Francesca Albanese, Consiglio ONU per i Diritti Umani
Un documento preciso e rigoroso che dettagliando i singoli eventi da ottobre 2023, legandoli fra loro e contestualizzandoli, mostra come Israele abbia strategicamente invocato la struttura del Diritto Internazionale Umanitario come “mimetizzazione umanitaria” per legittimare la sua violenza a Gaza
Il 25 marzo scorso Francesca Albanese, nominata “Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967” dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU nel marzo 2022, deposita il rapportoA/HRC/55/73, Anatomia di un genocidio,che pubblichiamo con traduzione a cura di Paginauno (qui il Report originale in inglese, con le 309 note a piè di pagina che Albanese include a sostegno di ogni fatto e citazione inseriti, che non riportiamo unicamente per ragioni di spazio https://www.ohchr.org/en/documents/country-reports/ahrc5573-report-special-rapporteur-situation-human-rights-palestinian). È un documento preciso e rigoroso, fondamentale e necessario, perché consente lo sguardo complessivo su ciò che è accaduto, e sta ancora accadendo, nella Striscia di Gaza: contestualizza, svela, mette in ordine e soprattutto lega fra loro i singoli atti, fino a fare emergere la strategia che li muove.
Riepilogo
Dopo cinque mesi di operazioni militari, Israele ha distrutto Gaza. Sono stati uccisi oltre 30.000 palestinesi, tra cui più di 13.000 bambini. Si presume che vi siano oltre 12.000 morti e 71.000 feriti, molti dei quali con mutilazioni che cambiano la vita. Il 70% delle aree residenziali sono state distrutte. L’80% dell’intera popolazione è stata sfollata con la forza. Migliaia di famiglie hanno perso i propri cari o sono state sterminate. Molti non hanno potuto seppellire e piangere i propri parenti, costretti invece a lasciare i propri corpi in decomposizione nelle case, per strada o sotto le macerie. Migliaia di persone sono state detenute e sistematicamente sottoposte a trattamenti inumani e degradanti. L’incalcolabile trauma collettivo sarà vissuto per le generazioni a venire.
Analizzando i modelli di violenza e le politiche di Israele nel suo attacco a Gaza, questo rapporto conclude che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che sia stata raggiunta la soglia che indica che Israele ha commesso un genocidio. Uno dei punti più importanti è che la leadership esecutiva e militare e i soldati israeliani hanno intenzionalmente distorto i principi dello jus in bello, sovvertendo le loro funzioni protettive, nel tentativo di legittimare la violenza genocida contro il popolo palestinese.
1. Introduzione
In questo rapporto, Francesca Albanese, Relatrice Speciale sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (“TPO”) dal 1967, affronta il crimine di genocidio perpetrato dallo Stato di Israele (“Israele”) nei territori occupati, specificamente nella Striscia di Gaza, dal 7 ottobre 2023. Poiché Israele vieta le sue visite, questo rapporto si basa su dati e analisi di organizzazioni sul campo, giurisprudenza internazionale, rapporti investigativi e consultazioni con individui, autorità, società civile ed esperti interessati.
La Relatrice Speciale condanna fermamente i crimini commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi in Israele il 7 ottobre e sollecita la responsabilità e il rilascio degli ostaggi. Il presente rapporto non esamina tali eventi, poiché esulano dall’ambito geografico del suo mandato. Né esamina la situazione in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est.
Da quando ha imposto l’assedio a Gaza nel 2007, rafforzando la chiusura imposta dal 1993, Israele, la potenza occupante, ha effettuato cinque grandi attacchi prima di quello attuale.
Al nono giorno, questo assalto aveva già causato più morti (2.670) della precedente guerra più mortale condotta da Israele contro Gaza, nel 2014 (2.251). Solo una minima parte delle uccisioni di massa, dei danni gravi e delle condizioni spietate e pericolose per la vita inflitte ai palestinesi nei successivi cinque mesi di aggressione, possono essere catturate in questo rapporto.
