate voi? Alzate braccio e mano e riprendete la scena. Per poi rivedervela con calma con chi non c’era, ovvio. Commentando col tono d’un entomologo le budella spiaccicate del cane investito dall’automobile. Parole. Parole. Immagini. Immagini. Ecco che lo scettico si irrita: ma scusate un po’: le emozioni dove le avete lasciate? Nel porta-chiavi-oggetti-fatture prima della porta d’uscita di casa? E, di grazia, siete voi gli stessi che noleggiano un film horror dei peggiori e invece di guardare il film riprendete con lo stesso cellulare di cui sopra le vostre facce che guardano – non si sa quanto realmente atterrite – lo schermo televisivo?
Pensavo, alcuni anni fa, che la famosa ‘mutazione genetica’ di cui tanto parlava Pasolini fosse cosa fatta e che il popolo di ex-braccianti, operai, scribacchini, artigiani che eravamo noi italiani fosse definitivamente trasmutato in un popolo uniforme di bravi consumatori.
Ne avevo la prova ascoltando i responsabili politici di tanta sinistra, che a fronte della recessione economica predicano la necessità di una politica che favorisca la ripresa dei consumi. Ecco lo scettico che s’incazza di nuovo: ma come? Anziché predicare contro il consumismo a favore della morigeratezza, anziché favorire la presa di coscienza di tutti nei confronti della folle propaganda che costruisce bisogni fittizi, la mia sinistra predica per il ripristino della possibilità di consumare (acquistando) quanto si consumava precedentemente?
Ma a nessuno passa per la mente che statisticamente il 98% di quello che si acquista oggi tra un anno è tutto in discarica e che dunque moriremo letteralmente soffocati dai rifiuti di ciò che imballa e avvolge ciò di cui non abbiamo (al 98%) bisogno realmente?
Guai: i vostri (ex) rappresentanti danno per scontato questo livello di consumo e dunque di vita e vi accusano immediatamente di far parte della schiera dei piagnoni – peggio di quella dei ‘pauperisti’ (orrendo insulto) antimoderni. La vecchia paura di ciò che avveniva nei Paesi del socialismo reale (gli scaffali vuoti o mezzi vuoti!!!!!) ha definitivamente trionfato sulla coscienza di ciò che siamo diventati: consumatori obbedienti e sonnambuli. Per la precisione: obbedienti, sonnambuli e visivamente drogati.
E qui vengo al punto. Per farlo, uso la frase di un grande visionario: “La musica ha un effetto dominante su di me. È come un’insidiosa crudeltà che si fa strada lentamente dentro di te, ricordandoti la pienezza, che pace e armonia sono alla tua portata” (Federico Fellini).
Oh Santo Federico da Rimini! Egli sapeva che l’immagine non ha il monopolio dell’anima: lo vedo chino al tavolo da lavoro, mentre schizza a carboncino un personaggio, per come lo ha sognato e per come gli serve in quel frammento del prossimo film. Al suo fianco Nino Rota osserva in silenzio, attentissimo, gli occhi che s’imbevono della vibrazione del colore, dell’oscillazione della mano mentre traccia il profilo. Le mani corrono veloci verso la tastiera… e Federico quasi sviene tra piacere e commozione: è quello il tema che serve!
È quella magica combinazione di note che tira fuori l’anima della Saraghina, di Giulietta degli Spiriti, di Gelsomina e Zampanò. Nino è uno stregone, sembra dire Federico. Non sa come faccia, ma lo fa. E grazie a lui le immagini dei sogni di Federico, oggi e per sempre, suonano alla nostra memoria anche se non abbiamo più chiara l’immagine ai suoni associata.
Lo scettico incazzereccio che sono s’addolcisce: non solo ha ben immagazzinato il materiale del maestro Rota scritto per le immagini del grande Federico, ma ogni tanto scopre musiche già belle e pronte per un film che forse Federico avrebbe voluto fare. O magari un altro regista, chissà.
