Recensione del film Jojo Rabbit di Taika Waititi
Tra le tante teorie elaborate sull’interpretazione di Shining (1980) di Stanley Kubrick – raccolte nell’esauriente documentario Stanza 237 (2012) di Rodney Ascher – figura anche quella secondo cui esisterebbe un sottotesto incentrato sull’Olocausto. Prova ne sarebbe la macchina da scrivere tedesca – più precisamente una Adler, termine che significa aquila, animale simbolo della Germania nazista, nonché degli Stati Uniti – di cui si serve Jack Torrence (Jack Nicholson) in svariate scene del film. Un dettaglio apparentemente insignificante. Ma, se si conosce abbastanza bene la cinematografia di Stanley Kubrick, si sa che nulla nei suoi lavori viene mai lasciato al caso. Tanto più che la menzione ricorrente al numero quarantadue presente in Shining potrebbe essere intesa come un riferimento all’anno 1942, quando i nazisti inaugurarono lo sterminio sistematico degli ebrei all’interno dei campi di concentramento. Del resto, negli anni Settanta il regista statunitense aveva intrattenuto una fitta corrispondenza con Raul Hilberg, autore de La distruzione degli ebrei d’Europa, dove, come in Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman, si enfatizza l’aspetto burocratico delle uccisioni, tradotto in termini concreti nel massiccio utilizzo di liste e macchine da scrivere.
Non che Shining debba essere visto a tutti i livelli come un film sull’Olocausto. Ma i riferimenti a esso si inseriscono in una riflessione più ampia sulla violenza del potere statale e sui metodi propagandistici con cui tale violenza viene giustificata o nascosta. Un tema che riguarda tanto la Germania nazista quanto gli Usa – vero oggetto dell’analisi di Kubrick. Non per niente l’Overlook Hotel sorge su un cimitero indiano e nelle sue stanze sono esposti diversi cimeli appartenenti a quella cultura, senza contare che praticamente in ogni scena i colori prevalenti sono il blu, il rosso e il bianco – gli stessi della bandiera statunitense. Il genocidio degli ebrei viene dunque messo in rapporto con quello dei nativi americani e a tutti gli altri massacri di cui gli Usa si sono resi responsabili nel corso della loro storia.
Tuttavia, l’aspetto più interessante del film è la presenza di particolari impossibili disseminati un po’ ovunque. Basti pensare alla montagna di bagagli appartenenti ai Torrence mostrata nella hall al momento del loro arrivo all’Overlook Hotel – decisamente troppi per essere contenuti dall’automobile di piccole dimensioni usata per il viaggio –; o la finestra nell’ufficio del direttore dell’albergo che, in base alla ricostruzione della planimetria, dovrebbe trovarsi al centro della struttura, senza sbocchi sull’esterno; e ancora, la tivù accesa senza fili o il motivo sulla moquette del corridoio che cambia direzione da un’inquadratura all’altra quando Danny (Danny Lloyd) viene ripreso lì a giocare con una palla.
Di nuovo non è plausibile che si tratti di errori grossolani di regia, soprattutto se si tiene conto dell’attenzione maniacale con cui Kubrick costruiva le sue scene. Il loro valore è semmai tematico e si riferisce al modo in cui le persone possono essere facilmente ingannate da quanto viene loro mostrato – e raccontato. Spiega John Fell Ryan nel documentario di Ascher sopracitato: “Ho lavorato in un archivio cinematografico per una decina d’anni. Riguardavo tutta la Seconda Guerra Mondiale dieci volte al giorno. È risaputo che quando si guardano e riguardano le cose il loro significato cambia. Ad esempio, quando si rivedono i cinegiornali della Seconda Guerra Mondiale, dopo un po’ si capisce che è tutta una finzione. Non si vedono truppe all’assalto in Normandia, bensì truppe all’assalto su una spiaggia di Hollywood. Non si vede un aereo diretto in Giappone, ma uno in volo sul Nuovo Messico. Ciò che viene realmente mostrato è una sorta di eroismo inscenato. […] E credo che questo sia un tema su cui gioca Kubrick. Vale a dire sulla nostra accettazione dell’informazione visiva e anche sulla nostra ignoranza visiva”.