Esperti indipendenti delle Nazioni Unite, studiosi e Stati, compreso il Sudafrica dinanzi alla Corte internazionale di giustizia (“CIG”), hanno avvertito che gli atti commessi in quest’ultimo assalto potrebbero equivalere a un genocidio. La CIG ha riscontrato un rischio plausibile di “pregiudizio irreparabile” ai diritti dei palestinesi di Gaza, un gruppo protetto dalla Convenzione sul genocidio, e ha ordinato a Israele, tra l’altro, di “adottare tutte le misure in suo potere” per prevenire atti genocidari, prevenire e punire l’incitamento al genocidio e garantire aiuti umanitari urgenti.
A sua difesa, Israele ha sostenuto che la sua condotta è conforme al Diritto Internazionale Umanitario (“DIU”). Una scoperta chiave di questo rapporto è che Israele ha strategicamente invocato la struttura del DIU come “mimetizzazione umanitaria” per legittimare la sua violenza genocida a Gaza.
Il contesto, i fatti e l’analisi presentati in questo rapporto portano alla conclusione che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che sia stata raggiunta la soglia che indica che Israele ha commesso un genocidio. Più in generale, indicano anche che le azioni di Israele sono state guidate da una logica genocida che è parte integrante del suo progetto coloniale di insediamento in Palestina, segnalando una tragedia annunciata.
2. Contestualizzare il genocidio
A. Genocidio inerente al colonialismo di insediamento
Il genocidio, inteso come negazione del diritto di un popolo a esistere e il successivo tentativo o la riuscita nell’annientarlo, comporta varie modalità di eliminazione. Raphael Lemkin, che ha coniato il termine ‘genocidio’, ha osservato che esso è “un insieme di diversi atti di persecuzione o distruzione”, che vanno dall’eliminazione fisica alla “disintegrazione forzata” delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali e della religione di un popolo. Il genocidio è un processo, non un atto.
Gli intenti e le pratiche genocidarie sono parte integrante dell’ideologia e dei processi del colonialismo di insediamento, come illustra l’esperienza dei Nativi Americani negli Stati Uniti, delle Prime Nazioni in Australia o degli Herero in Namibia. Poiché il colonialismo di insediamento mira ad acquisire terre e risorse indigene, la semplice esistenza delle popolazioni indigene rappresenta una minaccia esistenziale per la società dei coloni. La distruzione e la sostituzione delle popolazioni indigene diventano quindi ’inevitabili’, e avvengono attraverso metodi diversi a seconda della minaccia percepita dal gruppo di coloni. Questi includono la rimozione (trasferimento forzato, pulizia etnica), restrizioni ai movimenti (segregazione, carcerazione su larga scala), uccisioni di massa (omicidio, malattia, fame), assimilazione (cancellazione culturale, rimozione di bambini) e prevenzione delle nascite. Il colonialismo dei coloni è una dinamica, un processo strutturale e una confluenza di atti volti a spostare ed eliminare i gruppi indigeni, di cui lo sterminio/annientamento genocida rappresenta il picco.
B. La Palestina e il contesto del genocidio
I modelli storici di genocidio dimostrano che la persecuzione, la discriminazione e altre fasi preliminari preparano il terreno per la fase di annientamento. In Palestina, lo sfollamento e la cancellazione della presenza araba indigena è stata una parte inevitabile della formazione di Israele come ’Stato ebraico’. Nel 1940, Joseph Weitz, capo del Dipartimento di Colonizzazione Ebraica, dichiarò: “Non c’è spazio per entrambi i popoli insieme in questo Paese. L’unica soluzione è la Palestina senza arabi. E non c’è altra via che trasferirli tutti: non deve rimanere nemmeno un villaggio, nessuna tribù”.
Pratiche che portarono alla pulizia etnica di massa della popolazione non ebraica della Palestina si verificarono nel 1947-1949, e di nuovo nel 1967, quando Israele occupò la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza, con sfollamenti di massa di centinaia di migliaia di persone, uccisioni e distruzioni di villaggi e città, saccheggi e negazione del diritto al ritorno dei palestinesi espulsi.
Dal 1967, Israele ha portato avanti il suo progetto coloniale attraverso l’occupazione militare, privando il popolo palestinese del diritto all’autodeterminazione. Questo ha portato alla segregazione e al controllo dei palestinesi, anche attraverso la confisca delle terre, la demolizione delle case, la revoca della residenza e la deportazione. Punendo il loro essere indigeni e il loro rifiuto della colonizzazione, Israele ha interpretato i palestinesi come una “minaccia alla sicurezza” per giustificare la loro oppressione e la “de-civilizzazione”, vale a dire la negazione del loro status di civili protetti.
