Due Leghe in lotta da quarant’anni fra autonomia ed egemonia
La politica, diceva nella cosiddetta Prima Repubblica il socialista Rino Formica, “è sangue e merda”, concetto meglio articolato dallo stesso politico nell’affermazione: “La politica è per gli uomini il terreno di scontro più duro e più spietato. Si dice che su questo campo ha ragione chi vince, e sa allargare e consolidare il consenso, e che le ingiustizie fanno parte del grande capitolo dei rischi prevedibili e calcolabili”. Se questo era vero in un’epoca in cui ancora erano forti le ideologie nel dibattito politico, lo è tutt’oggi, in un’epoca post-ideologica.
È quello a cui stiamo assistendo all’interno della Lega di Matteo Salvini, partito nazional-populista a capo di un centrodestra sempre più lontano da quello degli anni ’90: cioè alla presunta rivalità fra il capitano Salvini e il governatore del Veneto Luca Zaia, confermato alla guida della Regione alle ultime elezioni con una percentuale che, un tempo, si sarebbe definita “bulgara”: 76,8%.
Il Carroccio, pur presentandosi sin dagli albori come un partito leaderista, guidato in maniera cesaristica del suo padre-padrone, il senatùr Umberto Bossi – a capo di un “partito leninista fondato sul ‘Führerprinzip’” che mai ha permesso il coagularsi di correnti vere e proprie – ha comunque sempre visto al suo interno una certa vivacità. Già quando nacque l’area delle leghe regionaliste settentrionali, fra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, vi aderirono personalità di formazione e background diverso: chi proveniente da sinistra (dallo stesso Umberto Bossi a Roberto Maroni o Gipo Farassino), chi dai partiti centristi o dall’estrema destra, sia ‘ufficiale’, il Msi, sia extraparlamentare (1); personalità che, come documentato più volte in questa rubrica, nel corso dei decenni hanno cercato di costruire un’egemonia culturale, scontrandosi anche con settori moderati e centristi. Scontro testimoniato anche dalla ondivaga posizione su temi chiave come la politica estera, ora putiniana, a tratti anti-sistemica se alla Casa Bianca c’è un democratico, per poi essere al contempo filoamericana e trumpista o neocon. Dunque aree con riferimenti culturali antitetici, ma tutte fedelmente salviniane (2).
La leadership di Matteo Salvini, consolidata e rafforzata dalla onnipresenza televisiva del leader populista milanese sin dal dicembre 2013, sembra ora scricchiolare davanti al nuovo presenzialismo del governatore veneto Luca Zaia. Quest’ultimo, a differenza del segretario del suo partito che dopo un anno di governo col M5S è ritornato all’opposizione, incarna l’etica del ‘fare’, cioè il politico che gestisce il territorio, che fa proprio il pragmatismo – e qui trapela l’evidenza della politica post-ideologica dei nostri giorni – specie ora in epoca di Covid-19.
La ‘guerra’ fra Zaia e Salvini secondo la City inglese…
Generalmente, anche per raggranellare più voti ad personam, è normale che durante le elezioni amministrative, provinciali o regionali, venga presentata una lista civica col nome del candidato alla poltrona in carica, una prassi consolidatasi nella cosiddetta Seconda Repubblica, una delle tante cartine di tornasole di una politica sempre meno legata agli schemi ideologici (eccetto l’ideologia dominante, il pensiero unico liberale, trasversale). È comunque un metro di misura per vedere i rapporti di forza in una determinata coalizione e, nel caso del Veneto, è stata osteggiata dal leader Salvini.
Leggendo questo dispaccio interno al Carroccio, fatto pervenire a tutti i presìdi del partito in giro per il Veneto, sembra che i vertici di via Bellerio stiano dicendo l’ovvio, ma così non è: “Si ribadisce che tutte le sezioni devono fare campagna elettorale solo per la lista Lega”. “È la dimostrazione che Salvini ha una gran paura che la lista di Zaia surclassi quella della Lega”, dice un vecchio colonnello della Liga, fedelissimo del governatore (3).
