Marco Cosentino*
Vaccini e tamponi, farmacovigilanza e valore predittivo: efficacia, affidabilità e rischi
Il titolo del mio intervento – “Vaccini e tamponi. Chi rischia cosa?” – ha voluto mettere insieme due argomenti che mi stanno particolarmente a cuore e che sono legati da una narrativa opposta e speculare, ossia: sul versante dei vaccini Covid 19 la narrazione è che non si rischia assolutamente nulla, sul versante dei tamponi si dice che il rischio è che si tratti di strumenti che non funzionano – anche se l’anno scorso sono stati invece largamente impiegati per mantenere alti alcuni numeri e soprattutto un allarme sociale e sanitario che tuttora ci sta accompagnando.
Qualcuno ricordava molto opportunamente – ho ascoltato con grande interesse i diversi interventi che mi hanno preceduto – i giuramenti che si pronunciano in varie occasioni. Mi piace dire che anch’io, quando mi sono laureato in medicina, ho pronunciato il giuramento del medico sul testo di Ippocrate; poi da ufficiale medico ho pronunciato un giuramento di cui vado particolarmente orgoglioso e fiero, che è quello di fedeltà allo Stato, alle istituzioni e soprattutto alla Costituzione, alle leggi che ho giurato di proteggere; dopodiché sono diventato ricercatore e professore universitario, ed è l’unica figura che è esonerata dal pronunciare qualunque giuramento verso lo Stato e le leggi. Perché essenzialmente, la cosa importante per chi fa ricerca è restare fedele alla verità dei dati, una verità continuamente e potenzialmente mutevole, sulla base delle migliori evidenze. Quindi, ovviamente, non esiste la Scienza a cui credere, ma esiste un metodo scientifico da praticare quotidianamente alla ricerca della migliore evidenza possibile; quella ‘migliore evidenza’ sulla base della quale deve fondarsi la pratica dell’arte della medicina e che è prevalentemente rappresentata da numeri. Dunque la prima parte del mio discorso sarà essenzialmente molto fitta di numeri, di cui mi scuso preventivamente ma è necessario, per poter parlare con cognizione di causa della reale efficacia dei tamponi e della loro utilità per assicurare sicurezza negli ambienti pubblici, in maniera tale da prevenire realmente ed efficacemente la trasmissione del contagio del virus Sars-CoV-2.
Parlerò essenzialmente di tamponi antigienici. Abbiamo anche i cosiddetti tamponi molecolari – non entrerò troppo nel dettaglio tecnico, sarebbe lungo e probabilmente noioso – ma per una serie di motivi il tampone antigenico è nettamente migliore, a partire dal fatto che un tampone molecolare è molto laborioso e che i suoi risultati sono potenzialmente molto precisi: se mi passate la metafora, è più o meno come un microscopio estremamente potente. Talmente potente però da farci vedere dei dettagli e da rischiare di farci perdere il quadro complessivo. È come dire, sempre se mi passate la metafora, che ce ne andiamo in cucina a cercare il frullatore per prepararci un bel frullato di frutta: con il tampone molecolare troviamo le istruzioni d’uso del frullatore, ed è un’ottima cosa. Probabilmente questo ci suggerisce che da qualche parte in cucina c’è il frullatore, ma è un manuale di istruzioni, che di fatto non serve assolutamente a nulla per frullare. Con il tampone antigenico cominciamo a trovare dei pezzi di frullatore, se poi li troviamo tutti, non è detto che possano funzionare però sono già molto più vicini a essere un frullatore efficiente. Intendo dire che il tampone molecolare ci dà le tracce del materiale genetico del virus, mentre il tampone antigenico ci dice che ci sono dei pezzi interi, completi e concreti, che possono potenzialmente funzionare; quindi già questo ci induce a ritenere che i tamponi antigenici siano molto più vicini a identificare la presenza del virus reale. Non a caso l’Unione europea ha prodotto e continuamente aggiorna un elenco dei tamponi antigienici che gli Stati membri possono utilizzare a scopo di mutuo riconoscimento, per poter sottoporre i propri cittadini a test a scopo preventivo. Ora, per ragionare di questi test è necessario entrare un minimo in questioni tecniche.
