Recensione del film Black ’47, Lance Daly
Per più di ottocento anni gli irlandesi sono stati vittime del colonialismo britannico, un’oppressione iniziata già nel 1169, quando gli anglo-normanni guidati da Enrico II sbarcarono sull’isola, arrivando a controllarne tre quarti in circa mezzo secolo. Da questo momento in poi Londra avrebbe avuto sempre maggiori pretese in fatto di ingerenza. Nel 1494 la legge Poynings stabilì che quanto deciso in Inghilterra avesse valore anche in Irlanda. Meno di un secolo dopo, nel 1534, Enrico VIII della casata dei Tudor impose la Riforma protestante all’Irlanda, per poi proclamarsi re dell’isola nel 1541. Nel corso di questo stesso anno vennero avviate nuove campagne militari, legittimate sul piano giuridico dal Crown of Ireland Act, che sancì la nascita del Regno d’Irlanda. Un ‘lavoro’ proseguito da Elisabetta I, la quale, tra il 1558 e il 1603, riuscì a distruggere la struttura sociale dell’isola, basata sulle leggi di Brehon, trasmesse fin dall’antichità sia oralmente che attraverso norme scritte.
Prima della colonizzazione inglese, infatti, in Irlanda non esisteva un’autorità centrale, i re comandavano solo sul loro territorio e venivano eletti in base al merito, non per successione ereditaria come nei sistemi feudali. Usanza collegata al fatto che nella maggior parte dei casi la terra era considerata un bene collettivo: la sussistenza della comunità non poteva essere subordinata ai capricci di un singolo ‘signore’. Secondo quanto riportato da Riccardo Michelucci nella sua Storia del conflitto anglo-irlandese: “A dispetto del carattere di barbarie a esso attribuito dagli invasori inglesi, per secoli questo codice aveva regolato la vita delle comunità attraverso un’organizzazione dell’attività fondiaria basata sulla giustizia e l’aiuto reciproco. La terra era sfruttata a vantaggio del popolo e la vita sociale era organizzata in gruppi o in corporazioni, come quelle degli agricoltori, degli artigiani, degli artisti e dei letterati, ciascuna delle quali eleggeva un proprio rappresentante nelle assemblee consultive formate dai membri delle altre corporazioni. Molto importanti erano gli istituti dell’adozione e della tutela, che venivano regolati dalla legge nell’interesse dei bambini e dei genitori adottivi. Il brehon (giudice) amministrava le leggi, che per essere promulgate o abolite richiedevano l’opinione congiunta dei rappresentanti dei singoli gruppi. Tali disposizioni si basavano sull’identità dell’individuo definita in termini di clan e di benessere personale ed erano animate da un profondo spirito democratico.
Anche i re erano chiamati a rispettarle e non erano esentati dai doveri nei confronti dei sudditi. I ricchi erano costretti a pagare i debiti alla stregua dei poveri, i ladri erano puniti a prescindere dalla classe sociale alla quale appartenevano, le donne godevano di uno status quasi paragonabile a quello degli uomini e potevano svolgere qualsiasi attività lavorativa. Dall’avvento del Cristianesimo fino a molti secoli dopo la conquista anglo-normanna, l’aspirazione alla cultura e all’attività intellettuale furono elementi talmente importanti della vita irlandese che l’istruzione fu garantita per legge e il Brehon stesso aiutava i suoi figli adottivi ad acquistare le più alte dignità nelle professioni intellettuali. Nonostante i conflitti interni e le frequenti lotte fra clan, nei lunghi secoli in cui fu organizzata sulle leggi di Brehon l’Irlanda riuscì a raggiungere elevati livelli culturali mantenendo costumi e usanze estremamente semplici. L’instaurazione del sistema feudale era stata ostacolata, fino ad allora, proprio da quell’apparato legislativo che gli inglesi consideravano ‘barbaro’. Per questo decisero di smantellarlo a partire dal XVII secolo, presentando l’imposizione della legge inglese come una sorta di missione civilizzatrice” (1). Un tratto tipico del colonialismo in ogni epoca, come testimoniano ancora oggi i vari massacri perpetrati dalle potenze occidentali in nome della democrazia.