Torniamo così al discorso sulla propaganda, uno dei pilastri tematici di Jojo Rabbit, candidato a sei premi Oscar tra cui Miglior film e Migliore sceneggiatura non originale, opera che Taika Waititi ha liberamente tratto dal romanzo Il cielo in gabbia – o Come semi d’autunno, il titolo varia a seconda dell’edizione italiana di riferimento – di Christine Leunens. Già prima di questo lavoro ve n’erano stati altri che si erano proposti di affrontare il tema del nazismo in chiave ironica – primo tra tutti Il grande dittatore (1940) di Charlie Chaplin, subito seguito da Vogliamo vivere! (1942) di Ernst Lubitsch, largamente citato da Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria (2009), senza dimenticare Per favore, non toccate le vecchiette (1967) di Mel Brooks. Eppure Jojo Rabbit riesce ancora a impressionare per la sua originalità, data soprattutto dal fatto che il punto di vista è quello di un bambino di dieci anni – Johannes Betzler, detto Jojo (Roman Griffin Davis) – il quale ha come amico immaginario nientepopodimeno che Adolf Hitler (Taika Waititi), concentrato simbolico di tutti i pregiudizi e le fantasie introiettati dal protagonista per mezzo della colossale macchina propagandistica messa in piedi dal nazismo. “Ripete una bugia cento, mille, un milione di volte e otterrete una verità”.
La frase, ormai famosa, viene comunemente attribuita a Joseph Goebbels e, anche se non esiste alcuna certezza che sia stato davvero lui a pronunciarla, esprime bene gli effetti prodotti dall’incessante assedio di una narrazione ideologica sulla mente umana – in particolare su quella di chi, come nel caso dei bambini, non ha ancora sviluppato strumenti di analisi critica della realtà. Così l’Hitler di Jojo appare alla stregua di uno ‘zio buono’ – pronto a consigliarlo nei momenti di crisi, tirargli su il morale quando si sente abbattuto e metterlo in guardia verso i pericoli costituiti dalla ‘minaccia ebraica’. Una proiezione che ha, tra l’altro, una spiegazione psicologica, dal momento che il padre di Jojo, partito per la guerra, viene dato per disperso – probabilmente disertore. Non per niente il film si apre con un esilarante discorso motivazionale che Hitler tiene a Jojo nel momento in cui quest’ultimo si accinge a raggiungere il campo di addestramento riservato alle reclute della Gioventù Hitleriana: “Di sicuro sei un po’ gracilino, non molto popolare e non riesci ancora ad allacciarti le scarpe da solo a dieci anni… Ma resti il migliorissimo e più leale piccolo nazi che abbia mai conosciuto. Aggiungendo che sei davvero grazioso. Quindi adesso uscirai e ti divertirai un mondo, d’accordo?”.
La tecnica narrativa si rifà almeno in parte a quella dello straniamento – secondo cui la percezione della realtà viene ‘disautomatizzata’ per presentarne aspetti inediti, ottenendo così una visione dell’oggetto e non un suo riconoscimento. Il che ha ovviamente un valore tematico per quanto riguarda il modo in cui la propaganda agisce sulla mente di Jojo, presentando un’immagine di Hitler opposta a quella a cui lo spettatore è abituato. Tecnica che si mantiene egregiamente nelle scene relative alla vita nel campo di addestramento sopracitato in cui è possibile riscontrare, peraltro, evidenti richiami formali al film Moonrise Kingdom. Una fuga d’amore (2012) di Wes Anderson. Emblematico a tal proposito il personaggio del capitano Klenzendorf (Sam Rockwell), istruttore delle giovani reclute, omosessuale, rimasto cieco a un occhio in seguito a “un attacco nemico assolutamente prevedibile”. Il suo discorso di benvenuto ai ragazzini è un capolavoro di black humor – anche per quanto riguarda l’aspetto fortemente patriarcale insito nell’ideologia nazista: “Benvenuti all’addestramento della Hitler Jugend, dove diventerete uomini e donne, nessuno escluso […]. Oggi vuoi verrete coinvolti in attività come marciare, usare la baionetta, lanciare granate, scavare trincee, leggere le mappe, difendersi dal gas, mimetizzazione, tecniche di imboscata ed esplosioni varie (grida di esultanza da parte dei bambini, n.d.a.). Le ragazze impareranno importanti doveri femminili. Per esempio, curare le ferite, rifare i letti e anche rimanere incinte (sospiri di delusione da parte delle bambine, n.d.a.)”. Al che l’istruttrice Fräulein Rahm (Rebel Wilson) dichiara: “Ho avuto diciotto figli per la Germania” – battuta in cui echeggia il provvedimento di Hitler riguardante l’assegnazione della Croce d’onore per le madri tedesche a coloro che partorivano almeno quattro figli.
