Giuseppe Ciarallo
Il termine ‘sovversivo’, derivato dal verbo subvertere, che letteralmente significa capovolgere, mandare a gambe all’aria, ha sempre avuto un’accezione negativa essendo stato utilizzato dai poteri di ogni tempo e ogni luogo della terra per definire, anzi è più appropriato dire per accusare e condannare, coloro i quali hanno avuto l’ardire di macchiarsi dell’orrendo crimine riassumibile nella volontà di cambiamento radicale di un sistema politico, economico o sociale. Che poi, a pensarci bene, la sovversione è un delitto quando si cerca di rovesciare un sistema che funziona bene e che è equo e giusto per ogni strato sociale, per sostituirlo, magari, con una dittatura. Ma se un apparato statale è manifestamente inadatto e incapace di garantire al suo popolo uguaglianza, libertà e giustizia sociale, allora dovrebbe essere dovere morale di ogni cittadino degno di questo nome quello di partecipare attivamente alla vita collettiva, anche cercando di sovvertire un ordine che non funziona e non dà risposte adeguate e giuste alle problematiche che affliggono la comunità. Peccato che il potere, qualsiasi potere, sia da sempre del tutto impermeabile al dubbio riguardo alla propria incapacità. Senz’altro più semplice è accusare chi protesta, di disfattismo o con un più recente neologismo, di essere uno ‘sfascista’.
Di contro, chiunque nei secoli sia stato accusato del reato di sovversione, ha sempre dovuto giocare in difesa cercando di smarcarsi dalla pesante imputazione. Oggi poi, nel patetico momento storico che stiamo vivendo (ma forse mi sbaglio e tale vizio è vecchio quanto il mondo) il termine ‘sovversivo’ viene utilizzato in maniera un po’ troppo diffusa per essere ancora minimamente credibile: sovversivi sono i No Tav che difendono il loro territorio da una ‘grande opera’ del tutto inutile, sproporzionatamente costosa e dannosa per la comunità; sovversivi sono gli studenti che non accettano passivamente lo smantellamento del sistema scolastico e universitario pubblico in favore di quello privato, gestito principalmente dalla Chiesa cattolica; sovversivi sono gli operai, sempre più sfruttati e ormai privi dei diritti conquistati con le dure lotte del passato, che non ci stanno a finire tra i rifiuti dopo essere stati spremuti come limoni; sovversivi sono i precari resi schiavi da politiche economiche insensate, i disoccupati, gli internati nei Centri di identificazione ed espulsione, simpatica denominazione creata per non dover usare il più appropriato termine lager; sovversivo è chiunque oggi metta in discussione il pensiero unico, spesso imposto a colpi di manganello e profuso come un mantra da tutti i media (salvo sporadiche eccezioni) e dai loro sacerdoti, quei giornalisti embedded che da tempo hanno smesso di svolgere la loro funzione sociale di denuncia e che, come diceva Giorgio Gaber in una sua nota canzone “hanno ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fanno, e in cambio pretendono la libertà di scrivere e di fotografare […]”.
L’unico sovversivo che io ricordi, che rivendicava con orgoglio l’appellativo, si chiamava Up.
Up il sovversivo, appunto. Up è il protagonista di un fumetto creato nel 1969 (pubblicato per la prima volta nel gennaio del 1970) dalla mente feconda e dalla mano felice di Alfredo Chiappori, disegnatore e fumettista lombardo (nativo di Lecco), in seguito anche prolifico romanziere. Up ha una particolarità tutta sua: è disegnato a testa in giù rispetto agli altri personaggi della serie di strisce create nel tempo. E quell’essere rappresentato al contrario rispetto alla posizione classica assegnata ai suoi avversari, i poliziotti, i magistrati, i politici, gli agenti segreti che pullulano le stips di Chiappori, già colloca il soggetto Up in una situazione di antagonismo, anzi di sovversione, intesa come il “mandar sopra quello che era sotto”, di tentativo di rovesciamento del mondo alla sua dimensione.
Pare che la brillante idea sia venuta all’autore, il quale inizialmente aveva pensato di raccontare in fumetto le vicende di un poliziotto della Celere, quando nel dover scegliere l’antagonista del suo ‘tutore dell’ordine’ optò per un ‘ribelle’ (la cui voce verrà spesso utilizzata come la terza persona nella scrittura, come narratore onnisciente) il quale, come il ruolo impone, doveva violare la legge. E quale poteva essere la prima legge da infrangere, da parte di Up, se non la più importante, quella che regola gli equilibri stessi dell’universo? Ma certo, la legge di gravità. Up, da buon rivoluzionario vuole rovesciare il sistema, e finché non riuscirà nel suo utopistico e arduo intento, non potrà che vivere egli stesso nel mondo al rovescio, poggiando saldamente i suoi piedi su una superficie che non può che essere agli antipodi del mondo borghese e del sistema capitalistico che combatte.
