Chi è il partito di Giorgia Meloni, che sta scalando consensi
Parlando di populismo in Italia, dal dicembre 2013 ci si sofferma spesso sulla figura di Matteo Salvini, leader della Lega Nord (poi semplicemente Lega, vista la nuova vocazione nazionale) e, nel 2018-2019, ministro dell’Interno. È una figura senz’altro centrale, gli abbiamo dedicato non poche analisi su queste pagine, ma spesso si sorvola o si relega sullo sfondo la figura di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia.
Questa analisi salvinicentrica da parte del grosso dei mass media è legata al fatto che la Lega di Matteo Salvini, dal 3% ereditato dalla gestione bossiano-maroniana, è balzata sopra il 30%, il che lo rende un fenomeno di interesse politologico; nel nostro caso ci si è soffermati sul Carroccio – ma le nostre riflessioni partono già dai primi anni Ottanta, quando esistevano soltanto le leghe regionaliste nell’Italia settentrionale, da cui nascerà prima la lista unica regionalista Alleanza Nord (1989), poi la Lega Nord (1991) – per i legami intellettuali di lungo corso con diversi settori politico-militanti del radicalismo di destra (la redazione del mensile milanese Orion di Maurizio Murelli) e della nuova destra metapolitica legata al filosofo Alain de Benoist.
Fratelli d’Italia, invece, sembrava rimanere sullo sfondo, in secondo piano, come una sorta di ‘scopiazzatura’ ora del leghismo salviniano – ma incapace di attrarre i consensi di soggetti neofascisti come CasaPound Italia – ora del Front national francese, dove una donna come Giorgia Meloni, Marine Le Pen, occupa lo spazio centrale da noi occupato dal Carroccio. Ma ora questo partito nazional-conservatore italiano, erede in parte di Alleanza nazionale, del vecchio Msi-Destra nazionale ma capace di attrarre parte di quella destra sociale che non si era riconosciuta sta gradualmente ascendendo nei consensi, passando dal 4% di inizio legislatura a circa il 10,6% nel dicembre 2019. Avremo anche noi, come si chiedono alcuni giornali, una premier donna di destra? È il caso di analizzare l’ascesa di Fratelli d’Italia, le similitudini e le differenze con la Lega, i suoi legami con il populismo occidentale liberista e le ambiguità, come nel partito di Salvini, in politica estera.
Dal centrodestra nazionale al conservatorismo social-sovranista
Nato nel dicembre 2012 da una scissione di destra del Popolo delle libertà, il partito unico del centrodestra che univa Forza Italia di Silvio Berlusconi, Alleanza nazionale di Gianfranco Fini e altri soggetti minori, Fratelli d’Italia (originalmente seguito dall’etichetta Centrodestra nazionale) viene guidato dal triumvirato Crosetto-La Russa-Meloni. Nasce in parziale opposizione al totale appiattimento della componente maggioritaria (sostanzialmente post forzista, anche se non mancano componenti riconducibili ad An, come Maurizio Gasparri, ex colonnello di Fini e leader con Ignazio La Russa della corrente filoberlusconiana “Destra protagonista”, che seguiranno il leader del Pdl Berlusconi) alle posizioni deflazioniste e pro austerità del governo Monti. La scissione, vista l’assenza di dialettica interna al partito unico del centrodestra e l’annullamento delle primarie, è preceduta il 16 dicembre 2012 dal varo della convention Primarie delle Idee, che porta i ‘ribelli’ ad animare il nuovo partito di destra, che nel giro di un anno e mezzo adotta come ‘nuovo’ simbolo, dopo quello di un ‘nodo tricolore’ che aveva effettivamente poco appeal, il vecchio stemma missino e di An: la fiamma tricolore, che comparirà nel 2014, dopo che La Russa e Alemanno propongono che la Fondazione Alleanza nazionale conceda l’utilizzo del logo di An a FdI. Adesso, dopo il congresso di Trieste, ogni riferimento ad An scompare. Resta solo la fiamma, ma senza la base trapezoidale con scritto Msi (1).