Inoltre, sempre dal discorso di Klenzendorf, emerge ancora il tema della propaganda in quanto narrazione ideologica avulsa dalla realtà: “Anche se può sembrare che siamo in svantaggio e non ci siano speranze di vincere la guerra, pare che andiamo magnificamente”. Ma proprio nel campo di addestramento della Gioventù Hitleriana, Jojo fa per la prima volta esperienza di tale contraddizione. Dopo essere stato preso in giro da due ragazzi più grandi per non aver voluto uccidere un coniglio – da qui il suo soprannome e il titolo del film, Jojo Rabbit – si rifugia nel bosco, dove ha un secondo dialogo con la proiezione di Hitler che lo convince infine a tornare indietro per dimostrare a tutti il suo coraggio. E per farlo strappa di mano una granata a Klenzendorf per lanciarla lui stesso nel perimetro assegnato per l’esercitazione. Senonché questa rimbalza contro un albero e gli ricade ai piedi. La realtà lo investe, dunque, sotto forma di un’esplosione che lo lascia zoppo e sfigurato su una metà del volto – simbolo della dualità di Jojo in quanto dotato di sentimenti fondamentalmente pacifici in contrasto con la brutalità dell’ideologia nazista da lui introiettata.
E proprio su tale dualità Waititi incentra il restante svolgimento della sua opera. Infatti, se fino a questo momento il film aveva solo parodiato il cinema di formazione per ragazzi, adattando i suoi motivi e cliché all’ethos nazionalsocialista, ora, pur mantenendo gli elementi surreali sopracitati, si comincerà a vedere Jojo alle prese con un effettivo percorso di coscienza, destinato a risolversi in un’epifania sulla falsità delle proprie convinzioni. L’evento scatenante è costituito dalla scoperta da parte del bambino di una ragazza ebrea, Elsa Korr (Thomasin McKenzie), tenuta nascosta dalla madre di lui, Rosie (Scarlett Johansson), nell’esiguo spazio ricavato tra una parete e un contromuro della sua stessa casa – e, più precisamente, uno spazio nascosto all’interno della camera di Inge, la sorella più grande di Jojo, morta alcuni anni prima di una malattia. Particolare non irrilevante dal momento che, ancora una volta, Waititi gioca su una trama di sovrapposizioni psicologiche.
Come la proiezione di Hitler va a ricoprire, tra le altre cose, il ruolo di sostituto del padre per il protagonista, così Elsa diventa per Rosie la figlia perduta e per Jojo una sorella, prima ancora che il suo sogno d’amore – tanto più che le due ragazze erano amiche quando Inge viveva e, per giunta, si somigliano incredibilmente. Tale sovrapposizione è di nuovo ribadita nella scena in cui Elsa afferma di essere Inge davanti ai membri della Gestapo venuti a perquisire la casa. Scena che diventa occasione di una riuscitissima gag quale la ripetizione del saluto “Heil, Hitler” all’ingresso di ogni nuovo personaggio da parte di tutti gli altri presenti – tra cui la stessa Elsa – splendido esempio degli effetti grotteschi prodotti dall’ideologia nazista sui suoi stessi funzionari. Ma non solo: è qui, infatti, che il capitano Klenzendorf – giunto anch’egli a casa Jojo proprio nel corso della perquisizione – dà prova di essere, in realtà, critico al regime in quanto, osservando i documenti di Inge portigli da Elsa, tace su un errore di quest’ultima alla domanda su quella che avrebbe dovuto essere la data del suo compleanno. E, al momento di restituirle la carta di identità, le consiglia di cambiare la foto perché lì sembra un fantasma.