Sentiamo sempre parlare di ‘sensibilità’ e di ‘specificità’, dove la sensibilità è essenzialmente la proporzione dei soggetti realmente malati e positivi al test rispetto all’intera popolazione dei malati, e la specificità è la probabilità di un risultato negativo in soggetti sicuramente sani. Questi sono i limiti minimi identificati dall’Unione europea per considerare validi questi test: sensibilità uguale o superiore al 90%, specificità superiore al 98%. Ma quello che in realtà conta da un punto di vista pratico, ai fini dell’utilizzo di questi strumenti, non è tanto la sensibilità e la specificità, che sono delle prestazioni assolute indipendenti dal contesto, ma – e questo sfugge anche alla maggior parte dei medici e degli operatori tecnici che utilizzano direttamente tali strumenti – il ‘valore predittivo positivo’ e il ‘valore predittivo negativo’: dove il primo è la capacità di identificare i soggetti ‘veri positivi’ sul totale dei positivi, e il secondo è la capacità di identificare i soggetti ‘veri negativi’ sul totale dei negativi. Questi due aspetti sono strettamente dipendenti dal contesto in cui ci si muove, ovvero dalla frequenza con la quale la condizione che noi ricerchiamo è presente nel contesto in cui ci muoviamo.
Vi mostro quello che succede al ‘valore predittivo positivo’ e al ‘valore predittivo negativo’ per un test antigenico rapido che rispetti le indicazioni dell’Unione europea, cioè sensibilità 90% e specificità 98%, ipotizzando una circolazione del virus dell’1% e del 3%. Sono necessari dei calcoli piuttosto complessi, ma trovate facilmente dei calcolatori in rete (per esempio https://www.medcalc.org/calc/diagnostic_test.php) che vi permettono di fare tutte le simulazioni che volete per prendere dimestichezza con questo concetto, semplice da un certo punto di vista ma non così intuitivo.
Cosa succede se nella popolazione generale c’è una diffusione del virus dell’1%? Sulla base di questi calcoli, ci possiamo aspettare un ‘valore predittivo negativo’, cioè la probabilità che un soggetto che risulti negativo sia realmente negativo, del 99,9%; vuol dire, sostanzialmente, che solo lo 0,1% dei soggetti negativi sono falsi negativi. Nell’ipotesi di una diffusione del virus al 3%, il ‘valore predittivo negativo’ è comunque intorno al 99,7% (99,69%), quindi rimane estremamente alto.
Dall’altra parte, quando la diffusione del virus è dell’1% il ‘valore predittivo positivo’ dei tamponi è del 31,25%: vuol dire che il 31% dei positivi è probabilmente positivo, mentre il 69% è probabilmente negativo. Quando il virus aumenta la circolazione al 3%, il ‘valore predittivo positivo’ è del 58,19%, e il 42% è probabilmente un falso positivo. Intuitivamente il ‘valore predittivo positivo’ cresce quanto più i veri positivi sono in giro per strada e possono essere trovati.
Cosa vuol dire questo? Che dovremo buttare via i tamponi? Assolutamente no. Vuol dire che questi test non servono se li vogliamo utilizzare per identificare i positivi nella popolazione. Servono nel contesto di una diagnosi, quando il medico si trova di fronte a una persona con dei sintomi e quindi probabilmente a rischio di avere il virus: in questo caso il ‘valore predittivo positivo’ è alto perché la probabilità che abbia di fronte un soggetto con il virus è alta, e il tampone può aiutare nella diagnosi. Ma servono molto poco, quasi nulla, nello screening di popolazione.