Il partito, che alle elezioni del 2013 parteciperà alleato col vecchio Pdl, che nel frattempo è ritornato col vecchio nome Forza Italia, e la Lega Nord nella coalizione del centrodestra, otterrà uno scarso 1,9%, eleggendo nove deputati e nessun senatore e divenendo così il terzo partito nel polo moderato dopo la Lega Nord, anch’essa in grave crisi, ma facendosi notare per una forte opposizione al governo Letta di centrosinistra.
Ma è la nascita del governo Renzi a permettere a FdI di salire gradualmente nei consensi a scapito di Forza Italia, da sempre in testa nella coalizione di centrodestra, annunciando non solo il voto contrario, cosa scontata, ma accusando il neo-presidente del consiglio di essere “succube” dei cosiddetti “poteri forti”, le istituzioni europee, rappresentate dal leader democristiano tedesco Angela Merkel, esattamente come prima lo erano il governo tecnico di Monti (votato però anche dalla deputata del Pdl Giorgia Meloni) e quello di centrosinistra di Enrico Letta, accusato tra l’altro di non essere stato nominato da nessuno (visto che il Partito democratico si era presentato con il segretario Bersani).
Non solo: la leader di FdI esprimerà le sue pesanti critiche al jobs act e per il fatto che Renzi dirà, in un incontro coi sindaci a Treviso, “andrò dalla Cancelliera Angela Merkel con il jobs act pronto”, con parole di questo tipo: “Considero una cosa assolutamente fuori ogni logica di una nazione democratica il fatto che Renzi vada dalla Merkel con il suo jobs act”. “Nessun capo di un governo di una nazione sovrana se ne va in pellegrinaggio dai suoi parigrado europei a farsi bollinare i provvedimenti che intende fare in patria e ancora più grave, l’ho detto e lo ripeto, è che abbia scelto per questo atto di sottomissione il 17 marzo cioè la festa nella quale l’Italia celebra le ragioni stesse che la tengono insieme”, ha aggiunto per poi mettere l’accento sul fatto che all’Italia, nelle attuali condizioni, non conviene stare nell’euro. “È l’anniversario della nostra unità nazionale, della nostra libertà, della nostra autonomia” ha osservato ancora Meloni “e lui, invece di stare qui a celebrare quel valore con gli italiani, se ne va in Germania a fare l’inchino alla Schettino”. “Se mi si dice che questo è diverso da quello che abbiamo già visto con Monti e con Letta, io temo che diverso non sia e credo che sia per questo motivo che noi siamo messi come siamo messi con l’Europa”, ha proseguito e ha sottolineato: “Io penso che, arrivati a questo punto, si debba dire una cosa semplice: all’Italia, a queste condizioni, non conviene stare nell’euro. Noi vogliamo uscire dall’euro, poi se l’Europa ritiene che l’uscita dell’Italia dall’euro possa essere un problema per l’euro, si mettano in moto e ci convincano a rimanere. Ma non ci può più essere un rapporto unilaterale per cui noi continuiamo a dare e non abbiamo indietro niente” (2).
Le parole di Giorgia Meloni denotano una svolta nazional-sovranista e, teoricamente, no-euro e critica verso l’Ue da parte di FdI, simile a quella che Matteo Salvini stava imprimendo dal dicembre 2013 alla Lega Nord, e che evidenziava una differenziazione da Forza Italia, non solo più moderata e centrista, ma troppo allineata al neonato renzismo. Questo porterà FdI, dopo la scissione col Pdl, a rompere col Ppe, troppo poco di destra e non più in sintonia col suo euroscetticismo, come ribadito al congresso di Fiuggi, lì dov’era nata nel 1995 Alleanza nazionale, una battaglia che il partito di destra porta avanti col vecchio leader romano della destra sociale di An, Gianni Alemanno, ex genero di Pino Rauti e uomo di punta dell’asse, fin dagli anni Ottanta, fra destra radicale extraparlamentare e destra istituzionale, con una ricetta economica non eccessivamente differente da quella dei leghisti – ormai sempre più simili ai colleghi di coalizione di FdI – ovvero l’unione di temi neoliberisti come l’abbassamento progressivo delle tasse per favorire le imprese, classico tema della destra dagli anni Ottanta a oggi, assieme a temi euroscettici, deflazionisti, ma dal vago sapore sociale: “Bisogna spiegare agli italiani che non è possibile abbassare le tasse senza che l’Italia esca dall’euro. Trattati come il Fondo salva Stati e il Fiscal compact” afferma Alemanno “richiedono all’Italia un durissimo sforzo finanziario senza lasciare nessuno spazio per politiche di riduzione della pressione fiscale. Per questo le nostre due battaglie contro l’euro e contro l’Irap sono strettamente collegate: vogliamo finanziare il taglio dell’Irap con la corrispondente cancellazione di agevolazioni aiuti di Stato per le imprese, mentre il taglio del cuneo fiscale deve essere finanziato con la riduzione della spesa pubblica”. E ancora: “Tutto questo è impossibile se continuiamo a rimanere in un sistema euro che assorbe tutti i nostri sforzi finanziari” (3).