Dopo la completa distruzione delle Brehon Laws, tra il 1608 e il 1610, Giacomo I della casata degli Stuart avviò la cosiddetta Plantation dell’Ulster: coloni protestanti anglo-scozzesi vennero incentivati a stanziarsi in quella regione, gettando le basi per il conflitto nordirlandese. Del resto, già nel 1641 ci fu una ribellione della popolazione autoctona, presentata dagli inglesi come una vera e propria ‘saga degli orrori’ perpetrata dai cattolici nei confronti dei protestanti. Contro tale narrazione si attivò lo storico William Lecky in epoca vittoriana, il quale, come già il suo collega irlandese John Curry aveva fatto nel Settecento in opposizione a Sir John Temple, autore del resoconto The Irish Rebellion, pubblicato nel 1646, presentò la rivolta in quanto reazione alle dure politiche del governo di Londra e alle violenze perpetrate dai coloni sull’isola.
Si arriva così alla campagna militare del 1649-1653, ancora viva nella memoria popolare irlandese per via delle efferatezze di cui si rese protagonista l’esercito britannico guidato da Oliver Cromwell, il quale combatteva, stando alle cronache dell’epoca, in preda a furore omicida. “Calvinista ortodosso e visceralmente anticattolico, Cromwell era convinto che fosse la Divina Provvidenza a indicare al popolo la strada da seguire e che proprio lui fosse stato scelto da Dio per condurre la sua gente verso la salvezza eterna. Come accecato da un autentico furore religioso, dichiarò di aver agito in nome della volontà divina anche quando fece espellere oltre un migliaio di preti dall’Irlanda. Il suo proverbiale odio contro i cattolici apparve tuttavia circoscritto al clero e ai fedeli irlandesi, mentre in più occasioni mostrò una relativa tolleranza nei confronti dei cattolici inglesi. Cromwell spazzò via in breve tempo tutti i negoziati che negli anni passati avevano garantito una qualche tolleranza nei confronti del cattolicesimo, ne vietò il culto in qualunque forma e arrivò infine a bandire la presenza di sacerdoti e vescovi sotto la minaccia della pena di morte. […] Il ricorrente elemento mistico sul quale Cromwell aveva modellato il suo personaggio servì così anche a presentare con tono enfatico la sua campagna d’Irlanda. Ma per assicurarsi i buoni auspici della Provvidenza era stato radunato anche un esercito di oltre ventimila uomini dotato di massicci rifornimenti” (2).
Perché si organizzasse una resistenza irlandese sulla base di un moderno nazionalismo repubblicano, si dovette attendere il 1791, quando, ispirato dalla Rivoluzione francese, il protestante Theobald Wolfe Tone fondò la Società degli Irlandesi Uniti, caratterizzata da un approccio interconfessionale in opposizione alla logica del dividi et impera attuata da Londra fino a quel momento. La prima insurrezione ebbe luogo nel 1798. Tuttavia, è ormai accertato che furono gli stessi inglesi a provocarla, facilitandola, in quanto serviva da pretesto per abolire il Parlamento protestante di Dublino – il quale aveva comunque una funzione più simbolica che altro – in un contesto in cui si temeva un’alleanza tra gli indipendentisti irlandesi e l’esercito francese guidato da Napoleone. L’Atto di Unione tra Gran Bretagna e Irlanda entrò in vigore nel 1801. Tre anni dopo la sconfitta di un’altra insurrezione con a capo Robert Emmet segnò la fine degli Irlandesi Uniti. Il testimone della resistenza passò, dunque, al cattolico Daniel O’Connell, leader di un movimento riformista che nel 1829 riuscì a ottenere il riconoscimento dei diritti politici attivi e passivi dei suoi correligionari. Tuttavia, permanevano grandi limitazioni in base allo status e al censo. Egli si fece portavoce, inoltre, di una campagna contro l’Atto di Unione che gli costò l’arresto per cospirazione nel 1843.