Se invece utilizziamo questi test per uno screening della popolazione alla ricerca dei negativi, troviamo sempre un ‘valore predittivo negativo’ estremamente alto: vuol dire che se un test è negativo ha una elevatissima probabilità, quasi assoluta – non c’è niente di assoluto in biologia e medicina, ma insomma qui siamo veramente vicini all’assoluto – che quel negativo sia vero. Quindi se usiamo un test antigenico per trovare un negativo e il test ci dà un negativo, direi che ce ne possiamo fidare piuttosto solidamente.
C’è una forte critica a questi test. Esistono vari studi, non tantissimi a dire il vero, che sostengono che le prestazioni di sensibilità e specificità da cui ricaviamo questo valore predittivo sono in realtà test di laboratorio: prestazioni, diciamo così, da banco di prova del motore. Quando poi il motore lo mettiamo nella macchina sulla strada, sensibilità e specificità calano. Possiamo allora rifare lo stesso calcolo con queste condizioni mutate, prendendo appositamente i valori peggiori che si ritrovano in letteratura negli studi sul campo, che mostrano come certi tamponi, non tutti, abbiano delle prestazioni subottimali: sensibilità al 70% e specificità all’85%. Ebbene, vediamo che questi parametri incidono sul ‘valore predittivo positivo’ che crolla al 4,5% in caso di diffusione del virus all’1%. Quindi se con questi test trovate un risultato positivo conviene rifare il test e confermarlo più volte, in maniera tale che se è sempre positivo a ogni ulteriore conferma aumenta la probabilità che non sia un falso positivo – ma partiamo da valori veramente bassi. Invece il ‘valore predittivo negativo’, ovvero la probabilità che il risultato sia vero quando il test è negativo, resta sempre alto: 99.64%. Significa che se il test è negativo ci possiamo fidare più che solidamente.
Sulla base di questi calcoli, ora vediamo due simulazioni da un punto di vista pratico, che mettono a confronto l’uso dei test/tamponi e la vaccinazione, rispetto alla possibilità di prevenire la circolazione nella popolazione generale di persone contagiate che possano contagiare. Utilizziamo un campione di 100.000 soggetti con una diffusione del virus dell’1% – è una simulazione iper semplificata e mi scuso, non vuole assolutamente essere sofisticata ma appena due conti sulla carta del salumiere in modo che siano facilmente comprensibili (Tabella 1, pag. 55).
Il dato vuol dire che in ogni momento, su 100.000 soggetti ci sono 1.000 positivi, in una popolazione generale, non vaccinata e non sottoposta a test. Prendiamo i dati dalla migliore letteratura disponibile – qui non ho riportato i riferimenti ma sono tutti disponibili, vi rimando per esempio al documento pubblico depositato in occasione dell’audizione di inizio dicembre in Commissione Affari Costituzionali del Senato e a tutta la migliore letteratura sulle più autorevoli riviste medico-scientifiche lì elencate (1) –: questi dati ci permettono di dire che se questa popolazione fosse vaccinata la riduzione del contagio ci porta ad avere, in media, un 12%-40% di rischio di contagiarsi rispetto alla non vaccinazione, e di questo 12%-40%, un 50% di probabilità di contagiare nei primi tre mesi dalla vaccinazione. Vuol dire che rispetto ai 1.000 soggetti positivi dei 100.000 che abbiamo, i contagiati si riducono a essere 120-400 (pari al 12%-40%) dei quali circa la metà (60-200 persone) ha la potenzialità di contagiare nei primi tre mesi, quando i vaccini funzionano al meglio. Bene quindi che la validità del Green pass sia stata accorciata – non ricordo esattamente a quanto, perché sinceramente faccio fatica a stare dietro a questi continui cambiamenti – ma non basta, perché rimangono comunque 60-200 persone su 100.000 che circolano. A sei mesi l’efficacia dei vaccini è calata al 50%, diciamo, la riduzione del contagio è scomparsa, di conseguenza abbiamo intorno a 500 soggetti vaccinati che circolano (410-570 persone); e infine a nove-dodici mesi non abbiamo più l’effetto dei vaccini, ovviamente, altrimenti non parleremmo delle terze, quarte o quinte dosi dopo quattro, cinque, sei mesi.