Quella di Fratelli d’Italia, in sintesi, e leggendo dettagliatamente il programma elettorale, è la ricetta di Marine Le Pen in Francia, ovvero – con Forza Italia ormai al crepuscolo e con la Meloni che cerca di diventare l’unico riferimento dell’area moderata in Italia (e come vedremo, non solo), ovvero di quanti non vogliano accasarsi con i leghisti – quello della “preferenza nazionale”, che il Front national introdurrà nei suoi programmi nel 1985, che proporrà di ridurre la spesa pubblica (e in certi frangenti anche sociale) e l’imposizione di paletti di natura etnico-comunitario per l’accesso al welfare state, da limitarsi ai soli autoctoni o ai soli cittadini. Fratelli d’Italia infatti, oltre a proporre una lotta senza tregua al cosiddetto gender e a favore della “famiglia naturale” con sgravi fiscali e un welfare state mirato a chi mette su famiglia o alle madri lavoratrici (4), misure law & order a favore della sicurezza, non solo fa sua la difesa del made in Italy e degli enti statali strategici all’economia nazionale (oggetto, va detto, di un attacco fatto di privatizzazioni da ambo gli schieramenti, dal centrosinistra a quel centrodestra a cui apparteneva la stessa Meloni e gli stessi militanti e dirigenti di FdI, quando erano in An e nel Pdl), ergo il programma della destra sociale di An, che avrà fra i suoi teorici il giornalista Giano Accame e molti ex quadri post-missini provenienti dalla corrente rautiana o dalla nuova destra metapolitica di Marco Tarchi, ma introduce, in nome del disincentivo dell’immigrazione clandestina, la regolamentazione dei flussi migratori con l’accesso privilegiato al welfare state ai soli italiani associato anche alla “promozione di un piano internazionale di investimenti in Africa per combattere fame e povertà e limitare la spinta all’emigrazione”, cioè il progetto, anche leghista, dell’“aiutiamoli a casa loro”.
È questo programma elettorale di destra sociale, non solamente neoliberista ma capace di mixare elementi di libero mercato, protezionismo e welfare state ‘comunitarista’, a favorire la lenta ma graduale crescita dall’1,9% del 2013 a sopra il 10% degli ultimi sondaggi, con i risultati in aumento alle regionali del 2019, portando FdI in coalizione con Lega e Forza Italia, a eleggere il suo primo Presidente di Regione, Marco Marsilio, staccando di quasi 17 punti il candidato del centrosinistra Giovanni Legnini, eleggendo due consiglieri e ottenendo il 6,5%, più che raddoppiando, in termini percentuali, rispetto al 3% ottenuto alle precedenti regionali di cinque anni prima (in cui non aveva nemmeno eletto consiglieri), trend in crescita registrato in Sardegna (24 febbraio) e in Basilicata (24 marzo), ottenendo rispettivamente il 4,7% e il 5,9%, guadagnando anche qui consensi sia rispetto alla precedente tornata regionale che rispetto alle elezioni politiche dell’anno prima, e sempre a scapito di Forza Italia, ormai l’ombra di se stessa. Questo ha portato FdI, alle europee del 26 maggio scorso, al primo trampolino di lancio per Fratelli d’Italia: con lo slogan “In Europa per cambiare tutto”, ad aprile Giorgia Meloni lancia, dal Lingotto di Torino, la campagna per le elezioni europee. A far presumere un buon risultato per il partito, che negli emicicli di Strasburgo e Bruxelles è affiliato ai Conservatori e Riformisti (ECR), è l’arrivo, nei mesi prima del voto, di 5 dei 13 europarlamentari eletti con Forza Italia nella legislatura uscente, Stefano Maullu, Innocenzo Leontini, Remo Sernagiotto, Elisabetta Gardini e Raffaele Fitto, ex pupillo di Silvio Berlusconi e unico dei cinque a essere rieletto; FdI prenderà infatti il 6,4%, crescendo sia rispetto al 3,7% della precedente tornata europea, sia rispetto al 4,4% raccolto, per la Camera, alle elezioni politiche di poco più di un anno prima. Il tutto sempre a scapito di Forza Italia e in tandem/competizione con la Lega di Matteo Salvini, rendendo l’Italia un Paese con due poli – uno grosso e uno medio – nazional-populisti di destra, uno precedentemente localista ma riconvertitosi al patriottismo, l’altro da sempre nazionalista.
