Recensione del film La proposta di John Hillcoat (2005)
Australia, seconda metà dell’Ottocento. Charlie Burns (Guy Pearce) e il fratello minore Mike (Richard Wilson) sono accusati del massacro della famiglia Hopkins, aggravato dallo stupro di Elisa, la donna di casa. In seguito a una violenta sparatoria, dove perdono la vita anche due prostitute asiatiche, vittime innocenti delle pallottole della polizia, i due vengono arrestati. Tuttavia, il capitano Stanley (Ray Winstone) non è soddisfatto. Il suo obiettivo è il fratello maggiore di entrambi, Arthur Burns (Danny Huston), capo della banda ai tempi del misfatto. Personaggio da cui Charlie ha preso da tempo le distanze, portando Mike con sé. Sa dove si nasconde. Ma sa anche che nessuno, nemmeno una guida aborigena, avrebbe il coraggio di addentrarsi in quei luoghi. Forse un cacciatore di taglie… Anzi, è sicuro che, prima o poi, un individuo del genere riuscirebbe a mettere le mani su Arthur e a consegnarglielo, vivo o morto. Ma Stanley non vuole semplicemente arrestarlo. Vuole anche infliggergli la maggior dose di dolore possibile. Ecco allora che avviene la proposta evocata dal titolo del film: dovrà essere Charlie a uccidere Arthur. In cambio, otterrà la grazia per sé e Mike, il quale dimostra un evidente disturbo mentale e non può, dunque, essere considerato responsabile delle sue azioni. Tuttavia, resta nelle mani della polizia come ostaggio. La scadenza è il giorno di Natale: se per allora Charlie non avrà consegnato Arthur a Stanley, Mike verrà impiccato.
Inizia allora un lungo itinerario per i due antagonisti, attraverso il quale – in modalità, tempi e luoghi diversi – subiranno entrambi un profondo cambiamento in virtù di una destabilizzante presa di coscienza. Charlie riguardo alla propria umanità: già all’inizio del film emergono i suoi sensi di colpa nei confronti della famiglia Hopkins, ma è nel rapporto con Arthur che questo aspetto viene portato alle estreme conseguenze. Stanley in relazione al sistema che serve, il quale si dimostra più spietato degli stessi criminali a cui dà la caccia, proprio come in King Kong la violenza della civiltà risulta più efferata di quella della natura.
“Civilizzerò questa terra” afferma all’inizio del film. Più avanti, davanti alla moglie Martha (Emily Watson), dirà: “Mi dispiace. Perdonami, ti prego. Volevo solo proteggerti. Avevo una mia idea di giustizia. […] E adesso non lo so”. In mezzo, sono accadute molte cose: in città si è sparsa la voce del patto tra Stanley e Charlie, a causa di un sergente a conoscenza del fatto, il quale dichiara, tra l’altro, di provare un forte desiderio sessuale nei confronti di Martha, trovando in tal senso l’approvazione dei colleghi. Particolare non irrilevante dal punto di vista tematico, poiché si pone in relazione allo stupro di Elisa Hopkins: la natura continua ad agitarsi sotto la crosta sottile della civiltà. L’unica differenza tra questi uomini e Arthur è che i primi esprimono le loro pulsioni in forma sublimata, limitandosi a parlarne, il secondo le lascia agire in totale libertà.
Del resto, anche Fletcher (David Wenham), superiore di Stanley, nonché rappresentante assoluto delle istituzioni sul piano archetipico, quando si reca dal capitano per avere delucidazioni riguardo alla proposta fatta a Charlie, rivolge a Martha degli sguardi abbastanza eloquenti. In questa occasione, vengono dati due ordini: il primo riguarda l’eliminazione di un gruppo di aborigeni ribelli. “È semplice, capitano” dice Fletcher a Stanley. “Si chiama legge della reciprocità. Uccidi uno dei loro e loro uccideranno uno dei nostri. Faccia il lavoro per cui l’ho portata qui. Se deve ucciderne uno, si assicuri che i suoi li uccidano tutti”.