Ma a segnare una drammatica svolta nella questione irlandese fu la Grande Carestia del 1845-1851. In questi anni gli inglesi utilizzarono il cibo come arma, facendo leva su una malattia della patate (la Phytophtora infestans, un fungo proveniente dall’America del Nord), elemento base nella dieta contadina. Ma questo fatto non sarebbe bastato a provocare oltre un milione di morti e un milione e mezzo di emigranti dall’Irlanda (3), se i funzionari del governo britannico non avessero continuato a trasferire altri beni alimentari dall’Irlanda all’Inghilterra, grano in primis. Anche senza le patate, l’isola restava, infatti, uno dei territori più fertili e ricchi di selvaggina di Europa.
“Gli inglesi non pianificarono lo sterminio di massa per fame della popolazione irlandese, ma di sicuro non fecero niente per prevenirlo o per ridurne le tragiche conseguenze. Al contrario, secondo parte dell’opinione pubblica e del mondo politico inglese, la malattia della patata non aveva colpito l’Irlanda a caso ma rappresentava una vendetta divina contro i cattolici irlandesi colpevoli di aver commesso alcuni ‘peccati nazionali’ […]. Cinicamente la Grande Carestia fu considerata soprattutto un dono offerto dalla Divina Provvidenza per risolvere il problema della sovrappopolazione e ripulire una volta per tutte l’isola dalle masse di disperati che rappresentavano un motivo di imbarazzo per il potere inglese e anglo-irlandese. Agli inglesi può essere sicuramente attribuita perlomeno la responsabilità indiretta della morte per fame e malattie degli irlandesi perché il sistema coloniale che avevano instaurato in Irlanda aveva costretto la popolazione a nutrirsi esclusivamente di patate. Per salvare centinaia di migliaia di vite sarebbe stato sufficiente interrompere le massicce esportazioni di generi alimentari che negli anni della Grande Carestia proseguirono come se niente fosse dai porti irlandesi” (4).
Tutti elementi che vengono palesati nella loro intera drammaticità nel film Black ‘47 di Lance Daly, un vero e proprio western ambientato, come suggerisce il titolo, nell’anno più duro della carestia. La storia si apre col ritorno in Irlanda di Martin Feeney (James Frecheville), ex soldato che ha disertato dalle file dell’esercito inglese, dopo aver combattuto per conto della Corona alcune guerre coloniali, con particolare riferimento all’Afghanistan. Già questo fatto può essere fonte di alcune riflessioni.
Innanzitutto Daly traccia un parallelismo tra l’Irlanda e le altre colonie dell’Impero. Ma non solo: in quanto irlandese Feeney vive la contraddizione di prestare servizio per il potere britannico, che lo considera semplicemente ‘carne da macello’. Contraddizione che si spiega col movente della fame, poiché fare il soldato significa guadagnare dei soldi. Il che rimanda al concetto di ricatto sociale. Ma c’è un ulteriore livello di lettura, fondamentale dal punto di vista tematico. Spesso quegli scrittori o registi animati da ambizioni che vanno al di là del semplice intrattenimento, nel momento in cui decidono di realizzare un’opera a sfondo storico, lo fanno per mettere in luce una problematica attuale. Basti pensare al film In nome del papa re (1969) di Luigi Magni, dove la questione generazionale, con la messa in discussione dello status quo da parte dei giovani del Risorgimento, rimanda ai moti studenteschi del ‘68. Un altro celebre esempio è Il gattopardo di Tomasi Di Lampedusa, scritto tra il 1954 e il 1957 e pubblicato nel 1958, mentre il bellissimo film che Luchino Visconti ha tratto dal romanzo risale al 1963. Pur essendo ambientato anch’esso nel Risorgimento, la famosa asserzione secondo la quale se si vuole che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi, si riferisce altresì all’Italia – e non solo alla Sicilia – del secondo Dopoguerra. Così nel film di Daly non è un caso che venga citata più volte l’esperienza di Martin in Afghanistan, poiché in quello Stato l’Inghilterra continua ad avere un ruolo importante nel conflitto – ancora in corso – al fianco degli Stati Uniti, senza contare che, pur essendo ormai cessati gli scontri con l’IRA, la questione nordirlandese resta aperta e lo sarà fino a quando il potere inglese non cesserà di esercitare la sua influenza in Ulster.