Come precedentemente il Msi e poi An, FdI è un partito meridionale, con percentuali sotto il 6% nelle circoscrizioni settentrionali, mentre tocca il 7,5% nel Sud, il 7,2% nelle Isole e il 7,0% nel Centro, dove arriva perfino a superare Forza Italia, ferma al 6,2%, mentre a Roma sfiora l’8,7%, senza dimenticare la capacità – vista pure nella Lega nel Nord Italia, dove è Salvini a farla da padrone – di battere la coalizione di centrosinistra nei suoi feudi, come a Piombino, storico centro rosso, e in altri comuni d’Italia.
Ma siamo di fronte a un soggetto neofascista? No senz’altro. Fratelli d’Italia è un connubio fra un continuo ricordo, specie da parte del suo zoccolo duro – dalla classe dirigente proveniente dal Msi ai quarantenni che hanno militato nell’ultimo Fronte della gioventù a cavallo degli anni Ottanta-Novanta prima della nascita di Azione giovani, i ragazzi di An guidati non a caso da Giorgia Meloni, ai ragazzi di Gioventù nazionale – degli anni di piombo visti da destra, del continuo martirologio dei “cuori neri” comune a partiti di estrema destra come Fiamma tricolore, CasaPound, Forza nuova, Lealtà e Azione ecc. (si veda il rito del ‘presente’ fatto per commemorare i morti di quel decennio, come Sergio Ramelli ma soprattutto, basti vedere la pubblicistica gravitante a FdI, l’estraneità, o meglio la bellicosa contrarietà, a una cultura nazionale repubblicana dominata dalla pregiudiziale antifascista) e di un’altra destra, più culturalizzata, che contraddittoriamente si richiama alla tradizione liberale di centrodestra, ma capace di attuare una rivalutazione morbida, funzionale al suo sdoganamento in campo liberalconservatore, del regime fascista, fondata su una sua “defascistizzazione retroattiva” (5).
Ma paradossalmente, nonostante l’eredità missina, innegabile, FdI non è neofascista, ma tutt’al più una ‘rifondazione aennina’, cioè il tentativo di far rinascere la comunità politica e umana di Alleanza nazionale, ma senza l’aplomb britannico e centrista di Gianfranco Fini. Insomma, FdI è una sorta di An 2.0 dove predomina più apertamente e senza il doppiopetto salottiero di Fini, la strizzata d’occhio verso la destra nostalgica (del regime o del Msi) di Ignazio La Russa o certi discorsi economici sociali e comunitaristi, ma comunque di destra, che in An erano un tempo relegati nelle pagine di Area, il mensile della destra sociale. Se con la svolta di Fiuggi la destra nazionale guarderà al gaullismo di centrodestra, con la crisi economica e con la svolta che Salvini impone al Carroccio, FdI deve cercare, senza un’aperta deriva neofascista che sarebbe un grave danno d’immagine, di imitare il Front national/Rassemblement national francese.
Mondialista o antimondialista?