Come fa argutamente notare Giambattista Zorzoli nella presentazione/prefazione alla prima edizione del libro, Up è forse il primo fumetto veramente politico e di sinistra del dopoguerra, e Chiappori è l’erede diretto di quell’autentico colosso della satira che fu Giuseppe Scalarini, artista perseguitato per tutto il ventennio fascista e che scontò il confino prima a Lampedusa e poi a Ustica in compagnia, tra gli altri, dei fratelli Rosselli, di Picelli, di Bordiga, di Parri, di Terracini. Tracciando un po’ la storia della satira italiana, Zorzoli ridimensiona in maniera impietosa, definendo volgari le sue sferzate (e in ciò non mi trova affatto d’accordo), Gabriele Galantara, fondatore de L’Asino, giornale satirico di tendenze socialiste e anticlericali che dal 1892 al 1925 mette alla berlina i governi che si susseguono, fino alla chiusura giunta al termine di una lunga serie di minacce, persecuzioni e di interventi delle squadracce fasciste in redazione.
Dopo la caduta del regime sembrano dunque esserci spazi unicamente per tentativi di satira da parte della destra (il Pci, evidentemente impegnato in un’azione politica senza respiro, non ritiene di dover riservare attenzione a un tipo di comunicazione con tutta probabilità ritenuta troppo frivola), con L’uomo qualunque di Guglielmo Giannini (il quale si avventurerà anche nell’agone politico non senza riscuotere, almeno inizialmente, anche un certo successo) e il Candido fondato da Giovanni Mosca e Giovannino Guareschi – in continuità con il Bertoldo, rivista degli anni Trenta cui i due avevano collaborato – caratterizzato principalmente da un viscerale e irriducibile anticomunismo. Sull’altra sponda politica qualche tentativo era stato fatto, all’estero, nei primi anni Sessanta, ma sia la Mafalda di Quino (bimba impertinente e polemica che pone domande al mondo adulto, principalmente ai genitori, senza mai ricevere risposte convincenti) che gli annoiati personaggi liberal di Jules Feiffer nemmeno lontanamente sfiorano la radicalità del personaggio di Chiappori, che nulla ha dell’ingenuità (simulata) di Mafalda né del masochismo dei protagonisti delle strisce di Feiffer.
Up per sua stessa definizione è un sovversivo, dunque, ma anche il suo creatore si trova a dover operare una piccola rivoluzione all’interno della stessa sinistra italiana dell’epoca, ancora per nulla propensa a considerare il fumetto come elemento culturale al pari di un saggio, di un romanzo o di un disco. Qualche anno dopo, però, anche grazie al precursore Up, il fumetto entrerà a pieno titolo e con tutta la propria carica nella propaganda politica con la diffusione, per immagini, di testi rivoluzionari e di controinformazione, o addirittura di classici del marxismo.
È del 1975 l’albo sulla strage di Piazza Fontana Un fascio di bombe, pubblicato su iniziativa del Psi (che non è ancora quello di Craxi, diventato segretario del partito soltanto l’anno successivo), sceneggiato da Alfredo Castelli e Mario Gomboli per le matite di un semisconosciuto Milo Manara; dal 1974 al 1976 le edizioni Ottaviano danno alle stampe Conoscete Carlo Marx (1974), Cristo in carne ed ossa (1975) e Lenin e la rivoluzione (1976), tre albi realizzati dal messicano Rius (Eduardo Del Rio), e sempre del 1976 è il Manifesto Comunista di Carlo Marx e Federico Engels splendidamente illustrato da Ro Marcenaro, già affermato pubblicitario, noto per essere uno dei pionieri del cartone animato in pubblicità.
Insomma, Alfredo Chiappori dà la stura a un movimento che non attendeva altro che una prima scintilla per esplodere in tutta la sua energia creativa e incendiare la prateria del mondo piccolo-borghese del tempo. In rapida sequenza sbocciano i cento fiori del fumetto politico e del disegno satirico nostrano: gli Identikit di Tullio Pericoli pubblicati su Linus, Bobo di Sergio Staino, il Laureato di Luca Novelli, nel 1976 Altan crea il suo Cipputi (operaio disincantato, al limite del cinismo che, come tutti i personaggi del disegnatore trevigiano si distinguono per la finezza e l’arguzia di battute fulminanti), e poi Renato Calligaro con Oreste e Nicola (il primo, vecchio operaio comunista ortodosso, l’altro, giovane studente extraparlamentare). E come non citare, seppur non essendo esplicitamente ‘politici’, Lo sconosciuto (Unknow, senza la enne finale) di Magnus, al secolo Roberto Raviola, la Valentina di Guido Crepax, il Corto Maltese di Hugo Pratt (questi ultimi due già in auge dalla seconda metà degli anni Sessanta)?