Battuta che fa eco a una precedente, quando Jojo, subito dopo aver scoperto il rifugio di Elsa, scappa da lei, temendo appunto che si tratti di uno spettro. Del resto, tutta la scena è costruita in modo da ricalcare situazioni e cliché del cinema horror: la mano che si sporge oltre l’uscio, la corsa precipitosa di Jojo giù per le scale, le braccia che lo afferrano da dietro un attimo prima di raggiungere la porta, il tutto commentato da una colonna sonora tesa e stridente per aumentare l’effetto di suspense negli spettatori. Si tratta ovviamente di una scelta registica consapevole che rispecchia la visione ideologica degli ebrei da parte di Jojo in quanto mostri assetati di sangue. A questo punto della storia, infatti, il protagonista è ancora saturo di pregiudizi e, se non denuncia la presenza di Elsa alle autorità del regime, è perché così facendo condannerebbe anche sua madre. Inoltre, quest’ultima non deve sapere che Jojo conosce il rifugio di Elsa, altrimenti, temendo la delazione del figlio, obbligherebbe la ragazza ad andarsene. Come spiega Rosie a Elsa nel corso di un dialogo tra le due: “Tu non lo conosci. È un fanatico. Ci ha messo tre settimane a superare il fatto che suo nonno non era biondo”. Del resto, se Jojo decidesse di rivelare la sua scoperta alla madre, Elsa minaccia di tagliargli la testa.
Lo stallo viene risolto da un accordo: Jojo manterrà il segreto di Elsa, se quest’ultima accetterà di aiutarlo nella stesura di un libro sugli usi e costumi del popolo ebraico. Accordo che diventa ancora una volta occasione per mostrare, attraverso una serie di iperboli, l’assurdità dei pregiudizi introiettati dal protagonista. Non per niente, quando Jojo domanda a Elsa di disegnare il luogo in cui vivrebbero gli ebrei, lei fa un ritratto della sua testa: lì dentro, dice. Salvo poi assecondare sarcasticamente il suo credo fanatico con un racconto a dir poco improbabile: “In principio vivevamo nelle caverne, giù fino al centro della Terra. Luoghi spaventosi pieni di strane e meravigliose creature. […] Dopo moltissimi anni passati a sviluppare magie e sortilegi, lentamente ci spostammo dalle caverne alle città. […] Oggi viviamo tra le persone normali, ma spesso invadiamo le case e ci appendiamo al soffitto per dormire, come pipistrelli. Oh, un’altra cosa: possiamo leggere nella mente. […] E siamo anche attratti dagli oggetti lucenti: dai cristalli, dal vetro e dall’oro”. E non è un caso che in questo momento Elsa abbia in mano una sorta di lente di ingrandimento e ci guardi attraverso come a suggerire sul piano simbolico una visione del mondo distorta dalle lenti dell’ideologia.
Ma, come si è detto, Jojo inizia presto ad accorgersi della contraddizione tra le proprie credenze e la realtà. Presa di coscienza in cui gioca un ruolo importante il suo amore per Elsa, accompagnato da un forte sentimento di gelosia nei confronti di Nathan – il ragazzo impegnato nella Resistenza con cui lei dovrebbe sposarsi a Parigi una volta finita la guerra. Estremamente commoventi le finte lettere che Jojo le scrive, spacciandosi per Nathan, prima con l’intento di minare il loro rapporto, poi con quello di offrirle una consolazione. Tanto più che Elsa è perfettamente consapevole dell’inganno, essendo Nathan morto tempo prima e quanto ha raccontato a Jojo su Parigi solo una proiezione di come sognava che andassero le cose. Ciò che Waititi sembra suggerire qui è che qualsiasi percorso di formazione passa necessariamente attraverso un’educazione sentimentale. Ma questa da sola non basta: perché Jojo compia davvero il salto e inizi vedere la realtà del nazismo in tutto il suo orrore è necessario un evento traumatico che si verifica puntualmente con la morte della madre, impiccata in quanto dissidente.
Fino a questo momento, l’immaturità del protagonista era stata evidenziata sul piano simbolico dal fatto che non aveva ancora imparato ad allacciarsi le scarpe da solo. Nel momento in cui scopre il corpo di Rosie penzolare dalla forca, si avvicina per abbracciarle le gambe – e qui nota che ha una stringa slacciata. Ma il dolore per la perdita è troppo grande e il gesto di annodarla viene interrotto dalle lacrime. Bisogna aspettare la fine del film perché si veda Jojo – ormai maturo – chinarsi ad allacciare una scarpa a Elsa con movimenti rapidi e sicuri. Nel frattempo, egli ha anche assistito alla guerra, rappresentata da Waititi attraverso numerosi elementi surreali che, tuttavia, non rinunciano a offrire un significato profondo allo spettatore nello stesso momento in cui gli strappano una risata. Basti pensare alla figura di Yorki (Archi Yates), il migliore amico di Jojo, un bambino paffutello e con gli occhiali che sembra incarnare la figura dell’eterno innocente, inscalfibile dall’esperienza e perciò moralmente ambiguo, se non addirittura votato al male, alla stessa maniera di alcuni personaggi di Graham Greene quali Harry Lime ne Il terzo uomo o Alden Pyle ne L’americano tranquillo.