Israele ha progressivamente trasformato Gaza in un’enclave altamente controllata. A partire dall’evacuazione dei coloni israeliani nel 2005 (a cui l’attuale Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è fermamente opposto), il movimento dei coloni e i leader israeliani hanno inquadrato Gaza come un territorio da “ricolonizzare” e la sua popolazione come invasori da espellere. Queste rivendicazioni illegali sono parte integrante del progetto di consolidamento del “diritto esclusivo e inattaccabile del popolo ebraico” sulla terra del “Grande Israele”, come riaffermato dal Primo ministro Netanyahu nel dicembre 2022.
Questo è il contesto storico nel quale si stanno svolgendo le atrocità a Gaza.
3. Quadro giuridico
La Convenzione del 1948 sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (“la Convenzione”) codifica il genocidio come un crimine internazionale, la cui proibizione è una norma perentoria e non derogabile (jus cogens). L’obbligo erga omnes di prevenire e punire il genocidio vincola tutti gli Stati sia ai sensi della Convenzioneche del diritto internazionale consuetudinario e impone a tutti di prevenire e perseguire atti di genocidio. Il genocidio non può essere giustificato in nessuna circostanza, inclusa la presunta legittima difesa. La complicità è espressamente vietata, dando luogo ad obblighi per Stati terzi.
La CIG e la Corte Penale Internazionale (“CPI”) hanno giurisdizione sul crimine di genocidio, così come i tribunali nazionali. Prima dell’istituzione della CPI, tribunali penali internazionali ad hoc hanno avanzato la loro interpretazione di ciò che costituisce un genocidio, il suo intento e le prove richieste.
A. Elementi costitutivi del genocidio
La Convenzione codifica il genocidio come “qualsiasi atto [specificato] commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale”. Pertanto, il crimine di genocidio comprende due elementi interconnessi:
1. L’actus reus: la commissione di uno o più atti specifici contro un gruppo protetto, vale a dire:
- a. uccidere membri del gruppo;
- b. causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo;
- c. infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale;
- d. imporre misure volte a prevenire le nascite all’interno del gruppo;
- e. trasferimento forzato di bambini del gruppo in un altro gruppo.
2. La mens rea: l’intento dietro la commissione di uno o più dei suddetti atti menzionati che devono essere stabiliti, che comprende due elementi intrecciati:
- a. un’intenzione generale di compiere atti criminali (dolus generalis), e
- b. un’intenzione specifica di distruggere il gruppo bersaglio in quanto tale (dolus specialis).
Entrambe le componenti devono essere soddisfatte affinché la condotta costituisca legalmente un genocidio. L’intento dell’autore di distruggere il gruppo in tutto o in parte, distingue gli atti di genocidio da altri crimini internazionali. L’intento specifico può essere stabilito da prove dirette, per esempio dichiarazioni dell’alto comando o documenti ufficiali, o desunti da modelli di condotta.
In quest’ultimo caso, i modelli di condotta o il modo in cui gli atti vengono perpetrati devono essere tali da “indicare soltanto l’esistenza di tale intento [genocida]”, e l’esistenza dell’intento risulta “l’unica deduzione che potrebbe ragionevolmente essere disegnata”.
La prova del risultato è necessaria per stabilire la commissione di tre degli atti sottostanti (uccisione, inflizione di danni e trasferimento di bambini). Per i restanti due atti (imposizione di condizioni calcolate per distruggere il gruppo e impedimento delle nascite), la soglia probatoria richiede la prova dell’intenzione di raggiungere un determinato risultato, piuttosto che il suo raggiungimento. Di conseguenza, se losfollamento, la pulizia etnica o la deportazione di massa vengono perpetrati con l’intento di distruggere il gruppo protetto in quanto tale, ciò può equivalere a un genocidio. Allo stesso modo, queste azioni di sfollamento possono anche essere la prova di uno specifico intento genocida.