Su quella stessa popolazione – 100.000 soggetti con 1.000 positivi – cosa succede nei non vaccinati sottoposti a un tampone antigenico rapido con esito negativo? Nel caso di un solo tampone antigenico rapido con esito negativo, con sensibilità 90% e specificità 98%, per quanto visto sopra il ‘valore predittivo negativo’ è in media è del 99,9%, ovvero un soggetto con tampone negativo avrà 99,9% di probabilità di essere un vero negativo; dunque su 99.000 soggetti negativi solo lo 0,1% (99 soggetti) potrebbe essere un falso negativo – in accordo con il fatto che la sensibilità è del 90% e quindi circa il 10% dei soggetti positivi potrebbe, al primo tampone, non essere identificato. Perché sottolineo il primo tampone? Perché il tampone deve essere fatto ripetutamente. A oggi la sua validità è di 48 ore. Se dopo 48 ore tutte queste persone rifanno il tampone, delle 99 che sono sfuggite al primo solo lo 0,1% sfuggirà anche al secondo. Ma lo 0,1% di 99 è meno di 1, quindi vuol dire che con due tamponi di seguito non c’è più alcuna persona identificata come positiva che possa essere in circolazione: tutti hanno avuto la possibilità di prendere atto della loro situazione e quindi isolarsi.
99 persone sono meno della forbice 60-200 dei vaccinati che ha la potenzialità di contagiare nei primi tre mesi, e nel giro di pochi giorni – quando viene rifatto il tampone – questo 99 diventa zero. Ovviamente anche i 60-200 soggetti vaccinati da tre mesi, così come i 500 circa da sei mesi, diventano rapidamente zero se si utilizzano i tamponi, e questa è esattamente la logica che andiamo dicendo da molto tempo, ovvero: i vaccini non prevengono il contagio, e i tamponi permettono di identificare efficacemente e rapidamente le persone potenzialmente contagiose, di consentire loro di isolarsi ed eventualmente di curarsi se sono sintomatiche; sono la migliore garanzia nei confronti di questioni di sanità pubblica.
La stessa cosa succede anche quando la sensibilità e la specificità dei tamponi sono ai valori minimi riportati in letteratura, quindi prendendo i dati di quegli studi che criticano i tamponi perché funzionano male (Tabella 2, pag. 57).
In questo caso il primo tampone può lasciare in giro una quantità notevole di persone potenzialmente positive: con una sensibilità 70% e specificità 85% ne sono stimate 297. Siamo al di sopra della forbice dei vaccinati (60-200 soggetti nei primi tre mesi dalla vaccinazione), ma il dato al secondo tampone, dopo 48 ore, già scende a 90, e dopo altre 48 ore scende a 27, e così via. Significa che nel giro di una settimana, anche in questo caso, con la strategia dei tamponi si azzera sostanzialmente il numero di persone potenzialmente positive e potenzialmente contagiose. Con solo i vaccini invece, compresa la terza dose, resta in giro una quantità estremamente rilevante di persone che possono contagiarsi e possono contagiare. Che è esattamente il motivo per cui stiamo dicendo che il Green pass, la certificazione verde, il lasciapassare sanitario, probabilmente è paradossalmente non soltanto uno strumento inutile per prevenire la diffusione del contagio, ma anche uno strumento di diffusione del contagio. E sarebbe bene che i decisori politici lo capissero in maniera tale da correggere il prima possibile il loro errore.