Tornando alla trama di Black ‘47, non appena Martin arriva al proprio villaggio, scopre che la madre è morta di fame a causa del suo rifiuto di mangiare la zuppa offerta dai pastori protestanti come premio a chi rinnega la religione cattolica, mentre il fratello è stato impiccato per aver pugnalato l’esattore venuto a smantellare la casa. A questo proposito, è bene ricordare che nella stragrande maggioranza i contadini irlandesi non erano proprietari delle terre da loro coltivate. Esse appartenevano a possidenti inglesi, i quali le affittavano agli autoctoni, salvo poi disfarsene nel momento in cui veniva meno l’interesse economico. Esattamente questo successe negli anni della Grande Carestia: “Finite le guerre napoleoniche in cui il grano aveva raggiunto prezzi molto alti, le terre per la coltivazione erano diventate meno redditizie che in passato e gli affittuari, utili finché c’era da produrre grano, erano diventati un intralcio a un diverso sfruttamento delle terre. La carestia forniva l’opportunità ideale per sbarazzarsene. Secondo i dati contenuti negli archivi giudiziari, tra il 1847 e il 1853 oltre ottantaquattromila famiglie vennero sfrattate dalle loro terre” (5). In questo senso va letta la Poor Law, la legge di assistenza ai poveri introdotta nel 1847 dal governo britannico. Una clausola stabiliva, infatti, che chiunque possedesse in qualsiasi forma – compreso, dunque, il contratto di affitto – più di un quarto di acro di terra inglese fosse escluso dagli aiuti. Dimodoché i contadini erano costretti ad abbandonare le loro case, se non volevano morire di fame. Il che rimanda al tema del furto, una delle assi portanti di Black ‘47.
Non per niente uno dei primi conoscenti che Martin incontra dopo il suo rientro in Irlanda è Bertla O’Naughton, il quale ha trasformato la casa della madre del primo in un porcile per i suoi maiali, su cui ha affisso il cartello recante la scritta: “I ladri saranno puniti”. Inoltre, Michael, figlio del fratello di Martin, viene ucciso per aver resistito all’arresto in rapporto a un furto commesso in precedenza. Ma chi è il vero ladro, se non il potere britannico e i suoi rappresentanti, venuti a imporre la loro legge e a sottrarre le terre agli irlandesi con la violenza delle armi? La scena dell’uccisione di Michael è emblematica da questo punto di vista e non è un caso che avvenga proprio durante lo scoperchiamento del tetto dell’abitazione in cui anche Ellie (Sarah Greene) e le sue figlie avevano trovato riparo dopo essere state sfrattate, preludio alla loro morte per congelamento. Nemmeno l’intervento di Martin, con la sua offerta di pagare l’affitto al proprietario, si rivela di qualche aiuto, poiché, come gli viene spiegato da Cronin (Aidan McArdle), luogotenente di Lord Kilmichael (Jim Broadbent), Ellie e gli altri si sono introdotti nell’abitazione illegalmente – sempre secondo i canoni della legge inglese. Così, quando Martin cerca di impedire l’uccisione di Michael, viene fermato con la forza, sicché il volto gli si sporca di fango in modo da suggerire una coincidenza, sul piano simbolico, tra la sua identità e la terra irlandese. Da questo momento in poi, come se non bastasse la semplice diserzione dall’esercito inglese, egli sarà a tutti gli effetti un uomo in rivolta, secondo la definizione di Albert Camus: “Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando” (6).