B. Responsabilità dello Stato e responsabilità penale individuale
Il crimine di genocidio dà luogo a responsabilità sia individuale che statale. La Convenzione sottolinea la necessità di una responsabilità individuale dinanzi ai tribunali nazionali o internazionali, indipendentemente da qualsiasi ruolo ufficiale ricoperto dall’autore del reato. La responsabilità penale individuale deriva dal coinvolgimento diretto nel commettere, tentare, cospirare, incitare direttamente e pubblicamente, pianificare, istigare, ordinare e aiutare e favorire (complicità in) atti genocidi, che richiedono un intento specifico di contribuire alla distruzione del gruppo bersaglio. Ciò implica la conoscenza della possibilità che un atto provochi la distruzione totale o parziale del gruppo. Il genocidio fa sorgere la responsabilità dello Stato quando un individuo ha commesso un genocidio esercitando l’autorità statale; in questo caso la condotta dell’individuo è imputabile allo Stato.
4. Atti genocidari a Gaza
Gli atti di genocidio possono includere azioni o omissioni deliberate, inclusa la mancata protezione del gruppo da eventuali danni. Le prove presentate nelle sezioni seguenti suggeriscono che Israele ha commesso almeno tre degli atti vietati dalla Convenzione.
A. “Uccidere membri del gruppo”
Questo atto comprende le morti derivanti da azioni dirette o da negligenza, comprese quelle causate da fame deliberata, malattia o altre condizioni di pericolo di sopravvivenza imposte al gruppo.
Dal 7 ottobre, Israele ha ucciso oltre 30.000 palestinesi a Gaza, pari a circa l’1,4% della sua popolazione, attraverso armi letali e imposizione deliberata di condizioni di pericolo di vita. Alla fine di febbraio risultavano dispersi altri 12.000 palestinesi, presumibilmente morti sotto le macerie.
Durante i primi mesi della campagna, l’esercito israeliano ha impiegato oltre 25.000 tonnellate di esplosivo (equivalenti a due bombe nucleari) su innumerevoli edifici, molti dei quali sono stati identificati come obiettivi dall’intelligenza artificiale. Israele ha utilizzato munizioni non guidate (“bombe stupide”) e bombe “bunker buster” da 2.000 libbre su aree densamente popolate e “zone sicure”. Nelle prime settimane, le forze israeliane uccidevano circa 250 persone al giorno, di cui 100 bambini, in attacchi che hanno annientato interi quartieri e infrastrutture essenziali. Migliaia di persone sono state uccise dai bombardamenti, dal fuoco dei cecchini o da esecuzioni sommarie; altre migliaia sono state uccise mentre fuggivano lungo rotte e in aree dichiarate “sicure” da Israele. Tra le vittime figuravano 125 giornalisti e 340 medici, infermieri e altri operatori sanitari (il 4% del personale sanitario di Gaza), studenti, accademici, scienziati e i loro familiari.
Il 70% dei decessi registrati sono sempre stati donne e bambini. Israele non è riuscito a dimostrare che il restante 30%, ovvero i maschi adulti, fossero combattenti attivi di Hamas – una condizione necessaria affinché possano essere presi di mira legalmente. All’inizio di dicembre, i consiglieri per la sicurezza israeliani dichiararono l’uccisione di “7.000 terroristi”, in una fase della campagna in cui erano stati identificati meno di 5.000 maschi adulti in totale tra le vittime, suggerendo così che tutti i maschi adulti uccisi fossero “terroristi”. Ciò è indicativo dell’intento di prendere di mira indiscriminatamente i membri del gruppo protetto, assimilandoli allo status di combattente attivo per impostazione predefinita.
Inoltre, l’inasprimento del blocco di Gaza da parte di Israele ha causato morti per fame, tra cui 10 bambini al giorno, impedendo l’accesso a forniture vitali. La mancanza di igiene e i rifugi sovraffollati potrebbero causare più morti dei bombardamenti, avendo creato “la tempesta perfetta per le malattie”. Un quarto della popolazione di Gaza potrebbe morire entro un anno a causa di condizioni sanitarie prevenibili.