Il che naturalmente rimanda al genocidio perpetrato dagli inglesi nei confronti della popolazione locale a partire dal 1770 – anno in cui James Cook sbarcò a Botany Bay, a pochi chilometri dall’odierna Sidney, inaugurando così la colonizzazione britannica del Paese. Si stima che all’epoca il numero di aborigeni in Australia fosse tra i 500.000 e il milione. Oggi ne sopravvivono solo il 10% e spesso in condizioni miserabili. Una situazione del tutto simile a quella degli indiani d’America, i quali, rimasti senza radici, hanno smarrito il senso della propria esistenza, dimodoché droga, alcol e gioco d’azzardo sono diventate presenze costanti nelle loro vite (1). Per quanto riguarda gli aborigeni, basti pensare che l’apporto alla popolazione carceraria è dodici volte superiore tra gli uomini e quattordici tra le donne rispetto ai bianchi. Il che naturalmente è anche un effetto della discriminazione e delle disastrose condizioni economiche, se si pensa che spesso vengono arrestati per reati di infima entità quali ubriachezza, contegno indecoroso e offesa a pubblico ufficiale (2). In generale, si può affermare che, pure nel caso degli indigeni australiani, si è assistito al tragico impatto della modernità – nei suoi connotati capitalistici e coloniali – su un’economia di sussistenza supportata da un credo animistico in cui la natura veniva intesa come un insieme di relazioni simboliche, pregne di significato (3). In questo senso, basti pensare al rapporto degli aborigeni con il territorio – ogni tribù ne possiede un pezzo, il che equivale a possedere una parte del canto, ovvero il mito sulle peregrinazioni degli antenati, gli esseri soprannaturali emersi dalla terra o dal mare, creatori di ogni forma di vita (4) – o con particolari animali o vegetali in qualità di totem da cui discendono interi gruppi famigliari.
Il secondo ordine di Fletcher riguarda Mike, il quale dovrà subire cento scudisciate, come conseguenza del patto tra Stanley e Charlie. Stanley si oppone: sa che il ragazzo non sopravvivrebbe e, per di più, è ormai convinto che Mike non possa essere considerato responsabile delle sue azioni. Si presenta così una scena che rimanda per molti versi a Cane di paglia (1971) di Sam Peckinpah, film in cui David (Dustin Hoffman) è costretto a difendere Henry Niles (David Warner) – un individuo affetto da un disturbo mentale che ha ucciso accidentalmente una ragazza – da un vero e proprio assedio attorno a casa sua da parte di alcuni membri della comunità. Allo stesso modo, Stanley tenta di impedire alla folla l’accesso alla cella di Mike, minacciando di sparare a chiunque provi ad avvicinarsi. Tuttavia, è costretto a desistere, quando vede anche Martha tra quelle persone. Elisa Hopkins era, infatti, una sua cara amica e non riesce a sopportare che i colpevoli di tutto quanto ha dovuto subire restino impuniti. Eppure, alla vista del corpo di Mike martoriato, sviene. Al che Stanley afferra la frusta e la porge bruscamente a Fletcher, macchiandogli di sangue la faccia. Viene così sottolineata la sua responsabilità riguardo all’accaduto, tanto più che Fletcher è uno di quegli individui buoni solo a dare ordini, mentre le mani devono sporcarsele sempre gli altri. A questo punto, con Mike ricondotto in cella ancora vivo, ma agonizzante, il percorso di Stanely è giunto al termine. Ha compreso l’ipocrisia e l’iniquità del sistema da lui servito e non gli resta che chiudersi in casa e prepararsi alla resa dei conti con la banda di Arthur. Sì, perché, dopo quanto successo a Mike, non può che aspettarsi una vendetta. “Uccidi uno dei loro e loro uccideranno uno dei nostri”. La frase di Fletcher riferita agli aborigeni può adattarsi perfettamente anche alla psicologia di Arthur. Del resto, non è questo l’unico parallelismo che è possibile tracciare tra lui e gli indigeni australiani.