Una paura, quella di Matteo Salvini, fondata, nonostante “Zaia [sia] stato bossiano con Umberto Bossi, maroniano con Roberto Maroni, ora salviniano con Matteo Salvini, oltre a essere stato anche ‘amico fraterno’ dell’ex sindaco di Verona Flavio Tosi. [È un] uomo per tutte le stagioni?” Può essere una chiave di lettura, che dimostrerebbe la sua vocazione di stare sempre a galla qualunque sia il nocchiero della nave. Coltivando la sua immagine di uomo concreto, che si atteggia come un comune cittadino, che dialoga con tutti, poco incline ai voli pindarici, con una fede incrollabile nelle virtù del mercato e degli schei, che non disdegna di parlare in dialetto” (4).
Pragmatismo che è servito all’ascesa di Zaia: secondo il Corriere del Veneto, inserto regionale del Corriere della Sera, “da quando la legge Tatarella ha introdotto l’elezione diretta del presidente della Regione, nel 1995, nessun candidato ha mai toccato vette di consenso così alte in Italia. Non ci riuscì Vito De Filippo in Basilicata nel 2005, non ce la fece Raffaele Lombardo in Sicilia nel 2008 (peraltro finiti entrambi malamente, tra inchieste per rimborsi illeciti e condanne per voto di scambio). Luca Zaia, il viceré del Nordest, sta invece lì, al 70%, e anche se sono solo sondaggi, neppure l’opposizione se la sente di smentirli più di tanto” (5). E il 70% è una percentuale impressionante, pur in una regione storicamente leghista come il veneto, lì dove nacque a fine anni ’70 la Liga Veneta, il primo movimento autonomista regionalista che farà da modello alle altre leghe regionaliste settentrionali.
È una paura analizzata anche dal Financial Times. Secondo il quotidiano della City, “la minaccia più pericolosa” per il leader populista milanese “non arriva dai suoi numerosi nemici, ma dall’interno del suo stesso partito”, minaccia che potrebbe frenare l’ascesa del segretario, teoricamente inarrestabile dal 2013. Durante l’emergenza italiana Covid-19, Salvini “ha faticato a stabilire l’agenda come faceva prima”, facendo “scivolare la Lega nei sondaggi”, e “lo sfidante alla leadership è ora il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, dopo che la sua strategia di lotta al Covid-19 ha attirato l’attenzione globale”. L’articolo di Miles Johnson, intitolato Political hero of Italy’s coronavirus crisis takes shine off Salvini, pubblicato il 4 maggio 2020, è indicativo che anche negli ambienti che contano si guarda all’ascesa della Lega e alla sua leadership: le due regioni più ricche d’Italia, la Lombardia e il Veneto, entrambe amministrate dal Carroccio, hanno adottato approcci diversi per contenere il virus, ma è stato il “modello veneto” quello vincente, con 1.500 morti contro i 14.000 in Lombardia, il tutto per una pragmatica politica fatta di test e tracciamento dei contagi. Il governatore Zaia, spiega il Financial Times, è stato definito dai giornali “mr 80%” o “il Doge”.
Mentre la Lega scendeva dal 34% dei consensi ottenuti alle ultime elezioni europee a meno del 30%, quelli personali di Zaia erano attorno al 50%, secondo un sondaggio del politologo della Luiss Roberto D’Alimonte citato dal quotidiano inglese, ovvero più di quelli del presidente del Consiglio Conte (35%) e del presidente della Repubblica Mattarella (32%), mentre lo stesso Salvini era sceso sotto il 20%. E dire che, ricorda il giornale, da quando è arrivato al vertice del partito nel 2013, “il capitano” l’ha portato da un risultato a una sola cifra a oltre il 30%.
È comprensibile quindi la paura di Matteo Salvini, specie davanti all’incremento dei consensi dei post-missini di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, come già analizzato in questa rubrica (6).