Questo commento di Pasolini a proposito della sua sequenza del fiore di carta contenuta nel film collettivo italo-francese Amore e rabbia (1969) aiuterà a capire ciò che si intende per ‘colpevolezza dell’innocenza’: “È un episodio del Vangelo che per me è sempre stato molto misterioso e di cui ci sono parecchie interpretazioni contraddittorie. Io l’ho interpretato così: ci sono momenti nella Storia in cui non si può essere innocenti, bisogna essere coscienti; non essere coscienti vuol dire essere colpevoli. Così ho messo Ninetto a camminare per via Nazionale, e mentre egli cammina senza un pensiero e completamente innocente, passano sovrapposte attraverso via Nazionale un certo numero di immagini di alcune delle cose più importanti e pericolose che accadono nel mondo – cose di cui lui non è cosciente, come la guerra del Vietnam, i rapporti tra Est e Ovest e così via: a un certo punto si sente, in mezzo al traffico, la voce di Dio che lo incita a sapere, a essere cosciente, ma come il fico egli non capisce perché è immaturo e innocente, e così alla fine Dio lo condanna e lo fa morire”. Ma, a differenza di Ninetto, Yorki non muore, anzi, dichiara: “A quanto pare io non muoio mai” – a sottolineare il fatto che figure del genere sono destinate a popolare la Storia perfino dopo catastrofi come quella della Seconda Guerra Mondiale. Egli è passato dagli orrori della guerra, ha visto accadere le cose più brutte, ha partecipato in prima persona a stragi ed eccidi. Eppure alla fine del film, a differenza di Jojo, è ancora un bambino, come risulta chiaro dalla sua affermazione: “Penso che me ne andrò a casa da mia madre. Voglio le coccole”.
Del resto, tutto il film di Waititi può essere letto come un conflitto tra innocenza ed esperienza – oltre che tra menzogna e verità. Prova ne è lo spiccato infantilismo con cui sono dipinti tutti i personaggi – salvo quelli di Rosie ed Elsa – a partire dalla proiezione di Hitler che si mette quasi a piagnucolare nel momento in cui Jojo afferma di non volerne più sapere di svastiche e quant’altro. Tema legato a filo doppio con quello della propaganda, dal momento che l’obiettivo di quest’ultima è appunto creare una schiera di uomini e donne inconsapevoli, perciò facilmente manovrabili. Il che è vero per la Germania nazista come per ogni altro Stato – Usa in primis.
Paradossalmente – ma neanche troppo, visto che gli Stati Uniti compaiono tra i Paesi di produzione accanto a Nuova Zelanda e Germania – proprio in Jojo Rabbit si ha una conferma di ciò. Il finale è, infatti, infarcito di bandiere a stelle e strisce, come se solo agli americani spettasse il merito di aver liberato l’Europa dal nazismo. L’unico momento in cui si vede all’opera l’esercito sovietico è quando Jojo rischia di essere fucilato da un soldato dell’Armata rossa, poiché viene scambiato per un militare nazista. Fucilazione sventata solo dal repentino intervento del capitano Klenzendorf che si sacrifica per lui. Il messaggio che passa è chiaramente un’esaltazione manichea degli Stati Uniti in quanto effettivi portatori di pace e democrazia in contrasto ai metodi brutali dell’Unione sovietica, destinata a diventare il principale nemico del potere a stelle e strisce subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Una narrazione quantomeno parziale della Storia, soprattutto se si pensa alla fortissima ingerenza coloniale che ha sempre contraddistinto la politica estera degli Usa, sfociata più volte in veri e propri conflitti armati, non meno cruenti di quelli prodotti dal nazismo.