“L’amore è la chiave. L’amore e la famiglia. Che sarebbero la notte e il giorno, il sole, la luna, le stelle, senza l’amore? E quelli che ami intorno a te? Che cosa potrebbe essere più vuoto di morire da soli? Di non essere amati?” Questo discorso di Arthur risulta tanto più significativo, se si tiene conto del complicatissimo sistema parenterale vigente tra gli aborigeni, così intricato che descriverlo nei particolari ci porterebbe via troppo spazio. Al fine della nostra analisi, basti evidenziare che tale ordinamento – nato in relazione al tabù dell’incesto (5) – porta a un approccio quasi mistico al concetto di famiglia, speculare a quello di Arthur. Il piano di Stanley si palesa così in tutta la sua crudeltà: essere ucciso dal proprio fratello, come nel mito di Caino e Abele, è già di per sé una cosa orribile, ma per uno come Arthur si traduce anche in un affronto al suo impianto etico-ideologico.
Tuttavia, durante il viaggio di avvicinamento al rifugio della banda, Charlie viene ferito da un gruppo di aborigeni ed è proprio Arthur a salvargli la vita: “Tu sei mio fratello. Appartieni a me. Noi siamo una famiglia. Tutti quanti”. Appartieni. Vale la pena sottolineare l’utilizzo di questo termine in cui si manifesta ampiamente la concezione tribale che Arthur ha dei legami di sangue. Per lui gli unici doveri sono nei confronti della famiglia, vista alla stregua di un clan. Tutto quanto viene dall’esterno rappresenta un nemico. Ecco come si conciliano in lui vette di sensibilità quali il discorso sopracitato sull’amore e azioni atroci, di cui il massacro degli Hopkins non è che un esempio.
Del resto, nel corso del film, Arthur si dimostra più volte caratterizzato da una visione poetica della vita e della natura in particolare, supportata da una grande cultura e una notevole capacità di esprimersi. “Guarda lì” dice a Charlie, indicandogli il tramonto. “Non ti tocca il cuore? Questa è la fine di tutto”. Al che vengono in mente alcune riflessioni di Edmund Burke sul concetto di sublime, ovvero “tutto ciò che può destare idee di dolore e pericolo, […] tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore. […] l’orrendo che affascina” (6). E sono soprattutto alcune manifestazioni della natura, secondo Burke, a suscitare nell’Uomo tali emozioni, soprattutto quando si legano alla sua paura più grande, che è quella della morte. In tal senso, il tramonto ha un grande significato simbolico e, come vedremo, anche valore di anticipazione per quanto accadrà in seguito tra Arthur e Charlie.
Del resto, vale la pena ricordare che il film è ambientato in Australia, un Paese dal territorio estremamente ostile in cui prolifera il più alto numero di specie velenose al mondo, animali e vegetali – e le mosche presenti quasi in ogni scena del film rimandano subito a un’idea di morte, corruzione, putrefazione. Non per niente Arthur e la sua banda si nascondono in una grotta, luogo che rimanda alla preistoria dell’Uomo, quando egli era tutt’uno con la natura, ma anche alle profondità dell’inconscio. In sintesi, ciò che uno dei più grandi compositori di murder ballads, Nick Cave, autore delle musiche e sceneggiatore del film, e il regista John Hillcoat vogliono dimostrare è che esiste una radice comune a orrore e bellezza – un cuore di tenebra che, adottando un approccio freudiano, è possibile rintracciare nell’Es.