Anche se è assodato che in Veneto il Carroccio ha al suo interno anime ‘radicali’, spesso legate al radicalismo di destra da una parte o al cattolicesimo oltranzista dall’altra (non a caso si è tenuto a Verona il congresso delle famiglie che ha dato voce all’ala più conservatrice del centrodestra, Lega in primis), come documentato da Emanuele Del Medico in un volume dall’inequivocabile titolo All’estrema destra del padre (7) – che pur parlando delle interconnessioni fra estremismo di destra e cattolicesimo oltranzista punta i riflettori sul cosiddetto paradigma veronese, città successivamente guidata da Flavio Tosi, sindaco che inizialmente fu visto come un punto di riferimento per l’ala dura del Carroccio veneto (arrivò a sdoganare persone di Fiamma tricolore o del Veneto fronte skinhead) e poi presentato come alternativa a Matteo Salvini, proprio come Zaia – va ricordato che il successo della Lega Nord, anche nel Veneto, avviene in zone con un forte radicamento e tradizione democristiana o fra l’elettorato pentapartitico: il passaggio dalla “tradizione bianca” alla “protesta verde” (8) renderebbe controproducente un eccessivo slittamento a destra, nonostante sia ovvio che si assiste da danni a una radicalizzazione del ceto medio.
In una prima fase, infatti, la Lega Nord (e prima ancora la Liga Veneta o, in Lombardia, la Lega Lombarda e le formazioni affini) è vista come un movimento che ha come obiettivo la tutela di determinati interessi, strettamente locali, e non legato a questa o quella fazione politica: tale visione permette al partito di avvicinare classi sociali diverse, “operai e imprenditori delle piccole imprese, commercianti e settori del ceto medio urbano impiegatizio” (9). Lo stesso Zaia proviene dal Psi craxiano, partito che negli anni ’80 si è gradualmente spostato verso il centro. Non parliamo quindi di un leghista che flirta – almeno non apertamente – con l’estremismo, come ha fatto il segretario federale sin dall’inizio della sua segreteria.
Allora perché i veneti votano in massa per Zaia? Dove nasce questo consenso diffuso in tutti i ceti sociali, radicato sul territorio, trasversale ai partiti (perché 70% significa oltre il semplice centrodestra)? Come si è arrivati a una simbiosi tra il governatore e i cittadini tale per cui a volte lo stesso Zaia arriva a definire le critiche alla sua amministrazione come “attacchi al popolo veneto”?
Il Veneto profondo leghista e Zaia
Va detto che in Veneto, regione storicamente ‘bianca’ e oggi leghista, l’opposizione è debolissima, più che altrove. L’aver candidato Alessandra Moretti, autodefinitasi Ladylike, letteralmente “che ha il portamento di una signora”, per aver rivendicato la necessità che le donne in politica debbano essere esteticamente belle, curate ed eleganti, non ha senz’altro aiutato il Pd e il centrosinistra tout court in una regione ‘popolare’ come il Veneto. Ma le radici del successo di Zaia, vengono da lontano.
Il professore Ilvo Diamanti, politologo e docente di Scienza Politica dell’università di Urbino, spiega in un’intervista al Corriere del Veneto il 5 settembre 2020, che tale successo affonda le radici nella Liga Veneta (non nella Lega Nord, che è ‘lombardocentrica’, cioè ‘padana’), movimento localista nato a fine anni ’70 e che nella Pedemontana delle piccole imprese e dei piccoli comuni ebbe la sua culla. “È lì, nel Veneto profondo dove l’elettore non chiede alla politica di ‘fare’ ma di ‘lasciar fare’ che nasce la Liga di cui oggi Zaia è il massimo interprete, grazie anche a un passato lavorativo che ne esalta le doti di comunicatore, come vediamo dai riscontri su stampa, tivù e social media. Poi c’è l’autonomia, che ci ha consegnato un referendum con oltre 2 milioni di votanti e il Sì al 98%: la Lega di Zaia è ancora la Lega del federalismo, il sindacato del territorio; quella di Salvini è la Lega nazionale, un’altra cosa ormai. Quindi, l’emergenza sanitaria: detto che Zaia ha avuto alti indici di gradimento fin dal primo mandato, è indubbio che questo si è dilatato enormemente negli ultimi sei mesi, quando da parte dei cittadini è emerso prepotentemente il bisogno di punti di riferimento”. Zaia come l’uomo forte? “Sì, purché inteso in termini di autorità, non di autoritarismo”.