Secondo aspetto apparentemente non direttamente correlato, ma tutto si tiene purtroppo in questa narrazione complessiva: ci dicono che i vaccini Covid 19 sono assolutamente sicuri e che non è stato rilevato alcun particolare effetto avverso di estrema gravità. Qui abbiamo il problema sostanziale – che voglio sempre sottolineare ma non mi ci soffermerò più di tanto – della sicurezza di questi vaccini, dopo un brevissimo periodo di studio in trial randomizzati: chi conosce la metodologia della sperimentazione clinica sa perfettamente che le sperimentazioni cliniche pre autorizzative non sono sicuramente quelle adeguate a verificare la sicurezza, ma solo ed esclusivamente l’efficacia. Dopodiché sono arrivati questi prodotti, sono stati autorizzati in emergenza, sono stati utilizzati in maniera condizionata, e sorprendentemente la valutazione della loro sicurezza è stata totalmente affidata ai sistemi di farmacovigilanza passiva. ‘Farmacovigilanza passiva’ vuol dire che, come afferma la legge italiana, il medico e qualunque sanitario che osservi nel corso della sua attività professionale una sospetta reazione avversa, è invitato a segnalarla. Questo vuol dire ‘passivo’: chi fa la farmacovigilanza aspetta passivamente che arrivino delle segnalazioni.
Ebbene, si sa perfettamente da decenni che questo tipo di sistema è assolutamente inefficace. Si stima che ci sia un tasso di sotto-segnalazioni, ossia le persone non segnalano, per tantissimi motivi – non c’è tempo, c’è un sovraccarico di lavoro, non ci si sta dentro, si teme segnalando di avere delle conseguenze medico-legali. Questo tasso di sotto-segnalazione va dal 94 al 95% a seconda degli studi, anche per le reazioni gravi, anzi paradossalmente talvolta è addirittura uguale o più alto. Da qui l’affermazione che facciamo sempre, o almeno fa chi in qualche modo mastica di vigilanza sui prodotti medicinali, che ci sia un fattore almeno dieci o cento secondo cui dovrebbe essere corretto il numero di segnalazioni che arrivano in un sistema passivo (perché la farmaco vigilanza passiva segnala tra l’1% e il 10% degli eventi che accadono realmente: ciò significa che il numero dovrebbe essere moltiplicato per 10 o per 100, n.d.r.). Ma quello che tengo a sottolineare è che la sotto-segnalazione non è l’unico problema che abbiamo: se il punto fosse solo questo, potremmo tranquillizzare quei medici che vengono intimiditi, in quegli ambienti dove viene detto che questi vaccini sono sicuri e di conseguenza non va segnalato nulla – vi assicuro che succede, conosco casi diretti di colleghi. È ovviamente un problema, quanto meno è sbagliato, è un’eresia rispetto al funzionamento dei sistemi di segnalazione spontanea, ma anche se riuscissimo a ottenere tutte le segnalazioni, se riuscissimo a non perdercene una sola, per questi vaccini abbiamo un secondo ordine di problemi molto più importante e molto più difficile da inquadrare, che personalmente sto cercando di portare all’attenzione della discussione pubblica perché credo sia su questo che occorre soprattutto lavorare: è il sistema utilizzato per verificare le correlazioni esistenti tra le segnalazioni di sospette reazioni avverse e l’eventuale somministrazione precedente di un vaccino.
