Sabrina Campolongo |
Recensione di Un complicato atto d’amore, Miriam Toews
Più di una volta mi è capitato di pensare che la debolezza di fondo di molta narrativa contemporanea risieda nell’assenza di Dio, di un dio qualunque o di un’idea abbastanza forte da costituire un muro che faccia male davvero, quando vi si sbatte contro, che faccia perdere almeno qualche goccia di sangue. Di sangue invece, grazie a Dio, ce n’è molto nel romanzo di Miriam Toews, sangue che percepiamo come autentico, forse perché l’autrice è cresciuta come la sua protagonista e voce narrante Nomi, in una piccola comunità mennonita canadese, più probabilmente perché quella di Miriam Toews è una grande penna e la sua favola cupa, pervasa da una struggente disperazione, ma illuminata da pennellate di semplice grandezza, ci convince ed emoziona.
La storia è all’apparenza molto semplice e lineare. Naomi, ribattezzata Nomi in famiglia, si trova a vivere sola con il padre Ray, dopo che “la parte più bella della famiglia”, la madre Trudie e la sorella maggiore Tash, se ne sono andate, abbandonandoli a East Village, l’ameno villaggio perduto nei campi canadesi e abitato dalla “sottosetta più sfigata a cui si possa appartenere a sedici anni”. Fianco a fianco, Ray e Nomi sono impegnati da tre anni a “farsi forza e a riprendersi”, anche se, in realtà, le cose non stanno andando troppo bene. Impegnato in una svendita progressiva dei mobili di casa, Ray trascorre le serate su una sdraio gialla a fissare la statale su cui sfrecciano tir che conducono “animali drogati a farsi trucidare” al grigio macello poco fuori dal paese. Intanto Nomi attraversa le notti vagabondando con Travis – il ragazzo di cui si è innamorata per la sua aria ribelle e la passione per la musica proibita e il peccaminoso Lou Reed – si stordisce con alcol, droga, discorsi infiniti e sogni farneticanti in attesa dell’alba e consuma le giornate tra buoni propositi disattesi, reprimende del suo professore (personaggio marginale per buona parte della storia, ma che alla fine si rivelerà determinante), visite all’amica Lydia, ricoverata per problemi psichiatrici nella clinica del paese, e sforzi per tenere in piedi Ray e proteggerlo dal giudizio della Bocca, zio di Nomi e spietato tutore dell’ordine morale della comunità. Tutto questo in attesa di diplomarsi e affrontare il suo futuro “alla catena di montaggio della morte”.
Le due attività produttive che tengono in piedi East Village infatti sono un villaggio parallelo in cui i mennoniti recitano la parte di mennoniti così come se li immaginano gli americani, con tanto di carretti trainati da cavalli, cuffiette e mulini a vento, e l’”Allegra fattoria” “in cui i polli autoctoni rendono l’anima a Dio” appestando la cittadina con il loro odore di sangue e piume nelle notti in cui il vento soffia dal lato sbagliato: menzogna e morte dunque. Le regole della comunità non sono difficili da ricordare: “Il concetto è che dobbiamo agognare la morte col sorriso sulle labbra e nel frattempo, fino a quel benedetto giorno, la nostra vita deve essere un facsimile della morte o perlomeno dell’agonia […] al bando i mezzi di informazione, il ballo, il fumo, i climi temperati, il cinema, gli alcolici, il rock and roll, il sesso a scopo ricreativo, il nuoto, il trucco, i gioielli, il biliardo, le gite in città e l’andare a dormire dopo le nove… […] Conformati o sarai dannato”.
E la dannazione eterna, a East Village, deve cominciare il prima possibile, così che chi si rifiuta di conformarsi viene scomunicato e trattato come un fantasma che persino i suoi cari non possono più vedere, a cui nessuno può più rivolgere la parola. “In teoria, se tua moglie era stata scomunicata non potevi più sederti a tavola con lei, ma se mettevi due tavoli vicini, a due centimetri uno dall’altro, e poi ci mettevi sopra una tovaglia, era esattamente come essere allo stesso tavolo, ovvio, ma in realtà non eravate davvero allo stesso tavolo, perciò non infrangevi nessuna regola.”
Sia Tash che Trudie hanno ricevuto la temuta scomunica, poco prima di andarsene. Nomi sospetta che in realtà entrambe abbiano usato l’unica arma che la Chiesa metteva a loro disposizione per conquistare la libertà, mentre suo padre è rimasto prigioniero nel mezzo, dilaniato dal conflitto tra l’amore disperato per la moglie e l’attaccamento a quella religione che avrebbe potuto un giorno perdonarla e regalare loro la vita eterna. Lei stessa è rimasta a sua volta prigioniera dell’amore per suo padre e per Trudie e Tash, di cui continua malgrado tutto ad aspettare un improbabile ritorno e che in fondo assolve, dipingendo la loro natura inconciliabile con la vita a East Village, la loro disperazione.
“In lei [Trudie] c’era come un fremito sotterraneo, un che di feroce e imprevedibile, come una sega in una torta di compleanno. Recitava la parte del cuorcontento come Jack Nicholson recitava quella del pazzo in Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Per tutto il tempo, i fantasmi di Trudie e Tash popolano pensieri e ricordi che scorrono nella mente di Nomi in un flusso ininterrotto, quasi onirico, in cui passato e presente si gettano l’uno nell’altro senza stacchi, come tipicamente accade in quell’età in cui infanzia e maturità si susseguono come diapositive disordinate sullo schermo del presente.