Lo scontro già visto in questa rubrica fra una Lega a vocazione nazionale (o nazionalista) che guarda al Rassemblement national di Marine Le Pen, e la Lega Nord, sia nel suo insieme che nelle realtà locali dello zoccolo duro regionalista, centrista ma non necessariamente moderato (si è addirittura parlato di estremismo di centro) (10), è qui evidente.
L’analisi di Diamanti è simile a quella di Paolo Feltrin, politologo dell’università di Trieste: “Zaia parte da basi solidissime, dal 1995 a oggi il Veneto è sempre stato saldamente nelle mani del centrodestra e lui ha governato in continuità, senza scossoni. È uscente, al terzo mandato, dunque è favorito per definizione ma a dargli la spinta decisiva per superare il 70% è stato il virus, che a ben vedere ha rafforzato tutti i vertici di governo, dal premier ai sindaci. Nel mare in tempesta, ci si affida al capitano, a lui si chiede il miracolo. E il Covid ha rilanciato pure il federalismo, che si era un po’ appannato negli ultimi tempi, nella sua accezione migliore: non oppositivo ma collaborativo. Le soluzioni migliori per i cittadini sono scaturite da un confronto a tratti aspro ma fattivo tra Roma e i territori. Esattamente ciò che predica Zaia”.
È il pragmatismo post-ideologico, anticentralista e antiburocratico (ergo antipolitico) il cardine del modo di porsi del presidente veneto. Un pragmatismo che viene da lontano, dalla Dc anni ’80 (11), che spinge Zaia, nonostante faccia politica da quando aveva vent’anni nel Psi craxiano, a ripetere a ogni occasione: “Io non sono un politico, sono un amministratore”. Una narrazione potente in Veneto, secondo Stefano Allievi, professore di Sociologia all’università di Padova: “Zaia mette sempre molta enfasi sulla retorica dei veneti che ‘si tirano su le maniche’, anche se questo a volte tradisce la realtà. È bravo a farsi portavoce del ‘sentire medio’ della gente, non assume mai posizioni divisive o radicali, in Zaia ci si riconosce facilmente perché lui è attento a non scontentare mai nessuno. A questo accompagna un understatement che fa dire ‘è uno di noi’ anche nei comportamenti privati: mai una festa, un salotto, un galà per vip, si tiene a debita distanza dai cenacoli intellettuali. Interpreta la politica come un ‘lavoro’, appunto, per cui fa quello che deve fare, per cui è pagato potremmo dire usando un’espressione cara ai veneti, e torna a casa. Poi certo è molto abile nel porre le domande quando in realtà dovrebbe dare le risposte”, continua Allievi, “ha una straordinaria capacità di reazione nell’emergenza ma è meno incisivo su temi di lungo respiro, come la fuga dei laureati verso l’estero, l’Emilia Romagna e la Lombardia, un futuro già ipotecato. E fa riflettere che Zaia faccia notizia in Italia per la sua forza in Veneto, mentre il Veneto è sempre più debole in Italia. È un successo locale”.
È l’approccio aziendalista che è vincente in Zaia, come nota pure Carlo Alberto Tesserin, tra gli ultimi pezzi grossi della Democrazia Cristiana veneta, consigliere regionale dal 1990 al 2015, ora Procuratore di San Marco: “Mancanza di visione? Si è concentrato sul core business della Regione che è la sanità e non si può dire che questa in Veneto non funzioni bene, specie se si guarda a come vanno le cose vicino a noi. Ha amministrato con risorse ben diverse da quelle di cui hanno potuto disporre la Dc e Galan e se farà la Pedemontana potrà mettersi al petto un’altra medaglia. I Giochi di Cortina, le colline del Prosecco patrimonio Unesco, se poi gli danno l’autonomia… Dal punto di vista amministrativo è solido, ha svolto tutto il cursus honorum, dal Comune alla Provincia, dalla Regione al ministero, ma il suo vero punto di forza è che lui c’è quando la gente vuole che ci sia: da Vaia all’Acqua Granda, i veneti sanno che si possono fidare e questo è un sentimento che trascende le appartenenze ai partiti”.