Questo sistema si basa su un ben rigido e preciso algoritmo, una procedura che qui è schematicamente indicata (Grafico pag. 61): questo algoritmo è quello dell’Organizzazione mondiale della Sanità, dedicato ai Adverse Events Following Immunization (AEFI), “Eventi avversi conseguenti alla immunizzazione”. Proprio perché si parla di immunizzazione l’OMS ha ritenuto di introdurre dei criteri che sono abbastanza differenti da quelli che si utilizzano per la generalità dei medicinali, criteri che sono fatti in maniera tale da cercare tutte le possibilità per escludere i vaccini, e alcuni di essi sono veramente vincolanti. Per esempio, il primo passo è: “C’è evidenza per altre cause”? Se abbiamo un arresto cardiaco poche ore dopo la somministrazione di un vaccino in un soggetto cardiopatico, ebbene, la cardiopatia preesistente è “un’altra causa”. Attenzione: questo criterio è giustificabile se pensiamo al fatto che qui si parla di immunizzazione con vaccini convenzionali, ma quelli contro il Covid di cui ragioniamo non sono vaccini convenzionali, sono prodotti farmaceutici con un principio attivo che non ci è ancora nemmeno del tutto chiaro come funziona. Eppure, già in base a questo primo passaggio, nella maggior parte dei casi basta che ci siano comorbidità correlabili all’evento avverso, anche estremo, che siamo già fuori dall’algoritmo. Secondo passaggio: “C’è un’associazione causale nota col vaccino?” Chiaramente qui “l’associazione causale nota” deve essere nota a priori. Io questo lo chiamo, per chi ha presente il riferimento letterario, “comma 22”: “chi è pazzo può chiedere di essere esonerato dalle missioni di guerra, ma chi chiede di essere esonerato dalle missioni di guerra non è pazzo”. C’è un’associazione causale nota con i vaccini?, viene domandato, ma perché ci sia un’associazione causale nota bisogna cominciare a riconoscerla; e come si fa a riconoscerla se qui si chiede se c’è, e non essendo ancora stata riconosciuta non c’è? Questo è un bel problema.
Non mi voglio soffermare più di tanto – ognuno di questi passaggi dell’algoritmo potrebbe essere esaminato – ma proseguendo si va a un’ulteriore questione peculiare dell’immunizzazione. Con ‘immunizzazione’ si dà per scontato che gli effetti debbano essere di breve durata: esponiamo il nostro sistema immunitario alla stimolazione da parte di un agente estraneo e nel giro di qualche giorno, al massimo di qualche settimana, abbiamo una reazione che è prevalentemente di tipo infiammatorio e successivamente questa scompare; quindi tipicamente con i vaccini c’è una finestra temporale. Ma in questo caso, abbiamo scoperto che nei contratti di fornitura di questi prodotti – i vaccini Covid – c’è scritto che i produttori sono esentati da responsabilità per le possibili complicanze di medio-lungo termine, e le complicanze di medio-lungo termine sono tagliate fuori da questo algoritmo.
Tutto ciò per dire che questo flusso di informazioni è fatto in maniera tale da finire quasi sempre, o comunque con buona probabilità, nell’esclusione. Non è dolosa la questione, semplicemente questo sistema non va bene per questi prodotti; va benissimo probabilmente per i vaccini convenzionali, ma non per questi prodotti. E ciò vuol dire che se anche le segnalazioni degli eventi avversi vengono fatte, la massima parte finisce esclusa dall’algoritmo e il risultato è sempre Inconsistent causal association: quindi non riusciremo mai ad avere dei profili veramente completi di reazioni avverse. E se questa evidenza non viene prodotta, personalmente capisco i giudici che non possono fare altro che valutare sulla base dell’evidenza.
Una delle prime sentenze del Consiglio di Stato (la n. 7045/2021 del 20 ottobre 2021) che ha rigettato il ricorso di alcuni sanitari sospesi perché non ritenevano opportuno né necessario ricorrere al vaccino – a mio modo di vedere con ragione, per una serie di motivi sia di efficacia che di sicurezza – contiene un enorme malinteso legato a un documento Aifa (l’Agenzia Italiana del Farmaco) che, se veramente dice questo, prende uno strafalcione enorme per quanto riguarda la sicurezza. Il Consiglio di Stato scrive che “l’Aifa, nello studio pubblicato sul proprio sito, ha chiarito che «gli studi che hanno portato alla messa a punto dei vaccini Covid-19 non hanno saltato nessuna della fasi di verifica dell’efficacia e della sicurezza previste per lo sviluppo di un medicinale, anzi, questi studi hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di volontari, circa dieci volte superiore a quello di studi analoghi per lo sviluppo di altri vaccini»“. Quindi, secondo l’Aifa, la sicurezza sarebbe stata ovviata perché gli studi autorizzativi hanno visto la partecipazione di un numero assai elevato di volontari.