Washington o Mosca?Vi sono in FdI, in campo geopolitico, differenze e similitudini col vecchio Msi e con An: durante la crisi siriana è rispuntata in questo partito una certa tendenza antiamericana di destra, portando FdI a schierarsi col regime ba’athista di Bashar al Assad perché in prima linea a combattere i ‘ribelli’ jihadisti, schierandosi apertamente con gli alleati, gli hezbollah libanesi perché, “se in Siria è ancora possibile fare i presepi, se ancora è possibile difendere la comunità cristiana, è anche grazie a un fronte nel quale ci sono il governo di Assad, la Russia, l’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah” (6), una netta rottura con la dirigenza di quello che fu il Msi, che da dopo la crisi di Suez del 1956 che vedrà il partito della “fiamma tricolore” schierato col raìs Gamal Abdel Nasser, sarà sempre filo-israeliana più ancora che filo-americana, giacché la lacerante contrapposizione Usa-Urss creava molti dubbi e interrogativi. Furono vicini allo Stato ebraico fior di missini e dal viaggio di Giulio Caradonna in poi l’elenco sarebbe lungo. D’altro canto, invece, le componenti nazional-rivoluzionarie della destra, dentro e fuori il Msi, stavano con gli arabi, i regimi socialisti nazionali laici e con i palestinesi. Persino la guerra in Libano fu divisiva, tra chi andò ad addestrarsi coi cristiani della Falange maronita legata a Israele e chi parteggiava apertamente per i miliziani che combattevano contro l’invasore con la Stella di David, ergo, le frasi di Giorgia Meloni sono di rottura, segno che l’ondata populista ha fatto emergere quella venatura radicale un tempo relegata alle sole componenti rautiane, a frange minoritarie della destra sociale – dove lo stesso Alemanno e prima ancora Giano Accame loderanno i kibbutz israeliani come modelli comunitari che univano socialità e identità nazionale – o dell’estrema destra extraparlamentare.
Ma è il nesso Russia/America quello problematico: FdI è stata accusata dalla stampa liberal di essere, come la Lega di Salvini, putinista e filorussa, e di essere una sorta di agente filorusso nel Parlamento italiano a scapito della sua pretesa di difendere gli interessi nazionali anche per aver fatto più volte un palese endorsement a favore del presidente russo Vladimir Putin. Il 18 marzo 2018, sulla sua pagina Facebook e sul sito del partito, Giorgia Meloni dirà: “Complimenti a Vladimir Putin per la sua quarta elezione a presidente della Federazione russa. La volontà del popolo in queste elezioni russe appare inequivocabile”. Di Putin, come farà la Lega col suo endorsement filorusso, si guarda il suo difendere la famiglia tradizionale, il patriottismo, la difesa delle tradizioni e il decisionismo.
Ma nel programma meloniano non si mette in discussione la Nato. La destra italiana dunque, pur capace di rivedere certe posizioni mediorientali in virtù della difesa della minoranza cristiana in Siria, rivaluta senz’altro Putin, ma sempre guardando positivamente all’integrazione della Federazione Russa nel sistema occidentale che è dominato dagli Stati Uniti d’America, posizione che si è rafforzata con l’ascesa alla Casa Bianca di Donald J. Trump e del filone alt-right capitanato da Steve Bannon, filone che ricorda le riflessioni occidentaliste elaborate dal teorico dell’archeofuturismo Guillaume Faye, ex intellettuale della nouvelle droite francese che ripudiò il “terzomondismo di destra” filoarabo, e che proponeva, contro quell’eurasiatismo che intende interconnettere la massa continentale eurasiatica, con Mosca come perno e comprendente gli stati asiatici, in primis Cina Popolare, India e Iran, l’Eurosiberia, limitarsi a unire i soli popoli bianchi. Ciò non significa, sia chiaro, che FdI è diventata archeofuturista, ma che le recenti riflessioni sinofobiche presenti in FdI e nel Carroccio hanno origini profonde, che pescano dal neoconservatorismo repubblicano e nell’alt-right, rendendo il flirt con Mosca non genuino, ma desideroso di interconnettere l’Eurussia con l’Occidente atlantista; non si spiegherebbe l’elogio a Hezbollah, milizia libanese sciita, e la condanna al regime iraniano di Tehran, anch’esso sciita e legato alla milizia nella lotta al fondamentalismo wahabita e salafita supportato dall’Arabia Saudita e al fianco di Assad e Putin.