Ma torniamo al precursore Alfredo Chiappori.
Dopo l’esordio ‘esplosivo’ del 1970, con il primo albo, Up torna nel 1974 in un’opera ancora più caustica: Vado l’arresto e torno. La situazione, e l’aria che si respira nel Paese, è nel frattempo cambiata. In Italia è successo qualcosa che nessuno immaginava potesse accadere. Un qualcosa che ha creato un profondo spartiacque tra un ‘prima’ e un ‘dopo’. Il 12 dicembre 1969 a Milano è esplosa una bomba presso la filiale della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana: diciassette i morti (quattordici sul colpo), ottantotto i feriti, più una diciottesima vittima, l’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra del quarto piano della questura milanese, dove era illegalmente trattenuto per accertamenti a seguito della strage.
Alfredo Chiappori, da ottimo osservatore qual è, registra con minuzia i cambiamenti. Nel primo libro, a contrastare l’azione rivoluzionaria di Up c’è un folto schieramento di celerini, l’ufficiale dell’esercito, ci sono i fascisti, c’è il funzionario revisionista del Pci, c’è la pubblicità. In Vado l’arresto e torno, dove Up appare in tre sole vignette, la schiera dei suoi nemici si infoltisce e ai già citati poliziotti e militari vanno ad aggiungersi i ‘padroni’ (sempre rappresentati graficamente col cilindro in testa) in cima alla piramide della repressione che vede anche i politici (dietro una scrivania), i giudici, i servizi segreti (in trench e Borsalino), gli infiltrati, i media, tutti come un sol uomo ad armare il braccio già abbondantemente armato della polizia e dell’eversione nera.
Vado l’arresto e torno comincia proprio così, con un giudice che corre trafelato urlando: «Sono stati gli anarchici!… Quei pazzi sanguinari! Gli anarchici! Sono stati loro!!», e di fronte a lui un politico sorridente lo frena: «Si calmi, si calmi, le bombe non sono ancora scoppiate». E nella pagina successiva, che vede i rappresentanti del potere (economico, politico, giudiziario e repressivo): «… Scioperi, disordini nelle scuole e nelle fabbriche, violenze, violenze.» «La situazione potrebbe anche sfuggirci dalle mani.» «A mali estremi, estremi rimedi!» BOOOOM!
In due sole vignette, la spiegazione di tutto quello che era successo, verità che verranno svelate, anche se non del tutto, solo dopo decenni di indagini. Il j’accuse di Chiappori ricorda, anzi anticipa di dieci mesi quello di Pier Paolo Pasolini “[…] Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. […] Io so tutti questi nomi e so tutti questi fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi” (1).
Tornando a Vado l’arresto e torno, qualche pagina più avanti un uomo viene spinto nel vuoto e finisce per sfracellarsi al suolo dopo aver sfondato la base delle quattro strisce che compongono la pagina. «È la fine dell’anarchia!» è l’ironico commento dell’agente dei servizi segreti. Commovente, quella tavola.
Si ride e sorride poco in Vado l’arresto e torno, e quando ciò avviene è un riso amaro quello strappato al lettore, un riso con groppo alla gola, una risata che non riesce affatto a seppellire il re che seppur nudo, si mostra in tutta la sua arroganza e la sua forza. Scrive Oreste Del Buono nella lettera inviata all’autore, che fa da prefazione al volume: “[…] con questo tuo nuovo libro il fumetto italiano diventa davvero maggiorenne, in grado di raccontare con rabbia e nitore, senza neppure più trasposizioni dubbiosamente e prudentemente fantastiche, i fatti e misfatti di casa nostra, e non solo di raccontarli, di intervenirvi, in qualche modo. Un pamphlet, un romanzo, una cronaca per la Storia, un riso che è più convincente di un lamento o di un’invettiva. Lamenti e invettive fanno presto a sconfinare e corrompersi nella retorica, ma un riso addolorato come il tuo resiste, s’impone”. Appunto.
C’è un solo momento di speranza, nel libro. Proprio in chiusura, nell’ultimissima pagina. La prima vignetta mostra l’immagine del ‘padrone’ al cui cospetto sono il politico, il magistrato, il militare, l’agente dei servizi. La figura mostra dei primi segni d’incrinatura, che diventano visibili crepe nella seconda striscia. Nella terza ogni cosa si sbriciola e nella quarta vignetta il terreno è cosparso dei detriti e frantumi di un mondo sconfitto dalla Storia. In piedi, ben saldo nella sua posizione, è rimasto solo Up. Sempre e caparbiamente a testa in giù.
(1) P.P. Pasolini, Che cos’è questo golpe?, Corriere della sera, 14 novembre 1974