In effetti, Arthur è puro istinto. E ciò risulta evidente, sul piano simbolico, dal fatto che gli aborigeni lo considerano capace di trasformarsi in un cane. Del resto, questo animale è davvero presente nella grotta, tant’è che, a un certo punto, viene inquadrato sul giaciglio accanto ad Arthur, tracciando un evidente parallelismo tra i due. Un’ulteriore variazione sul tema riguarda Samuel (Tom Budge), membro della banda caratterizzato, sì, da uno spiccato sadismo, ma anche da una voce meravigliosa. “Canta come un usignolo” afferma Arthur in più occasioni. E lo stesso vale per Jellon (John Hurt), il cacciatore di taglie deciso a mettere le mani su tutti i membri della banda di Arthur per intascare la ricompensa. Quando Charlie, ancora all’inizio del suo viaggio, lo incontra per la prima volta in una taverna, egli si presenta come cittadino del mondo, avventuriero e soprattutto uomo di non poca istruzione. Lo dimostra citando L’origine delle specie di Charles Darwin – evidente richiamo alla presenza della natura sotto la crosta della civiltà – insistendo sul fatto che, secondo quella teoria, tutti gli esseri umani discenderebbero dalle scimmie, cosa a cui non vuole credere per via del suo razzismo, non solo verso gli aborigeni, ma anche nei confronti degli irlandesi, di cui Charlie è un esponente. Il che permette di identificare subito Jellon come personaggio rappresentativo della violenza coloniale: Irlanda e Australia vengono messe sullo stesso piano in quanto Paesi devastati dalle mire espansionistiche dell’Impero britannico. Tuttavia, nemmeno Jellon risulta privo di spessore in quanto, a differenza di un funzionario come Fletcher, si tratta di una persona perpetuamente a contatto con la vita e la morte. Spessore che si manifesta soprattutto nel momento della sua fine. Ma, prima di parlarne, è necessario fare un piccolo passo indietro.
Durante il periodo della sua convalescenza nel rifugio di Arthur, Charlie non ha abbandonato l’idea di dover uccidere il fratello. Lo dimostra la menzogna da lui raccontata, secondo cui Mike si troverebbe a Clarence insieme a una ragazza di nome Molly O’Boyle. In un primo momento Arthur dimostra di credergli. Tuttavia, una notte, senza che accada alcunché in particolare, comprende la verità. Un’illuminazione repentina che risulterebbe ingiustificata in qualsiasi altro film, ma non qui. Bisogna ricordarsi, infatti, che Arthur rappresenta l’istinto. E non è un caso che lo scatto mentale che lo porta a riconoscere la menzogna di Charlie avvenga mentre sta guardando la luna – da sempre legata nell’immaginario collettivo a una dimensione pre-razionale. Così, con l’intenzione di abbandonare il rifugio per andare a salvare Mike, si disfa del superfluo, bruciando libri e oggettistica varia. Tuttavia, deve prima trovare un cavallo per Charlie, poiché il suo è stato ucciso dagli aborigeni – e in tale desiderio si dimostra ancora una volta la sua ossessione per la famiglia. Sì, perché, nonostante tutto, vuole ancora il fratello accanto a sé nell’impresa: in ogni caso, il clan deve restare unito. A questo punto, Jellon fa la sua comparsa nella caverna, cogliendo Charlie di sorpresa, mentre Arthur è fuori con Two Bob (Tom E. Lewis), un altro membro della banda di etnia aborigena, appunto per rubare un cavallo. Tuttavia, il suo rientro tempestivo fa sì che Charlie abbia di nuovo salva la vita.
Ecco allora che possiamo tornare allo spessore di Jellon. Colpito allo stomaco da una fucilata, si rende conto di essere spacciato e pronuncia un discorso molto toccante: “La notte e il giorno, fratello. Entrambe cose dolci. Il sole, la luna, le stelle sono tutte cose dolci. Silenziose. Sulla brughiera c’è il vento. La vita è molto dolce, fratello”.