Secondo Gianluca Comin, docente di Strategia di Comunicazione alla Luiss: “Si parla molto delle sue doti di comunicatore ma è evidente che senza il buon governo la comunicazione non basta. A fare la differenza sono la sua capacità di sintonizzarsi sui problemi, di essere presente sui temi che sono in cima alle priorità della gente. Poi certo attorno a lui c’è una squadra che lavora bene, con professionalità, dando corpo alle intuizioni che gli portano popolarità. E l’imitazione di Crozza è il sigillo finale sulla sua notorietà”.
Ma allora, perché Salvini teme Zaia? Perché boicottare una lista che potrebbe attrarre ulteriori consensi non necessariamente leghisti a vantaggio del partito? Perché, volendo banalizzare, Luca Zaia non è lombardo, ma veneto.
Veneti contro lombardi: uno scontro fra autonomia ed egemonia lungo oltre quarant’anni
Perché fin dalla sua unità, la Lega Nord – che nasce fra il 1989 e il 1991 per federare i principali movimenti regionalisti dell’Italia settentrionale di allora, e cioè la Lega Lombarda, la Liga Veneta, Piemònt Autonomista, L’Union Ligure, la Lega Emiliano-Romagnola e Alleanza Toscana, organizzandosi in seguito in sezioni territoriali non coperte dai movimenti precedentemente esistenti, e cioè nelle province autonome di Trento e Bolzano, in Friuli-Venezia Giulia, in Val d’Aosta, in Umbria e nelle Marche – in virtù della leadership di Umberto Bossi si è rivelato un partito ‘lombardocentrico’, come già si è detto.
La Lega Nord guidata da Umberto Bossi ha registrato non pochi episodi negativi per la componente che guidava (e guida, dato che formalmente esiste ancora) la Liga Veneta, nonostante la patria del leghismo non sia la Lombardia. Questo fenomeno politico che oggi ha in Salvini il suo leader, non nasce in Lombardia, ma in Veneto. Nel 1979 il professore d’arte padovano Achille Tramarin, scomparso di recente, fonda di fatto la Liga Veneta, che fu a tutti gli effetti la “madre di tutte le leghe”, la prima a raccogliere la naturale vocazione all’indipendentismo di buona parte delle genti venete, nostalgiche della Serenissima Repubblica: una realtà radicata nell’immaginario collettivo veneto, da cui si mutua pure il simbolo nel logo, il “Leone di San Marco”, che nella propaganda antimeridionale venetista – uno dei tratti comuni col leghismo lombardista assieme alla critica al centralismo romanocentrico – diventa il famoso “leon che magna el tèron”. È solo nel 1982 che Umberto Bossi, assieme a Giuseppe Leoni, fonda la Lega Lombarda, con Alberto da Giussano nello stemma, ed è lì che inizia la concorrenza fra i due movimenti, così simili e così differenti.
È la Liga Veneta a guadagnar terreno, inizialmente, dato che alle elezioni del 1983 manda in Parlamento Tramarin, il leader venetista, che esordirà sulla fiducia al governo Craxi pronunciando un discorso in dialetto (anzi, in ‘lingua’, diranno gli autonomisti e gli identitaristi) veneto. Ma ben presto il movimento avrà non pochi problemi interni, con una guerra intestina che porterà Franco Rocchetta a chiedere a Tramarin l’abbandono della guida del partito: dopo una guerra fatta di querele, spintoni e calci verrà espulso, e alla segreteria arriverà Marilena Marin.