Le voci di chi se ne è andato, quella enigmatica di Trudie e quella dissacrante di Tash, continuano a parlare nella testa di Nomi, impegnata a cercare un’etica alternativa a quella bigotta degli abitanti di East Village e soprattutto della Bocca, ma che non sia l’etica della fuga di Tash, che non comporti l’abbandono delle persone amate. “Ho sentito Tash che diceva: Nomi, fai pietà. Impara a controllarti. Vai via. Cosa ti ho insegnato? E io ho pensato: mi hai insegnato che certe persone se ne vanno e altre no e quelle che se ne vanno sono sempre più fighe di quelle che rimangono e io sono una di quelle che rimangono perché tu sei una di quelle che se ne sono andate e c’è un vecchio seduto in una casa vuota in giacca e cravatta che non ha più nessuno tranne me, grazie tante eh, grazie davvero.”
Il talento di Miriam Towes fa sì che il romanzo risulti decisamente meno cupo di quanto la storia narrata farebbe pensare. Le traversie di Nomi passano attraverso la sua voce, colorata da un humour cinico quanto efficace, che strappa un sorriso al lettore anche nei momenti più tristi, così come ci strappa un sorriso grato la coerenza di fondo del brillante impianto narrativo, in cui gli elementi e i simboli di straordinaria vividezza sono inseriti in modo apparentemente spontaneo e caotico, per svelarsi poi all’interno di un percorso preciso e consapevole, che ne amplia e precisa il senso. Un abito nero che vola nel vento e si deposita sul tetto di un granaio ci viene presentato una prima volta come un pittoresco ricordo di infanzia, per riapparire quando Nomi e Travis tornano a cercarlo anni dopo, rivelandosi infine nel suo valore metaforico quando Ray declama febbrilmente un versetto della bibbia che dice: “La nostra rettitudine è come un abito sporco; avvizziamo tutti come foglie e le nostre iniquità ci portano via come il vento”.
Analogamente, il passaporto di Trudie è introdotto una prima volta con leggerezza, dentro a un ricordo in cui le ragazze discutevano del colore degli occhi della madre, nocciola come lei affermava – come scritto sul passaporto – oppure verde fumo, come sostenevano Nomi e Tash. “E comunque, a cosa ti serve un passaporto?” aveva domandato la figlia maggiore, ottenendone una risposta vaga, che acquista il valore di un presagio quando lo stesso passaporto viene ritrovato da Nomi in un cassetto, dopo la scomparsa della madre. In questa occasione, il peso dell’oggetto è diverso perché mina la storia che Nomi si è costruita, l’idea della madre fuggita per inseguire il sogno di viaggiare, di andare in Terra Santa o a Parigi o persino a Montreal. Quel passaporto dalle pagine bianche intonse fa paura per le prospettive che apre, dal momento che la donna ha scelto di non portare con sé un documento così prezioso, ma è anche il simbolo della morte di quel “impudico, straziante senso di speranza” espresso dal volto in bianco e nero della fotografia.
Le speranze perdute è il titolo che Nomi dà al suo racconto, un’espressione usata per la prima volta da Tash parlando della nonna alcolizzata (“era piena di rimpianti per le sue speranze perdute”) e che sembra perseguitarla come una tara ereditaria. Il concetto di speranza è uno dei pilastri che reggono la storia, attraversando passato e presente, la speranza ipocrita e soffocante della religione verso una vita ultraterrena che compenserebbe l’agonia di quella terrena, contro quella vibrante e vitale che anima Nomi anche nei momenti più cupi, una speranza che, nello scontro con la vita, si declina come sogno.
La citazione preferita di Nomi ci viene rivelata a pag. 87, quando la ragazza la scrive con il gesso sul vialetto di casa, una frase di Gauguin: “Visto com’è la vita, non resta che sognare la vendetta”. Nelle ultime pagine del romanzo la frase ritorna, a dimostrazione che non era stata messa lì per il compiaciuto citazionismo che tanto piace a molti giovani scrittori nostrani: “Visto com’è la vita, una non la sogna la vendetta, sogna e basta”. Al quel punto noi sappiamo, a differenza di quanto accadeva a pag. 87, a quale vendetta ci si riferisca, ora sappiamo cosa – e chi – hanno spinto Trudie ad andarsene senza passaporto, e la risposta sta in alcune lettere che erano proprio nello stesso cassetto, la cui presenza ci era stata enunciata senza enfasi all’inizio del romanzo, ma il cui contenuto apprendiamo solo alla fine, quando lo stesso finisce per essere depotenziato dalla strenua lotta per la sopravvivenza a cui abbiamo assistito fino a quel momento.
Nemmeno noi sogniamo la vendetta, a questo punto, mentre Nomi balbetta un grazie al padre assente, che l’ha lasciata, mettendo in atto quel complicato atto d’amore di cui parla il titolo, affinché lei potesse andarsene senza abbandonarlo. La salvezza non passa attraverso la fuga – le pagine si chiudono con Nomi ancora a casa – quella per la libertà si preannuncia una lotta che non si potrà mai dire conclusa e destinata a lasciare sul campo morti e feriti, ma Nomi ha raggiunto la consapevolezza che può lottare, può andarsene e non solo. Può narrare la propria verità – “vivendo in questo paese ho imparato che quel che conta sono le storie” – usare le parole come testimonianza, quelle parole che per tutto il romanzo sono state sottolineate, puntualizzate, a volte condannate, spesso usate come tessere in una comunicazione molto speciale tra padre e figlia e che sono sempre state, in fondo, la sua arma migliore, assieme all’amore. “Aveva scritto anche un P.S., un altro versetto. E ricorda, quando te ne andrai, di scuotere la polvere dai tuoi piedi, a testimonianza contro di loro.”
Un complicato atto d’amore, Miriam Toews, Adelphi, 2005
(traduzione di Monica Pareschi)