B. “Causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo”
Questo atto deve comportare “uno svantaggio grave e a lungo termine per la capacità di una persona di condurre una vita normale e costruttiva”. Il danno non deve necessariamente essere permanente o irrimediabile, e può essere procurato da varie cause come la tortura , trattamenti inumani o degradanti, violenza sessuale, persecuzione, deportazione o altre condizioni “intese a provocare il degrado delle vittime e la privazione dei loro diritti, a sopprimerle e a causare sofferenze inumane e torture”.
Dal 7 ottobre i palestinesi soffrono incessanti sofferenze fisiche e psicologiche. Molti hanno sopportato violenze e privazioni, inclusa una grave fame.
Le forze israeliane hanno arrestato migliaia di palestinesi, per lo più uomini e ragazzi, spesso rifiutandosi di rivelare dove si trovassero. Molti di loro sono stati gravemente maltrattati, anche attraverso la tortura che a volte ha portato alla morte.
Le armi e i metodi letali di Israele hanno ferito settantamila palestinesi, molti con ferite dolorose, che in alcuni casi hanno portato a menomazioni a lungo termine o alla morte.
Causando gravi carenze di forniture mediche, inclusi antibiotici e disinfettanti, le azioni di Israele hanno portato a procedure sanitarie pericolose, come amputazioni senza anestetici, anche sui bambini. Ciò ha anche impedito la somministrazione di trattamenti salvavita a persone con patologie, comprese le malattie croniche.
I sopravvissuti porteranno un trauma indelebile, essendo stati testimoni di tanta morte e aver sperimentato distruzione, mancanza di casa, perdita emotiva e materiale, umiliazione e paura senza fine. Tali esperienze includono la fuga nel caos della guerra senza telecomunicazioni ed elettricità; assistere alla distruzione sistematica di interi quartieri, case, università, monumenti religiosi e culturali; scavare tra le macerie, spesso a mani nude, alla ricerca dei propri cari; vedere corpi profanati; essere rastrellati, denudati, bendati e sottoposti a tortura e ad altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti; e, infine, morire di fame, sia adulti che bambini.
La ferocia dell’ultimo assalto di Israele è meglio illustrata dal tormento inflitto ai bambini di tutte le età, uccisi o salvati da sotto le macerie, mutilati, orfani, molti dei quali senza famiglia sopravvissuta. Considerando l’importanza dei bambini per lo sviluppo futuro di una società, infliggere loro gravi danni fisici o mentali può essere ragionevolmente “interpretato come un mezzo per distruggere il gruppo in tutto o in parte”.
C. “Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale”
Questo atto comporta una condotta che non uccide direttamente i membri del gruppo, ma è in grado di portare, con vari mezzi, alla sua distruzione fisica. Questi mezzi possono includere la fame, la disidratazione, losfollamento forzato, la distruzione di oggetti indispensabili per la sopravvivenza, riducendo i servizi medici essenziali al di sotto del requisito minimo, privando di alloggio, vestiti, istruzione, lavoro e igiene.
A metà dicembre, le bombe e i proiettili israeliani avevano distrutto o gravemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture di sostentamento vitale, compreso il 77% delle strutture sanitarie, il 68% delle infrastrutture di telecomunicazione, un gran numero di servizi municipali (72), siti commerciali e industriali (76), quasi la metà di tutte le strade, oltre il 60% delle 439.000 case di Gaza, il 68% degli edifici residenziali, tutte le università, il 60% di altre strutture educative, comprese 13 biblioteche. Israele ha anche distrutto almeno 195 siti del patrimonio culturale, 208 moschee, 3 chiese e gli archivi centrali di Gaza (150 anni di storia). Alla fine di gennaio, oltre un milione di civili erano stati sfollati con la forza verso sud, con le loro città devastate.
Sedici anni di blocco avevano già trasformato Gaza in un’enclave isolata, densamente popolata, impoverita e quasi “inabitabile”, quando, il 9 ottobre 2023, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, annunciò un “assedio completo… senza elettricità, senza cibo, senza acqua, niente carburante”. Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz (allora ministro dell’Energia) è andato oltre: “Aiuti umanitari a Gaza? Non verrà acceso nessun interruttore elettrico, non verrà aperto nessun idrante dell’acqua». Negare deliberatamente i beni essenziali a una popolazione già assediata era destinato a causare morti “più silenziose di quelle causate dalle bombe”.