L’indebolimento del venetismo favorirà la Lega Lombarda di Umberto Bossi, che eleggerà nel 1987 il suo leader al Senato e anche quello alla Camera, Giuseppe Leoni. Questo favorì gradualmente l’ascesa della componente lombarda, nonostante all’apparenza l’obiettivo di Bossi fosse quello di federare in un un unico fronte tutti i movimenti regionalisti dell’Italia settentrionale. Si aggregheranno per le europee del 1989 nell’Alleanza Nord, il primo abbozzo di Lega Nord, e verranno visti come gli avversari di quel pentapartitismo descritto come “il regime partitocratico” o “Roma ladrona”. In risposta, il 3 marzo 1990 il Partito socialista organizza un raduno in quel luogo che diverrà quasi un sinonimo di leghismo: Pontida. Lì dove le liste leghiste avevano raccolto il 16% dei consensi. Bettino Craxi lancia un’aperta sfida al Carroccio: la riforma costituzionale in senso presidenzialista e federalista. Spinge in tal modo i leghisti a passare dalla mera contestazione all’organizzazione di un raduno proprio a Pontida, il 25 marzo dello stesso anno, primo di una lunga serie di kermesse dove si elabora l’immaginario mitopoietico leghista (lì si sarebbe tenuto, nel 1167, il giuramento che porterà alla nascita della Lega Lombarda, che si opporrà a Federico Barbarossa). Un passaggio fondamentale ai fini egemonici: il movimento nasce per aggregare tutti i movimenti regionalisti e autonomisti del Nord Italia, ma finisce per essere guidato da un leader lombardo che imporrà simbologie e ritualità lombarde, anzi ‘padane’: da Alberto da Giussano nello stemma al giuramento di Pontida, che evoca un evento della storia comunale lombarda, arrivando all’obiettivo della nascita della Repubblica del Nord, che dovrà chiamarsi “Padania”.
Ma ai veneti si concede qualcosa: se il segretario federale è Umberto Bossi, la presidenza va a Marilena Marin, leader della Liga Veneta. Ma sempre in stato di perenne subordinazione alla componente lombarda, e ogni qual volta un esponente veneto rischia di fare ombra al senatùr Bossi, scatta inesorabile l’espulsione. Il primo che ne pagò le conseguenze fu infatti Rocchetta, cacciato nel 1994, seguito nel 1998 da Fabrizio Comencini, reo di aver invocato l’autonomia della Liga Veneta dal partito, di cui era segretario. Anche Giancarlo Gentilini, popolare sindaco-sceriffo di Treviso noto per le sue esternazioni xenofobe, ha avuto modo di provare sulla propria pelle l’ostracismo per alcune dichiarazioni alla stampa evidentemente non gradite ai vertici di via Bellerio. L’ultimo veneto epurato è stato il già citato Franco Tosi, ex sindaco di Verona, che dovette uscire dalla Lega dopo il braccio di ferro coi vertici lombardi perché non intendeva rinunciare alla corsa per la presidenza del Veneto, guarda caso proprio contro il salviniano Luca Zaia (12).
Ciò significa che molto probabilmente Zaia, che non è un politico di primo pelo, non arriverà allo scontro diretto con Matteo Salvini. Non proverà a presentarsi come colui che rilancia la Liga Veneta, perché rischierebbe di fare la fine di molti veneti ‘eccellenti’ che tentarono di sfidare via Bellerio. Meglio accontentarsi del ruolo, tutt’altro che secondario, di “Doge di Venezia”, di fatto sposando il noto detto veneziano secondo cui “Xe megio esser paron de ‘na sessola che servidore de ‘na nave” (“Meglio essere padrone di una sessola [l’umile strumento di legno che serve a svuotare le imbarcazioni dall’acqua] che servitore di una nave”). Ma lo scontro conferma che il Carroccio, pur avendo al suo interno anime radicali, non può puntare al 100% alla radicalità del Rassemblement national lepenista, che è una forza di sola opposizione. La Lega, fin dal 1994, ha gustato la comodità delle poltrone romane e regionali, governando – sempre a vantaggio del ceto elettorale di riferimento, la borghesia produttiva del Nord-Est – le contraddizioni del sistema italiano.