Medesimo principio vale per l’eliminazione del giudice Bolton (Dermot Crowley), responsabile della condanna all’impiccagione del fratello di Martin. Egli ci viene presentato mentre, durante una seduta in aula, si rifiuta di fornire un traduttore all’imputato – un contadino irlandese – sostenendo che la sua ostinazione a parlare in gaelico è determinata da un scelta consapevole e non dall’ignoranza della lingua inglese. Poco dopo è Martin – in una chiara inversione dei ruoli – a giudicare Bolton, porgendogli una corda da impiccato. E alle proteste di quest’ultimo risponde in gaelico: “L’inglese non è la lingua di questa Corte. Avete accusato mio fratello di omicidio, Michael Feeney. Come vi dichiarate?”. Il che rimanda al tema dell’identità nazionale. Fin dall’inizio, infatti, il potere britannico tentò con ogni mezzo di distruggere la cultura irlandese, arrivando addirittura a proibire – in certi momenti storici – il possesso di strumenti musicali legati a quella tradizione. Ed è interessante notare come, dopo la Grande Carestia, la lingua gaelica fosse pressoché estinta, a ulteriore conferma dello sfruttamento machiavellico della malattia delle patate da parte degli inglesi per colpire la popolazione dell’isola.
La furia di Martin si abbatte anche sui rappresentanti della Chiesa, non solo protestante. Se i pastori, infatti, costituiscono un’emanazione del potere coloniale britannico in quanto, attraverso il ricatto della zuppa, ambiscono a distruggere l’identità irlandese, i preti cattolici non sono da meno, poiché pretendono che la popolazione muoia di fame, piuttosto che rinnegare la loro fede in Roma. E come strumento di convinzione agitano lo spauracchio dell’inferno: “La zuppa vi riempirà, ma a quale prezzo? La vostra anima sarà incatenata per l’eternità. Molti sono stati presi dalla febbre e dalla fame. Ma sono con il Signore ora. Mangiate quella zuppa e andrete all’inferno. Sarete dannati per sempre”. A causa di discorsi del genere, la madre di Martin è morta di inedia. Comprensibilmente, dunque, dopo aver sfidato il pastore protestante, entrando nella sua tenda e mangiando la zuppa, senza aver prima abiurato, Martin se la prende anche col prete cattolico che tenta di bloccare gli affamati all’esterno. Del resto, non bisogna dimenticare che il conflitto anglo-irlandese è innanzitutto una questione politica.
La religione vi si innesta come fattore complementare, legato a un’affermazione di identità, ma alla base resta lo sfruttamento britannico delle risorse e della popolazione dell’isola prima in chiave feudale e poi capitalistica. Senza contare che fu proprio la Chiesa cattolica a favorire la prima invasione anglo-normanna dell’Irlanda, anche se sussistono ancora dubbi circa l’autenticità della bolla papale Laudabiliter, attraverso cui Roma avrebbe autorizzato Enrico II alla missione colonizzatrice. Tuttavia, come ricorda Michelucci nel suo saggio più volte citato, esistono prove certe che le proposte di conquista dell’Irlanda siano state discusse durante un Consiglio reale inglese a Winchester nel 1155: “In quell’occasione John di Salisbury, segretario dell’Arcivescovo di Canterbury, ottenne un documento ufficiale nel quale il papa dava il via libera a un intervento degli eserciti di Enrico II. «In risposta alla mia petizione – ebbe modo di scrivere poi il segretario – il papa concesse e donò l’Irlanda all’illustre re d’Inghilterra, in proprietà sua e dei suoi successori, come attestano lettere ancora esistenti. Ciò fece in virtù dell’antico diritto, d’antica data, che si reputava derivasse dalla Donazione di Costantino, il documento secondo il quale tutte le isole erano considerate appartenere alla Chiesa di Roma. Inoltre, tramite mio, il papa inviò al re un anello d’oro con incastonato un magnifico smeraldo, in segno della sua investitura, nel re angioino, di governare l’Irlanda“ (7).