Ebbene, chi ha scritto una cosa del genere semplicemente non sa che il numero di soggetti che partecipano a uno studio di tipo autorizzativo è calcolato sulla base dell’efficacia: dunque, dal momento che ci si aspettava un’efficacia bassa per una condizione che non circola più di tanto nella popolazione generale, è stato necessario un numero elevato di volontari; che tuttavia serve assolutamente a nulla per la sicurezza, perché 20.000 persone non consentono di trovare alcunché. Ricordo che oggi stiamo parlando di rischi legati, per esempio, alle infiammazioni cardiache, che sono 10-20 casi su 100.000, quindi su 20.000 persone non c’è la probabilità di vederne nemmeno uno; e infatti li stiamo vedendo soltanto se facciamo gli studi di farmacovigilanza attiva. Purtroppo se l’evidenza non c’è, non possiamo biasimare il giudice che prende atto di quello che dice l’Aifa, ente istituzionalmente preposto, tra l’altro, alla stessa farmacovigilanza: “di tutte le segnalazioni gravi” si legge sempre nella sentenza del Consiglio di Stato, “solo il 43% di quelle esaminate finora è risultata correlabile alla vaccinazione”. Per forza, se per prima cosa le segnalazioni non arrivano e, secondo aspetto, quando arrivano vengono valutate con quel tipo di algoritmo che sostanzialmente le taglia fuori quasi tutte. Anche affermare: “Si tratta di dati comparabili a quelli emersi in esito all’attività di farmacovigilanza condotta sugli altri vaccini esistenti”… ma gli altri vaccini esistenti sono vaccini vecchi, convenzionali, di uso consolidato da anni: non si può fare un paragone di questo genere, ma occorre spiegare chiaramente perché non si può fare.
Quindi concludo esortando soprattutto i colleghi a fare segnalazioni, e credo sia anche necessario pensare di entrare nell’ordine di idee di pubblicare nella letteratura scientifica i casi clinici più rilevanti e più difficili da inquadrare e da trattare, perché nel momento in cui entrano nella letteratura scientifica ovviano, almeno in parte, alla domanda: è nota una correlazione tra l’evento e la somministrazione di un determinato prodotto? Se nella letteratura scientifica c’è qualcosa, è possibile costruire un discorso, anche svincolandosi da questo “comma 22” dell’algoritmo a cui sono sottoposte le segnalazioni. In altri termini è necessario produrre informazione scientifica di alta qualità, è assolutamente essenziale, in maniera tale da introdurre nella narrazione pubblica il discorso che questi prodotti devono essere ancora ampiamente valutati per quanto riguarda la tollerabilità e la sicurezza, mentre per l’efficacia già abbiamo in qualche modo presenti i loro limiti. Tra questi rientra il fatto – direi che ormai è pacifico – che non bloccano quasi in alcun modo la diffusione del virus, quindi sicuramente non sono idonei a bloccare il contagio, la possibilità di contagiarsi e contagiare altri. E per questo invece, come abbiamo visto, l’uso appropriato dei test antigienici rapidi è sicuramente la cosa migliore che in questo momento possiamo fare.