Arthur riconosce la citazione: si tratta di George Borrow, uno scrittore inglese, noto soprattutto per le sue novelle incentrate sulla vita degli zingari. Particolare non irrilevante, poiché il concetto di libertà assoluta a cui viene generalmente associata tale popolazione, ben si attanaglia allo stile di vita di Arthur. Tuttavia, nonostante quest’ultimo dimostri rispetto per il cacciatore di taglie, sostenendo che ha appena espresso un bellissimo sentimento, resta il fatto, come dichiara subito dopo, che loro due non sono fratelli. “Questo farà male” dice a Jellon, prima di infilzarlo con un pugnale, con l’intenzione non solo di ucciderlo, ma anche di farlo soffrire il più possibile. Al che Charlie, nauseato dal suo sadismo, gli punta contro la pistola. Passano alcuni istanti di tensione in seguito ai quali Arthur pronuncia una frase molto significativa: “Perché non riesci mai a fermarmi?” Poi Charlie spara in testa a Jellon in un moto di pietà. Dal momento che Arthur gli ha salvato la vita per ben due volte, il debito morale nei suoi confronti è troppo grande. Motivo per cui Charlie si unisce alla spedizione per salvare Mike, la quale ha esito positivo. Tuttavia, le ferite riportate in seguito alle scudisciate sono troppo gravi e il ragazzo muore poco dopo.
L’appuntamento è ora a casa di Stanley per vendicarsi. Arthur mette l’uomo fuori gioco, coprendogli la testa con una bandiera britannica, che alza poi in un secondo momento, quando Samuel dovrebbe violentare Martha di fronte al marito. Il che può essere letto anche come una rappresentazione della presa di coscienza di Stanley – la bandiera in qualità di paraocchi ideologico, caduto il quale risulta evidente la barbarie del sistema da lui servito. Lo stupro di Martha si pone così in relazione allo stupro della terra australiana perpetrato dagli inglesi. Tuttavia, Charlie interviene prima che questo accada. Dopo aver sparato in testa a Samuel, volge la pistola contro Arthur: due colpi. “Non più” dice al fratello maggiore, ancora in vita, nonostante le ferite. Al che Arthur si trascina fuori dalla casa per osservare un’ultima volta il tramonto, con Charlie che lo segue, sedendosi accanto a lui.
“Mi hai fermato. Che farai adesso?” Il film si conclude con questa domanda lasciata in sospeso nella quale è possibile rintracciare tutto il dramma dell’Uomo contemporaneo in perenne conflitto tra principio di piacere e principio di realtà. Sì, perché il percorso di Charlie può essere letto anche come una rappresentazione della problematica emersione dell’Io dal magma dell’Es, di cui, come abbiamo visto, Arthur sarebbe il simbolo vivente, mentre, dall’altra parte, il rapporto tra Stanley e Fletcher rimanda a quello tra Io e Super-Io: anche quest’ultima componente della nostra psiche, se lasciata agire indiscriminatamente, è in grado di provocare disastri direttamente proporzionali alle tensioni che essa comporta. In tal senso, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson ha fatto scuola, dimostrando come tutto ciò che viene represso brutalmente sia destinato a riemergere sotto forma di Ombra. Di sicuro quello che Nick Cave e John Hillcoat hanno voluto dimostrare con questo film è che Io e Super-Io, presi in se stessi, non hanno nulla a che spartire col sentimento del bello. Per questo motivo reprimere completamente la nostra parte animale non è mai una buona idea. Farlo significa perdere, tra le altre cose, la capacità di commuoversi davanti a un tramonto.
1) Cfr. Iacopo Adami, Un buon giorno per morire, Paginauno n. 59/2018
2) http://informazionescomoda.altervista.org/?p=314
3) Cfr. Iacopo Adami, Un buon giorno per morire, Paginauno n. 59/2018 e Iacopo Adami, La parola uccisa, Paginauno n. 64/2019
4) Cfr. Bruce Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi
5) Cfr. Sigmund Freud, Totem e tabù, Bollati Boringhieri
6) Edmund Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, Aesthetica