Tornando al film, già dopo l’evasione di Martin dalla caserma di Connemara, il capitano Pope (Freddie Fox) e l’ispettore Hannah (Hugo Weaving) vengono incaricati di dargli la caccia. Si potrebbe descrivere il primo dei due inseguitori come un impasto tra Oliver Cromwell ed Herbert Spencer. Il suo razzismo nei confronti degli irlandesi è condito, infatti, da una buona dose di darwinismo sociale, senza dimenticare un pizzico di fanatismo religioso, come dimostra il dialogo col giornalista del Wexford Indipendent incontrato sul treno. Quando quest’ultimo lo informa che sta stilando un rapporto sugli aspetti economici della carestia nell’Ovest, Pope risponde con una citazione biblica: “Lettera ai Galati, Capitolo sei, Versetto sette: Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. L’alcolismo e l’incapacità sono gli aspetti economici dell’Ovest”. E quando il giornalista gli ricorda la continua perdita dei raccolti, prosegue sullo stesso tono: “Gli insuccessi risiedono nel carattere delle persone. Spiega la vostra totale dipendenza dall’alimento più facile da coltivare dall’uomo”. Poco importa che le patate fossero l’unico prodotto in grado di sfamare tanti con poco terreno, mentre il potere britannico, col suo sciacallaggio economico, impediva agli autoctoni ogni altro tipo di dieta. Pope è lapidario: “Cibo per dei servi contenti. Non per gli arditi e coraggiosi”.
In questo breve scambio di battute si manifesta una lunga tradizione di pregiudizi, comune, in realtà, a tutte le potenze coloniali interessate a legittimare la propria influenza in un data regione del mondo. Per quanto riguarda l’Irlanda, già nel 1188 Giraldo Cambrese scrisse due opere per giustificare l’intervento anglo-normanno sull’isola: la Topographia Hibernica e la Expugnatio Hibernica. “Redatti in latino e tradotti in inglese solo molto tempo dopo, i due volumi inaugurarono la tradizione storiografica anti-irlandese: nei secoli successivi intere generazioni di storici e scrittori [britannici] avrebbero ripreso a piene mani le descrizioni dell’ecclesiastico gallese. […] Alle lodi e agli apprezzamenti che contraddistinguono le descrizioni delle ricchezze paesaggistiche e naturali […] fa da contraltare l’estremo disprezzo nei confronti degli indigeni, definiti senza mezzi termini un popolo di barbari e di falsi cristiani, in tutto e per tutto inferiori agli anglo-normanni. Giraldo irride la loro zootecnica primitiva, l’economia essenzialmente pastorale dell’isola e il disinteresse per la vita urbana dei suoi abitanti («vivono di sole bestie e come le bestie»), ne disprezza le abitudini, i vestiti e l’aspetto fisico («i lunghi capelli e le barbe incolte sintomo di barbarie»). Nei suoi scritti emerge il contrasto medievale tra una società fondamentalmente pastorale e itinerante come quella irlandese e una civilizzazione feudale, urbana e centralizzata come quella anglo-normanna” (8).