Perché l’ascesa di Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni, infatti, passa anche da lì, dalla riconnessione col mondo conservatore trumpista nordamericano, e non solo dal fatto che i consensi schizzati alla doppia cifra, fatto impensabile fino a poco tempo fa, nascevano dal pescare nello stesso elettorato a cui punta la Lega di Matteo Salvini, stabilmente data dai sondaggi sopra il 30%. Non a caso il 5 febbraio 2020, Giorgia Meloni ha presieduto un convegno, il “National Prayer Breakfast”, evento annualmente organizzato dal Partito Repubblicano e a cui partecipò anche il presidente Donald Trump, evento dal tema God, Honor, Country: President Ronald Reagan, Pope John Paul II, and the Freedom of Nations, tenutasi a Roma, a cui hanno preso parte numerose personalità del nazional-conservatorismo occidentale, tra cui Viktor Orbán e Marion Maréchal-Le Pen, nipote della leader populista e fidanzata con l’europarlamentare leghista Vincenzo Sofo, leader de Il Talebano, che organizzò nel 2013 l’incontro fra Matteo Salvini e Alain de Benoist. Organizzato dalla Edmund Burke Foundation e sponsorizzato, tra gli altri, anche dall’associazione Nazione Futura, l’evento è stato inaugurato dal discorso di Giorgia Meloni, accreditandosi come la referente italiana dei conservatori statunitensi, come si nota dal tema dell’incontro, un’esaltazione di figure molto in vista nel pantheon liberalconservatore europeo, compreso il Vaticano stesso, quasi a conferma di una certa critica, moderata va detto, verso Papa Francesco I.
Nel suo intervento, in lingua inglese, Giorgia Meloni ha sottolineato che “la grande sfida della nostra epoca è la difesa delle identità nazionali e dell’esistenza stessa degli Stati come unico strumento di tutela della sovranità e della libertà dei popoli. E il nostro principale nemico è la deriva mondialista di chi reputa l’identità, in ogni sua forma, un male da combattere e agisce per spostare il potere reale dal popolo a entità sovranazionali guidate da presunte élite illuminate”, elogiando “Giovanni Paolo II, il ‘Papa patriota’, [il quale] sapeva perfettamente che le nazioni, l’appartenenza a un popolo, a una memoria storica condivisa, erano il ‘fondamento della libertà di ogni uomo’ e non smise mai di dire che ‘non c’è Europa senza cristianesimo’” e “Ronald Reagan [che] ha rappresentato più di ogni altro Presidente USA, l’America del ‘We the People’; di quel preambolo della Costituzione che fonda la democrazia nazionale dentro il principio della sovranità popolare”.
Peccato, come già detto su queste pagine, che criticare il mondialismo, come a destra vengono definiti i processi di omogeneizzazione occidentalista conseguenti la globalizzazione, lodando una figura come Ronald Reagan, che con Margaret Thatcher inaugurò i processi di liberalizzazione e deregolamentazione dell’economia globale, non solo è contraddittorio, ma è una mistificazione che conferma che le precedenti posizioni sociali, filoarabe e filorusse – tenendo presente che la politica dei dazi alla Cina Popolare, elogiati da FdI, hanno rinsaldato l’asse fra Pechino e Mosca, allontanando ulteriormente quest’ultima da Washington – sono strumentali, e che le nuove direttrici della leader postmissina sono il liberismo, lodato al convegno romano, puntando tutto su “libertà d’impresa, riduzione delle tasse e della burocrazia, investimenti pubblici in infrastrutture, difesa degli interessi nazionali [che] è la ricetta con la quale anche il Presidente Trump oggi sta facendo volare l’economia americana ed è quella che vogliamo portare in Italia e in Europa come alternativa alla cieca austerità” (7).