L’assedio totale e i bombardamenti a tappeto quasi costanti, insieme agli ordini draconiani di evacuazione e alle “zone sicure” in continuo cambiamento, hanno creato una catastrofe umanitaria senza precedenti. Oltre 1,7 milioni di palestinesi sono stati sfollati e costretti in rifugi sovraffollati dell’UNRWA e in quartieri angusti nel sud di Gaza, sistematicamente presi di mira dall’esercito israeliano, e successivamente in rifugi di fortuna.
L’assalto di Israele ha decimato il già fragile sistema sanitario di Gaza. Gli ospedali, che ospitano anche i palestinesi sfollati, sono stati sopraffatti. Prendendo di mira deliberatamente gli ospedali, attacchi aerei e terrestri li hanno gradualmente trasformati in zone di morte. I soldati israeliani hanno occupato gli ospedali, circondandoli con carri armati e (droni-)cecchini. Al 12 febbraio, solo 11 dei 36 ospedali e il 17% dei centri sanitari primari erano funzionanti, appena parzialmente. I soldati israeliani hanno arrestato, maltrattato e torturato personale medico, pazienti e sfollati, e li hanno costretti, compresi i bambini prematuri, a lasciare gli ospedali, in alcuni casi causando la morte di bambini. I medici rimasti hanno lavoravano notte e giorno, prendendo “decisioni impossibili” sui pazienti da trattare in base alle possibilità di sopravvivenza.
L’invasione terrestre e i bombardamenti aerei hanno distrutto terreni agricoli, fattorie, raccolti, animali e attività di pesca, minando gravemente i mezzi di sussistenza delle persone, l’ambiente e il sistema agricolo.
Dall’8 al 21 ottobre, Israele ha impedito l’ingresso di qualsiasi aiuto a Gaza, concedendone successivamente importi deplorevolmente inadeguati, in gran parte confinati al sud. Nessuna fornitura di carburante è stata consegnata fino al 18 novembre. A gennaio, gli attacchi guidati da Israele contro l’UNRWA, la principale agenzia che fornisce un’ancora di salvezza a Gaza, ha portato diversi Stati a sospendere i pagamenti a essa destinati, aggravando ulteriormente la situazione umanitaria.
Entro il 7 dicembre, oltre il 90% dei residenti di Gaza soffriva di grave insicurezza alimentare. Entro febbraio 2024, i palestinesi intrappolati nel nord di Gaza sono ricorsi all’uso di cibo per animali ed erba per il sostentamento, con un aumento delle morti per fame. Tra metà gennaio e fine febbraio, l’ONU ha registrato numerosi attacchi contro palestinesi in cerca di aiuto.
Anche la fornitura di acqua è stata gravemente colpita. La scarsità di carburante ha ostacolato i servizi igienico-sanitari, spingendo le persone a utilizzare acqua contaminata da liquami, rifiuti solidi e acqua di mare.
L’impatto di queste condizioni sui bambini è ben noto: a Gaza il rischio di morire di fame, con migliaia di persone che soffrono di deperimento, è già una realtà terribile e tangibile.
Queste condizioni create dall’uomo hanno messo a rischio circa 50.000 donne palestinesi incinte e 20.000 neonati, e hanno aumentato gli aborti fino al 300%.
Gaza è stata completamente saccheggiata. L’incessante attacco da parte di Israele a tutti i mezzi di sopravvivenza di base ha compromesso la capacità dei palestinesi della Striscia di vivere su quella terra. Questo collasso architettato delle infrastrutture di sostentamento corrisponde alle intenzioni dichiarate di rendere Gaza “permanentemente impossibile da vivere” dove “nessun essere umano può esistere”.
5. Intento genocida
La definizione di genocidio richiede la commissione di uno qualsiasi degli atti elencati con un intento specifico. Deve essere accertato che l’autore del reato, commettendo uno o più degli atti vietati, mira a raggiungere la distruzione totale o parziale di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale. Questo intento deve essere dimostrato attraverso mezzi diretti o prove indirette.
Poiché il genocidio è un crimine organizzato, la cui commissione implica invariabilmente una dimensione collettiva, la prova di un piano statale, anche attraverso dichiarazioni e affermazioni di funzionari statali, è solitamente decisiva per stabilire un intento diretto.