Diverso da Pope, poiché meno fanatico, seppur non gli fa difetto la crudeltà, come dimostra la scena di apertura del film in cui strangola un prigioniero rifiutatosi di fare i nomi dei suoi complici, l’ispettore Hannah viene graziato dalla pena che gli spetterebbe per questo crimine in quanto si tratta dell’uomo più adatto a seguire le tracce di Martin. Anch’egli ha combattuto in Afghanistan, dove è venuto a contatto col rivoltoso, quando ancora questi era un soldato dell’esercito britannico. Ciò che i superiori di Hannah sembrano ignorare è che proprio in Afghanistan Martin ha salvato la vita del poliziotto, tirandolo fuori da un’imboscata. Fatto prontamente distorto dalla versione ufficiale dell’accaduto, poiché, dal punto di vista della Corona, è impensabile che un irlandese si dimostri più capace di un inglese in campo militare e non solo. L’episodio viene ricordato in un dialogo molto toccante tra Hannah e Martin, dopo che quest’ultimo ha evitato di sparare al primo nel corso di uno scontro presso la villa di Cronin, il cui cadavere, sempre secondo la logica del contrappasso, viene ripescato in mezzo a un mucchio di grano destinato all’esportazione in Inghilterra. Tra l’altro, Martin afferma: “Abbiamo fatto delle cose per loro che non possono essere perdonate. E per cosa? Quando torno a casa da tutto questo? Se uccido un uomo, lo chiamano omicidio. Se lo fanno loro, lo chiamano Guerra, Provvidenza, Giustizia. Come sarà fatta giustizia per la mia famiglia, se non per mano mia? Va’ a casa, uomo inglese. Non hai niente da fare qui”. Al che Hannah risponde: “Non me ne vado via da qui senza di te”. Quindi Martin lo minaccia: “Allora non te ne andrai affatto”.
Tuttavia, quando più avanti Hannah si trova di fronte alla scelta se uccidere Martin o lasciarlo scappare, è la seconda opzione che decide di perseguire. Il che permette al rivoltoso di rapire Lord Kilmichael, il più alto rappresentante del colonialismo britannico, discendente di una famiglia di nobili con interessi in Irlanda da più di duecento anni. Rapimento che gli consente di chiudere la catena di contrappassi in quanto, legando il possidente al proprio cavallo, col volto incappucciato, Martin fa credere a Pope e agli altri soldati che si tratti di sé. Cosicché membri dell’esercito inglese sparano proprio a colui il quale avrebbero dovuto difendere. Il diversivo serve, inoltre, a sventare la fucilazione di Hannah in un continuo gioco di specchi tra lui e Martin in cui si alternano i ruoli di salvatore e salvato. A questo punto, il poliziotto è ormai apertamente schierato dalla parte di Martin e dei contadini irlandesi che approfittano del tumulto per riappropriarsi del grano a loro sottratto da Lord Kilmichael. Tuttavia, prima che Hannah e Martin riescano a fuggire sullo stesso cavallo, Pope spara al secondo, ferendolo gravemente. Poco dopo, le ultime parole del rivoltoso morente sono un consiglio all’ex poliziotto: “Verranno a cercarti. Non li combattere. Vai in America”. Una scelta di sottrazione, dunque, che lo stesso Martin avrebbe perseguito, se non fosse stato arrestato e costretto a evadere dalla caserma di Connemara, con la famiglia sterminata dagli inglesi, dal freddo e dalla fame; un desiderio di fuga alla ricerca di una normalità, quanto mai comprensibile in un uomo esasperato dalla guerra.
A questo punto, Hannah si trova letteralmente a un bivio: o seguire il carro di emigranti lungo la strada a destra o continuare per quella davanti a sé, dove Pope – ferito ma ancora in vita – lo precede. Una scena dal chiaro valore simbolico con cui il film di Daly si chiude, lasciando intendere le numerose battaglie che ancora si dovranno combattere in Irlanda perché venga raggiunta l’indipendenza da Londra.
1) Riccardo Michelucci, Storia del conflitto anglo-irlandese, Odoya
2) Ibidem
3) Non esistono stime sicure in questo senso, altre parlano addirittura di cinque milioni e 160 mila morti per fame e malattie
4) Riccardo Michelucci, op. cit
5) Ibidem
6) Albert Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani
7) Riccardo Michelucci, op. cit
8) Ibidem