1) Rimando il lettore alla serie di miei articoli dal titolo Alle radici del fascioleghismo pubblicati su Paginauno, dal n. 44 al n. 46 fra il 2015 e il 2016
2) Cfr. Matteo Luca Andriola, Fra Washington e Mosca passando per Tel Aviv. La politica estera della Lega Nord, Paginauno n. 51/2017
3) Cfr. Valerio Valentini, Così Salvini ordina di boicottare la lista di Zaia, ma i leghisti veneti se ne infischiano, Il Foglio.it, 4 settembre 2020
4) Umberto Baldo, Salvini ed i “lumbard” bloccano l’ascesa di Zaia, TviWeb.it, 10 maggio 2020
5) Marco Bonet, Luca Zaia, perché spopola nei sondaggi: «Incarna l’anima veneta», Corriere del Veneto, 5 settembre 2020
6) Cfr. Matteo Luca Andriola, Fratelli d’Italia, dalla destra sociale al liberismo trumpista, Paginauno n. 67/2020
7) Cfr. Emanuele Del Medico, All’estrema destra del padre. Tradizionalismo e destra radicale. Il paradigma veronese, Edizioni La Fiaccola, Ragusa 2004
8) Cfr. Ilvo Diamanti, Il male del Nord, Donzelli Editore, Roma 1996
9) Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente – Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino 1998
10) Lo studioso Giovanni De Luna, parlando di “estremismo di centro”, si riferiva al dinamismo economico delle regioni in cui storicamente è radicata la Lega Nord: ha fatto in modo che “nel contenitore di centro nascessero i fermenti di rottura più significativa e quindi gli elementi di una deriva estremista più forte, più radicale. […] Gli estremisti di centro sono capaci di trasformare gli interessi specifici in valori. E questi interessi diventano valori importanti nella misura in cui devono essere difesi contro gli altri. Con una forte aggressività. Con accanimento. Proprio osservando questa aggressività possiamo individuare il connotato più significativo di questo estremismo: una concezione perennemente conflittuale della politica” (Giovanni De Luna, intervista rilasciata a Ritanna Armeni, l’Unità, 11 agosto 1997)
11) Il politico democristiano veneto Antonio Bisaglia, di area dorotea, parlando della sua regione nel 1982, prima che si sviluppasse l’insorgenza leghista, afferma: “Per lo sviluppo effettivo delle potenzialità del Veneto, l’ostacolo principale è nella visione centralistica che prevale ancora in Italia. Centralistica e burocratica. Se ciò fosse possibile direi che il Veneto sarebbe pronto a partecipare a uno stato federale. Ma l’Italia no, non sarebbe pronta. L’ostacolo è nello squilibrio troppo forte tra la coesione culturale del Veneto e quella generale. Lo stato ne ha paura” (A. Bisaglia, Il politico come imprenditore, il territorio come impresa, intervista di I. Diamanti, Strumenti, n. 2/1988, pp. 71-80)
12) La rottura fra Tosi e Salvini si è registrata dal 2015, quando si nota una netta dicotomia fra la linea del sindaco veronese e quella del segretario federale della Lega. Il primo è per un’alleanza con i moderati centristi e per una Lega non lepenista, e dunque per un modello di partito non di destra ma moderato liberalconservatore (in opposizione con quanto fatto però in giunta con l’apertura all’estrema destra). Il 2 marzo 2015 Salvini lancia un aut aut a Tosi: scegliere tra la Fondazione fondata dal sindaco veronese o la Lega. Due giorni dopo tre consiglieri regionali vicino a Tosi (Luca Baggio, Matteo Toscano e Francesco Piccolo) fondano un nuovo gruppo nel consiglio regionale veneto sancendo così la rottura politica con la Lega. Il 7 marzo 2015 sei parlamentari della Lega di area tosiana annunciano di essere pronti a uscire dal gruppo parlamentare del partito di Salvini nel caso in cui avvenga la rottura definitiva tra la Lega Nord e Tosi. Il 10 marzo 2015 Tosi viene espulso dalla Lega Nord a seguito dello scontro con il segretario, mentre il 13 marzo tre assessori della giunta Zaia annunciano l’uscita dalla Lega Nord e la costituzione di un nuovo gruppo in seno al consiglio regionale veneto pro-Tosi. È il secondo gruppo che sostiene Tosi in seno all’assise veneta. Ciò ha spinto il gruppo su posizioni centriste, portando Tosi prima a schierarsi coi centristi di Area Popolare (ex Udc) e poi ad aderire al cartello “Noi con l’Italia” di Maurizio Lupi (ex FI, poi Ncd). Sul passato filoneofascista di Franco Tosi rimando a Matteo Luca Andriola, La Nuova destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist, Edizioni Paginauno, seconda edizione 2019