Ergo, se è vero che esiste culturalmente una destra no global, essa non è in Fratelli d’Italia, che identifica il mondialismo con la sola cultura progressista e non col neoconservatorismo liberista, divenendo funzionale, anche per il recente passato finiano, ai processi di deregolamentazione che hanno gradualmente smantellato le prerogative del welfare state.
1) La riproduzione nel logo di Fratelli d’Italia della fiamma tricolore – presente nello stemma del piccolo Movimento sociale Fiamma tricolore, il partito fondato nel 1995 da Pino Rauti e da quanti si erano opposti, nel Msi, alla svolta di Fiuggi, ma soprattutto nel Front national prima e nel Rassemblament national oggi – è senz’altro scelto per attrarre, oltre all’area moderata nazional-conservatrice, i vecchi militanti di An delusi dal Pdl, nonché frange della destra sociale extraparlamentare ex missina
2) Governo: Meloni (FdI), Renzi sottomesso cerca bollino da Merkel, n. f., ilpaesenuovo.it, 8 marzo 2014
3) M. Ajello, Fratelli d’Italia al congresso di Fiuggi: “Contro l’Irap e contro l’euro”, Il Messaggero, 10 marzo 2014 https://www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/POLITICA/fratelli_italia_meloni_congresso_fiuggi_euro_irap/notizie/565214.shtml
4) FdI propone: “Asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di negozi e uffici e con un sistema di apertura a rotazione nel periodo estivo per le madri lavoratrici. Reddito infanzia con assegno familiare di 400 euro al mese per i primi sei anni di vita di ogni minore a carico. Quoziente familiare in ambito fiscale. Deducibilità del lavoro domestico. Congedo parentale coperto fino all’80% ed equiparazione delle tutele per le lavoratrici autonome. Incentivo alle aziende che assumono neomamme e donne in età fertile. Tutela delle madri lavoratrici e incentivi alle aziende per gli asili nido aziendali. Deducibilità del costo ed eliminazione dell’Iva sui prodotti per la prima infanzia. Intervento sul costo del latte artificiale. Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita”, cfr. Fratelli d’Italia. Il movimento dei patrioti in 15 priorità, programma elettorale del 2018, https://www.fratelli-italia.it/programma.pdf
5) Cfr. F. Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura politica della destra italiana, Bollati Boringhieri, Torino 2005: “La «defascistizzazione retroattiva del fascismo», nota lo storico Emilio Gentile, è un’interpretazione presente in certa pubblicistica moderata, una banalizzazione del fenomeno inaugurata da Indro Montanelli col libro Il buonuomo Mussolini (1947), che intende «togliere al fascismo gli attributi che gli furono propri e che ne caratterizzarono l’individualità propria» dando una «rappresentazione alquanto indulgente, se non proprio benevola, dell’esperienza fascista: una vicenda più comica che tragica, una sorta di istrionica farsa di simulazione collettiva, recitata per venti anni dagli italiani” (E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, p. VII), negando ogni pulsione totalitaria mussoliniana e ‘dimenticando’ i crimini del regime fascista commessi nei Balcani, nelle colonie d’Africa e al fianco dell’alleato tedesco, presentando così Mussolini come un dittatore atipico, ‘paterno’ e capace solo di modernizzare l’Italia
6) F. Pasini, La Meloni che non ti aspetti: “Se in Siria si fa ancora il presepe è anche grazie a Hezbollah”, ilcomizio.it, 12 dicembre 2018, https://www.ilcomizio.it/index.php/politica/28-politica/1506/la-meloni-che-non-ti-aspetti-se-in-siria-si-fa-ancora-il-presepe-e-anche-grazie-a-hezbollah-che-risposta-a-salvini-vi-spieghiamo-i-motivi-di-queste-parole-video
7) Gli estratti dell’intervento di Giorgia Meloni sono stati presi dal portale online di CasaPound Italia Il Primato Nazionale, critico verso tale svolta filoamericana. Cfr. V. Benedetti, Giorgia Meloni sposa il conservatorismo Usa. Questo matrimonio s’ha da fare?, ilprimatonazionale.it, 4 febbraio 2020 https://www.ilprimatonazionale.it/politica/giorgia-meloni-sposa-conservatorismo-usa-144768/