Altrettanto la cosa migliore che si può fare è non mettere in contrapposizione ciò che non è in contrapposizione, come il tampone con la vaccinazione, semplicemente perché la vaccinazione fa il suo lavoro dal punto di vista della protezione individuale, in particolare nei soggetti a rischio e vulnerabili. Poi ci sono i soggetti che a rischio non sono, per i quali personalmente continuo a insistere che non ha assolutamente alcun senso imporre una vaccinazione per categorie lavorative: dal punto di vista medico può essere sensato prendere in considerazione una misura preventiva come il vaccino per un ultra 60enne o 70enne con fattore di rischio, ma la questione è completamente differente per il giovane, che sia medico, appartenente alle forze dell’ordine, insegnante… insomma un 30/40enne senza fattori di rischio. Non si può costringere nessuno, ma tanto meno si può costringere chi non si può aspettare alcun beneficio.
Chiudo aggiungendo una considerazione.
Dal mio punto di vista, in tutta questa vicenda dei vaccini a volte è più interessante vedere quello che non c’è, paradossalmente, rispetto a quello che c’è. Mi riferisco agli studi autorizzativi. Uno degli aspetti più enormi di cui continua a meravigliarmi l’assenza – ma c’è sicuramente, semplicemente non viene richiesta – è che tutti gli studi autorizzativi sui vaccini riguardano solo ed esclusivamente degli eventi clinici, ossia, sostanzialmente, il Covid clinico sul versante dell’efficacia e, sul versante della sicurezza, i disturbi che i volontari hanno denunciato a voce, raccontato al medico ricercatore che li seguiva. Cosa manca? Manca quello che c’è in tutti gli studi sperimentali con farmaci, nessuno escluso: sinceramente non ricordo alcuno studio che, come questi, non avesse i controlli clinici, e con ciò intendo una visita medica completa, un esame del sangue e delle urine prima, dopo e successivamente, periodicamente, dopo i trattamenti. Perché quando vediamo degli effetti avversi è la punta dell’iceberg di un processo biologico che ha avuto dei meccanismi inizialmente interni, non identificabili, e questo vuol dire, per esempio, che l’infiammazione cardiaca, le neuropatie, sono evidentemente la punta di un iceberg che, sotto, ha delle alterazioni di tipo biologico identificabili con dei parametri laboratoristici.
Diverse persone si rivolgono a me per raccontare le loro vicende post vaccinali e alcune di queste hanno, in maniera tutto sommato lungimirante, fatto degli esami di controllo pre e post vaccino, e nel post vaccino, sistematicamente, la maggior parte di questi soggetti, pur non avendo fortunatamente degli effetti clinici rilevanti, trova delle alterazioni, per esempio, dei fattori della coagulazione in senso pro-trombotico. E questo vuol dire probabilmente che c’è un rischio pro-trombotico di carattere generalizzato, che si manifesta poi con degli eventi clinici nei soggetti particolarmente a rischio. Tutto questo oggi non lo sappiamo, non lo possiamo sapere dal punto di vista dei numeri perché ci mancano, ma si potrebbe facilmente chiarire se uno Stato, un governo, un sistema sanitario responsabile volesse fare uno studio di questo genere: potrebbe prendere anche soltanto un singolo centro vaccinale e agganciare un programma di monitoraggio intensivo, nel quale garantisce alle persone che si presentano una visita medica completa con esami di laboratorio pre vaccinazione e delle periodiche visite complete con esami di laboratorio post vaccinazione. Si chiarirebbe facilmente: in quante e quali persone, con quali caratteristiche, si può manifestare un rischio trombotico? Con quale razionale potremmo intervenire per ridurre questo rischio? Insomma, la conoscenza che produrremmo in questo modo è inestimabile e sarebbe nell’interesse della sicurezza d’uso di questi prodotti, e quindi anche dell’aumento della fiducia da parte delle persone.
* Intervento al Convegno “Pandemia: invito al confronto” del 3 gennaio 2022, organizzato dal Coordinamento 15 ottobre. Marco Cosentino è medico chirurgo, Dottore di Ricerca in Farmacologia e Tossicologia, Professore ordinario di Farmacologia nella Scuola di Medicina dell’Università degli Studi di Insubria