Intervista di Erika Bussetti
La rete IOS ha promosso uno sciopero nazionale degli operatori sociali per il 13 novembre, al grido di: “Vogliamo il 100% di Salute, Salario e Dignità. Basta appalti nei servizi pubblici essenziali. Internalizzazione subito”.
Matteo Maserati, delegato Sial Cobas e rete IOS (Intersindacale Operatori Sociali), è educatore presso un’azienda di servizi di assistenza socio-sanitaria a Milano: lavora con persone disabili. Siamo nell’ambito del welfare pubblico, ma gestito attraverso aziende consortili, ovvero miste pubblico/privato, che a loro volta possono appaltare a cooperative private. La prima ondata di Covid, a primavera, ha stravolto tutto: sospensione del servizio, ripresa a distanza – in modalità video… – problematiche varie; poi si è tornati a una ‘nuova normalità’. Dopodiché ci risiamo con la seconda ondata. Su questo stravolgimento pesa non poco la dinamica di esternalizzazione, tramite la quale un servizio pubblico passa attraverso realtà private. È la logica ormai applicata da anni nei Comuni: taglio i costi, diminuisco il personale, riduco il welfare, entra il Terzo Settore privato (e dunque anche la logica del profitto). Si chiama neoliberismo. E quando su questa realtà si aggiunge qualcosa come il Covid, le criticità esplodono. È anche per questo che la rete IOS ha promosso uno sciopero nazionale degli operatori sociali per il 13 novembre, al grido di: “Vogliamo il 100% di Salute, Salario e Dignità. Basta appalti nei servizi pubblici essenziali. Internalizzazione subito”.
Prima di ragionare sull’esternalizzazione, partiamo dal servizio: come lavoravi nella normalità pre-Covid?
C’è una struttura diurna e gli ospiti vengono in struttura. Ogni operatore segue tre o quattro persone disabili, quindi si lavora in piccoli gruppi che si alternano facendo cose diverse.
Cosa è accaduto con il Covid, a marzo?
Appena è iniziato il lockdown non si capiva chi doveva decidere e che cosa: l’ATS non decideva, il Comune non decideva, nessuno decideva. Il servizio di fatto è stato sospeso perché le famiglie hanno smesso di mandare i figli al Centro e i lavoratori hanno smesso di andare a lavorare, entrambi per ragioni di sicurezza propria e reciproca. A questo punto, nella terza settimana di marzo, se ricordo bene, l’ente ha dovuto comunicare che non c’erano lavoratori e non c’erano utenti. Solo allora è arrivata la decisione delle ATS locali e dei Comuni di dichiarare chiuso il servizio. Dopo poco, qualche giorno, si è attivato il lavoro a distanza.
Cosa significa fare didattica a distanza con persone disabili? È possibile farlo?
Innanzitutto le persone con disabilità più grave sono rimaste tagliate fuori. Perché abbiamo cercato di rimodulare il nostro intervento, con chi poteva utilizzare strumenti telematici – che ovviamente erano a carico nostro, degli educatori, dei lavoratori: il proprio computer, a casa propria, utilizzando la propria rete… – ma per le situazioni più problematiche si è reso impossibile, e quindi in questi casi il lockdown ha significato una sospensione totale dell’assistenza. Nei servizi che si occupano di disabilità grave o di fasce di età molto basse, come gli asili nido, la didattica a distanza è veramente paradossale, perché si riduce a contatti telefonici, video chiamate o attività da remoto, con magari anche la presenza dei familiari. Si va dalla narrazione di storie alla costruzione di semplici lavoretti con materiali casalinghi, per cui in realtà si tratta di attività più di ‘intrattenimento’ e di mantenimento di un contatto, di una relazione, piuttosto che di vera didattica o di un reale percorso che va a lavorare sugli obiettivi specifici della persona. Sono anche stati ridotti i tempi: per il servizio ai disabili, due terzi delle ore di lavoro sono state mantenute con questa didattica a distanza e per un terzo ci hanno messo in cassa integrazione; per gli asili nido hanno fatto metà e metà.
Dopo il lockdown avete ripreso una didattica in presenza? Come?
Nel mio caso, l’assistenza ai disabili presso il Centro ha riaperto a metà giugno, e anche in questa fase di ‘seconda ondata’ i servizi sono aperti. Non stiamo funzionando a pieno regime però, nel senso che non tutti i ragazzi vengono sempre: c’è chi frequenta tre giorni, chi quattro, chi cinque… e quando non vengono fanno didattica a distanza. Ma soprattutto è cambiata la tipologia del lavoro: adesso, per tutta la settimana, si lavora sempre con lo stesso piccolo gruppo di persone in un solo ambiente della struttura. Per farti capire, io sto tutto il giorno in una stanza con tre ragazzi, diversi tra loro, con bisogni differenti, con capacità differenti. Prima le attività erano omogenee, ossia svolte con gruppi omogenei che avevano obiettivi comuni. Oggi invece, di fatto, devo immaginarmi durante la giornata tre lavori diversi, per tre persone diverse, con tre finalità differenti. Alcune attività, come quelle di intrattenimento, si possono anche fare in gruppo e magari in esterno sul territorio, ma le attività più specifiche, legate agli obiettivi della singola persona, sono individualizzate, per cui in un rapporto uno a tre diventa molto difficile svolgerle: non è possibile seguire tre attività diverse, per tre persone diverse, nello stesso momento.