Del resto, non è certo il primo caso in cui il cinema manifesta una tale parzialità di vedute riguardo agli Alleati. Basti pensare a La vita è bella (1997) di Roberto Benigni – film a cui, tra l’altro, Waititi sembra ispirarsi almeno in parte per quanto riguarda il rapporto tra Rosie e Jojo, contraddistinto dal coraggioso sforzo da parte di quest’ultima di mantenere in casa un clima di leggerezza nonostante tutto, proprio come Guido Orefice (Roberto Benigni) fa con il figlio Giosuè (Giorgio Cantarini) nel momento in cui vengono internati nel campo di concentramento – dove addirittura viene attuata un’opera di revisionismo storico. Per usare le parole di Mario Monicelli: “[…] non come quella mascalzonata di Benigni in La vita è bella, quando alla fine fa entrare ad Auschwitz un carro armato con la bandiera americana. Quel campo, quel pezzo d’Europa lo liberarono i russi. Ma l’Oscar lo si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà” (1).
Al netto di ciò e salvo qualche sbrodolamento retorico – evidente nel caso di alcuni dialoghi tra Rosie e il figlio – Jojo Rabbit resta un’opera godibilissima e originale a modo suo, tanto più che il romanzo a cui si ispira possiede un impianto narrativo completamente diverso. Qui, infatti, la storia vera e propria comincia nel momento in cui Waititi fa terminare il film – e cioè quando Jojo, temendo di perdere Elsa, le dice che è stata la Germania a vincere la guerra in modo che lei sia costretta a rimanere ancora nascosta a casa. Una menzogna che il regista neozelandese fa durare solo pochi minuti – il tempo per Jojo di prendere coscienza del fatto che il suo amore per la ragazza non può giustificare un simile espediente. Il che accade, invece, nel libro di Christine Leunens, dove per decenni Elsa resta ‘prigioniera’ di Johannes in quanto convinta della sempiterna attualità della minaccia nazista. Una dinamica che avevamo visto in atto già nel film Goodbye, Lenin! (2003) di Wolfgang Becker (2) in cui la madre del protagonista è persuasa da questi a vivere nella DDR anche dopo il crollo del muro di Berlino. Ma nell’opera della Leunens lo scenario del conflitto tra verità e menzogna è costituito non solo nel rapporto tra l’Io e l’Altro, ma anche da quello dell’Io con se stesso. Così, mano a mano che ci si avvicina al finale, diventa sempre più chiara la logica di fondo – tratta da Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler – per cui il principe degli ingannatori è la prima vittima dei propri inganni.
Più vicino a Jojo Rabbit per quanto riguarda il tema dell’infanzia sotto il nazismo è il libro di un’altra scrittrice, Catherine Chidgey – neozelandese come Waititi – che ne Il figlio perfetto (Paginauno edizioni) traccia un ritratto di due bambini, Sieglinde ed Erich, raccontanti attraverso la voce narrante di un terzo, che si rivela poi essere una figura chiave del romanzo. Come il film di Waititi, il romanzo è ricco di allusioni alla macchina propagandistica attraverso cui l’ideologia nazista veniva inoculata alla popolazione. Basti pensare alle visite organizzate nelle fabbriche di Berlino a cui Sieglinde partecipa insieme ai suoi compagni di classe – occasione di sperticate apologie della Germania e del suo apparato industriale da parte della maestra – o alle lezioni seguite da Erich a scuola, dove addirittura viene misurato il cranio agli studenti per stabilire il loro indice di ‘arianità’. Tutti esempi di come l’indottrinamento dei più giovani venisse considerata una questione di primaria importanza all’interno del Reichstag.
Per concludere, dacché esistono gli Stati moderni esiste la propaganda. Il nazismo ha fornito un esempio particolarmente esplicito di tale congegno. Ma oggi più che mai essa imperversa nel quotidiano di ognuno – amplificata dalla diffusione sempre più invadente delle nuove tecnologie. L’unico modo di conservare un pensiero indipendente è dotarsi di strumenti critici, ricordando che, a differenza di quanto affermato da Francis Fukuyama, il crollo dell’Unione sovietica non ha segnato la fine delle ideologie, bensì il trionfo di una, quella capitalistica. Ideologia che si dimostra oggi tanto più ingannevole rispetto alla realtà di un mondo devastato da continue crisi economiche di natura sistemica, a cui si aggiunge ora quella del Covid. Come la forbice tra ricchi e poveri, anche quella tra la società e le sue rappresentazioni non è mai stata tanto più larga. E sarebbe ora di accorgersi di tali incongruenze, essendo queste ben più vistose di quelle che Kubrick ha inserito in Shining.
1) Cfr. https://www.mymovies.it/critica/per sone/critica.asp?id=37893&r=934
2) Cfr. Iacopo Adami, Il sogno di una cosa, Paginauno n. 53/2017