Lo scettico-me s’è imbattuto nella produzione musicale del Tin Hat Trio, trio acustico newyorkese emigrato sul Pacifico, e ha deciso di consigliarvela tutta in blocco, perlomeno il primo, secondo e
quarto album in studio (rispettivamente Memory Is An Elephant, Helium e Book of Silk). In questa occasione vi parlo del secondo album, Helium, quello che per me esprime meglio la meraviglia delle immagini che saltano fuori a ogni piè sospinto da ogni singola nota e che contiene il maggior numero di influenze meglio mescolate in un tutto armonico. Mentre il primo, godibilissimo, album, recava una forte impronta tango-gitan-balcanica, qui la storia s’è fatta più matura con l’ingresso di una maggiore componente etno-jazz-blues, tale da far rabbrividire di piacere chi ha passato le proprie orecchie al filo di gente come Hery Cow o zio Frank Zappa (addirittura! Eh, sì).
Ascoltate: A Life in East Poultney è il pigro benessere di una cittadina del New England, dove le linee del violino narrano lo scorrere del tempo mentre quelle del banjo sono lo scalpiccìo regolare degli zoccoli dei cavalli che tirano il carretto del gelataio, e il sottofondo del contrabbasso è il dondolio ipnotico di una sedia a dondolo sulla veranda della casa del parroco. La title track Helium (quasi una bossanova) è la facciata a sud di una casa bianca, con un gelsomino che si arrampica da anni. Con Beverly’s March siamo nell’unica officina del paese che fa anche da fabbro e la marcia è quella del martello che picchia su una stanga da raddrizzare. Scrap è giustamente uno schizzo – ci ho visto un gruppo di anatre al passo. Sand dog blues e Width of the world sono blues sonnacchiosi, l’uno come una ventola che gira cigolando, l’altro coi fili del bucato carichi di lenzuola che si piegano a ogni folata della brezza che tira da ovest. Fountain of youth è il cinema della domenica, con Buster Keaton che corre non so dove dopo avere bevuto un’acqua purgativa dei Carpazi. Slip è il telegrafista sordo che passa la cera su un vecchio tavolo mentre qualcuno cerca il figlio scappato di casa. Seamstress extraordinaire è il ricordo di un tango che si sapeva suonare a occhi chiusi e adesso si ricorda a orecchie aperte carezzando contropelo il vostro gatto (che vi ama, nonostante tutto). Esperanto è un barattolo delle spezie che il droghiere-farmacista apre con estrema cautela, lasciando filtrare un rèfolo di liquirizia vanigliata, salmastro di porto affacciato sui Caraibi con una fisarmonica tutta marché aux puces della domenica e un violino languido come il dondolio indolente e certe occhiate delle ragazze creole. Big Blue House sono Stanlio e Ollio che fanno trasloco nel posto sbagliato. Old Gray Mare è – letteralmente – una vecchia giumenta grigia che guarda un tramonto striato di viola. Non capisco Brennero: o meglio, capisco che venga voglia di far musica in un posto così triste, specie la domenica, coi doganieri austriaci disoccupati che giocano a Risiko coi colleghi italiani senza capirsi. Anna Kournikaova siete voi che avete invitato a ballare una russa strepitosa e non vi ricordate più come si fa. Helium reprise (versione orchestrale) non è solo la ripresa del tema: dietro il gelsomino potete spiare la coppia di ospiti in giardino che aspettano la limonata che tenete sul vassoio tra le vostre mani. Lei è bellissima, con labbra di rubino che parlano da sole, e non è mai stata vostra, nemmeno nei sogni più azzardati, vi dice all’orecchio la voce abrasiva di Tom Waits, nemmeno quelli dove le fiammelle delle candele oscillavano a ogni sospiro. Si consigliano ascolti prolungati.
Tin Hat Trio, Helium, Angel Records, 2000