Immagino che anche i protocolli di sicurezza influenzino la didattica…
Parecchio. Quando la struttura ha riaperto c’è stata, inevitabilmente, una rivisitazione dei protocolli di sicurezza, con un corso di formazione sull’applicazione delle nuove norme e l’implementazione dei dispositivi di protezione individuali. C’è stata molto attenzione su questo aspetto, il problema è che è quasi diventata l’unica attenzione, a scapito del resto. Nel senso: tutta una serie di interventi è concepita per il benessere generale della persona e si incentra su un discorso di equilibrio psicofisico e sociale; oggi invece l’attenzione è sulla tutela fisica e sanitaria, mettendo in secondo piano l’interazione sociale e spesso anche il benessere intellettivo. Nel reinventarsi le attività noi educatori cerchiamo di avere questo sguardo e ci chiediamo cosa possiamo fare per curare anche gli altri aspetti, ma significa avere davanti un lavoro tutto da immaginare, e avrebbe bisogno di molto più tempo, risorse, analisi…
Quindi c’è stato un duplice peggioramento della situazione: per le persone disabili che usufruiscono del servizio e per voi lavoratori?
Esattamente. In questo momento ci sono esigenze particolari e dunque è un dato di fatto che servirebbero più risorse, e invece ce ne stanno mettendo meno. I Comuni hanno privatizzato, esternalizzato, tagliato questi servizi di welfare, però poi pretendono che l’erogazione della prestazione sia di qualità, perché si parla di cura alla persona, perché siamo nell’ambito della disabilità e della diversità. C’è una certa retorica politica su questi temi…
Veniamo all’aspetto esternalizzazione, privatizzazione del welfare, condizioni di lavoro. Per prima cosa, come funziona l’esternalizzazione?
È un processo che dura da trent’anni e ha avuto fasi diverse. Gli asili nido prima erano comunali e oggi sono in mano alle aziende consortili, i centri disabili erano a gestione ATS e oggi si reggono su fondi regionali e fondi comunali, metà e metà. Fino a qualche anno fa c’era ancora una parte del nostro Centro a diretta gestione pubblica, con dipendenti ATS, e un’altra in appalto alla cooperativa, ma quando è subentrata, l’azienda consortile ha preso in mano la parte pubblica e ha assunto personale tramite concorso, gestendola direttamente. Il punto determinante è che in futuro nuove scelte politiche potrebbero decidere che va tutto in appalto alla cooperativa. Le aziende consortili sono un’esperienza abbastanza recente in Italia, per cui tante ne nascono, ma tante ne muoiono: se i Comuni decidono che gli conviene di più delegare totalmente alle cooperative, non fanno altro che chiudere l’azienda consortile e dare tutto in appalto. Un altro aspetto è che un tempo la cooperativa era solo prestatore di manodopera, ora invece, a fronte anche di tutta quella che è stata la riforma del Terzo Settore, questi soggetti privati entrano anche un po’ nella progettazione dei servizi. Per esempio, la cooperativa che lavora al centro disabili dove sono occupato io ha un’esperienza di quindici anni, per cui nel tempo si è conquistata anche la competenza per poter partecipare alla progettazione del servizio stesso.
Di che dimensioni stiamo parlando? Quanti dipendenti ha l’azienda consortile per cui lavori e quanti la cooperativa?
L’azienda ha pochi anni di vita e conta 100/120 dipendenti. La cooperativa a cui appalta è grossa, storica, trentennale, e ha un 300/400 dipendenti. L’azienda si occupa di servizi alla persona e comprende centri per disabili, asili nido, servizi di tutela minorile, per cui ha diversi interlocutori e diverse committenze: i Comuni, le ATS per la parte sanitaria, il Tribunale dei Minori come interlocutore, e ha tutto il mondo del Terzo Settore come interfaccia per la co-progettazione.
Quali sono le conseguenze dell’esternalizzazione sulle condizioni di lavoro?
Nel pubblico c’è il contratto degli enti pubblici, che a oggi è il migliore esistente perché ha una serie di tutele, una certa paga oraria e alcuni diritti contrattuali. Poi, per numeri, c’è il contratto cooperative sociali che comprende 350 mila dipendenti. Segue Uneba con circa 70.000. Questi sono i più diffusi, ma poi ci sono altri cinque o sei contratti di settore, tutti più o meno equiparabili, con delle differenze rispetto alla paga oraria e agli istituti contrattuali, ma tutti sotto al livello del contratto enti pubblici. Si tratta quindi di contratti del privato applicati però a lavoratori che si occupano di servizi pubblici. Stiamo parlando di una paga oraria sotto i 10 euro lordi, per cui si va dai 6 ai 9 euro netti all’ora. Il livello di paga base è sui 1.200 euro per 38 ore settimanali: a pari ruolo e mansione i comunali ricevono circa 1.500 euro per 36 ore. E questa è una delle ragioni forti dello sciopero del 13 novembre.
Ci sono altre differenze, rispetto al contratto del pubblico, oltre allo stipendio? Aspetti che influiscono sulla qualità del servizio?
Sì, ed è qualcosa che è esploso durante la situazione pandemica ma è un problema strutturale, che riguarda tutti i servizi trasversalmente, che si parli di disabilità, di scuola, di minori. Noi lavoriamo 38 ore a settimana di cui un’ora e mezza è dedicata alla preparazione. Quello che è accaduto con il Covid è che se salta tutta l’organizzazione del lavoro e saltano i programmi, ti devi re-inventare tutto, dalle attività psicomotorie a quelle educative, didattiche ecc., e questo tempo in più dove lo tiri fuori? Nella mia esperienza diretta, finisce che durante la giornata lavorativa ci si ritaglia dei minuti per pensare che cosa fare il giorno dopo, però è comunque un ritaglio. Il fatto che queste ore non siano riconosciute, né dai contratti nazionali né dall’organizzazione del lavoro, non solo penalizza la qualità del servizio erogato, ma crea anche situazioni di stress per i lavoratori, e di non riconoscimento della dignità professionale. Quando i servizi erano pubblici c’erano più ore di formazione, più ore di supervisione e più ore di progettazione. Se volessimo fare un paragone con la scuola, per gli insegnanti una parte delle ore retribuite è per lavoro indiretto, mentre le nostre 38 ore sono in pratica tutte dirette. Nel servizio ai disabili c’è giusto un’ora e mezza retribuita come lavoro indiretto, ma in altri servizi la cosa è addirittura lasciata alla buona volontà dei singoli operatori, che quindi lo fanno gratis. Quindi con l’esternalizzazione il servizio diventa molto più assistenziale e molto meno educativo, e se non vuoi che abbia questa tendenza, bontà del singolo operatore metterci delle ore di lavoro gratuite.
E per quanto riguarda la cassa integrazione? Se con il Covid i servizi sono stati sospesi, sarà stata attivata…
Sì, è stata attivata la CIG per i lavoratori dell’azienda consortile e il FIS per quelli della cooperativa, e significa uno stipendio al 50%, per cui il servizio, in generale, si è rimodulato così: metà ore di lavoro a distanza e metà ore coperte dall’ammortizzatore sociale, al 50%. Una delle campagne Sial Cobas di questi mesi è stata infatti quella del 100%, anche sulla base di ciò che succede nel pubblico impiego: lì i servizi sono stati chiusi, il lavoro si è sospeso, chi poteva lavorava da casa, però lo stipendio era pieno per tutti. Nei servizi esternalizzati, ovviamente no. Per cui, di fatto, quello che è accaduto è che in questi mesi, Comuni, Regioni, gli enti pubblici insomma, hanno utilizzato la questione pandemica per chiudere un po’ i rubinetti e ridurre i fondi e le rette.
In che modo?
In questi servizi alla persona e, in particolare, nell’ambito della disabilità, per ogni utente una quota la mette la Regione e una quota il Comune, metà e metà. Su altri servizi come asili nido, assistenza scolastica e simili, non socio-sanitari quindi, è il Comune che dà una retta per ogni utente. A marzo è uscito il Decreto Cura Italia, che negli articoli 47 e 48, in una scrittura volutamente generica e interpretabile, ha detto: in questa fase di rimodulazione e riorganizzazione del servizio dovuta alla pandemia, gli enti locali hanno la possibilità di decidere di erogare fino alla totalità delle rette previste, sulla base di progetti di riattivazione, cioè sulla base di una continuità di intervento. Tanti Comuni ed enti locali hanno interpretato a loro modo questa dicitura possibilista, per cui hanno detto: rimoduliamo i servizi, riorganizziamo il lavoro, dopodiché un lavoro a distanza non può costarci quanto un lavoro in presenza. Per cui di fatto c’è stata anche una differenziazione territoriale enorme, come ci hanno dimostrato operatori e operatrici di diverse regioni e città con cui abbiamo fatto numerose assemblee sindacali. Ci sono stati Comuni che hanno deciso di erogare il 100% delle rette, e sono pochi, la maggioranza ne ha erogato solo una parte, altri ancora hanno deciso che non era affatto necessario erogare.
È a fronte di questo quadro generale che abbiamo organizzato lo sciopero nazionale del 13 novembre, che vuole tenere dentro tutte queste rivendicazioni: dire per l’ennesima volta che l’esternalizzazione non funziona, che la cura delle persone deve essere fuori dalle logiche di profitto, che il taglio del welfare degli enti locali è un’ingiustizia che ricade sia sui lavoratori che sugli utenti con cui si lavora. Quindi per noi operatori, l’internalizzazione è un passo verso una migliore qualità dei servizi e del lavoro.