La prova dell’intento indiretto può essere dedotta da fatti o circostanze, compreso il contesto generale degli atti o delle omissioni, la portata delle atrocità, la presa di mira sistematica delle vittime in base alla loro affiliazione a un particolare gruppo, la perpetrazione di altri “atti colpevoli” diretti contro il gruppo, o la ripetizione di atti distruttivi e discriminatori. La CPI richiede che tali fatti o circostanze avvengano “nel contesto di un modello manifesto di condotta simile diretta contro il gruppo o […] condotta che potrebbe essa stessa provocare tale distruzione”. I tribunali internazionali hanno anche stabilito che l’intento indiretto può consistere in un modello manifesto di condotta simile, nel tempo. La sistematicità con cui vengono commessi atti di genocidio implica un certo grado di “piano o policy pianificata”.
La natura e la portata delle atrocità, se provatamente in grado di raggiungere un risultato genocida, sono una forte prova dell’intento. Le parole delle autorità statali, compreso il linguaggio disumanizzante, combinate con gli atti, sono considerate una base indiziaria da cui si può dedurre l’intento. La disumanizzazione può essere intesa come fondamentale per il processo di genocidio. Le prove del contesto possono aiutare a determinare l’intento e devono essere considerate insieme alla condotta effettiva: l’intento dovrebbe essere evidente soprattutto dalle parole e dagli atti e dai “modelli di azione intenzionale”, in modo tale che non si possa ragionevolmente trarre nessun’altra deduzione.
Nell’ultimo assalto a Gaza, la prova diretta dell’intento genocida è presente in maniera unica. La retorica genocida al vetriolo ha dipinto l’intera popolazione come il nemico da eliminare e sfollare con la forza. Funzionari israeliani di alto rango con autorità di comando hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche strazianti che dimostrano intenti genocidi, tra cui quanto segue:
- a) il Presidente Isaac Herzog ha dichiarato che “un’intera nazione là fuori… è responsabile” dell’attacco del 7 ottobre e che Israele “spezzerà loro la spina dorsale”;
- b) il Primo ministro Benjamin Netanyahu si riferiva ai palestinesi come “Amalek” e “mostri”. Il riferimento ad Amalek è a un passaggio biblico in cui Dio comanda a Saulo: “Ora va’ e colpisci Amalek e distruggi completamente tutto ciò che hanno, e non risparmiarli; ma uccidi uomo e donna, bambino e lattante, bue e pecora, cammello e asino”;
- c) il ministro della Difesa Yoav Gallant ha definito i palestinesi “animali umani”, e ha annunciato la “piena offensiva” su Gaza, avendo “sciolto tutti i vincoli”, e che “Gaza non tornerà mai più a quello che era”;
- d) il portavoce dell’IDF Daniel Hagari ha affermato che l’attenzione dovrebbe concentrarsi sul causare “il massimo danno”, dimostrando una strategia di violenza sproporzionata e indiscriminata;
- e) il ministro dell’Agricoltura Avi Dichter ha definito l’azione di Israele “la Nakba di Gaza”;
- f) il ministro del Patrimonio Amihai Eliyahu ha chiesto di colpire Gaza con le “bombe nucleari”;
- g) il deputato del Likud Revital Gottlieb ha scritto sui suoi social media: “Abbattere gli edifici!! Bombardare senza distinzione!!… Appiattire Gaza. Senza pietà! Questa volta non c’è spazio per la misericordia!”.
Tali appelli alla violenza annientatrice diretta alle truppe in servizio, costituiscono una forte prova di incitamento diretto e pubblico a commettere un genocidio. Decenni di discorsi disumanizzanti dei palestinesi hanno preparato il terreno per tali incitamenti.
Dal 7 ottobre, il proliferare di dichiarazioni che incitano al genocidio ha coinvolto anche diversi settori della società israeliana, leader religiosi, giornalisti, artisti, e diversi professionisti (tra cui medici e commentatori politici).
Esistono prove convincenti che queste dichiarazioni sono state interiorizzate e messe in atto dalle truppe sul campo. I soldati israeliani, anche sui canali di social media gestiti dall’esercito israeliano, si sono riferiti ai palestinesi come “terroristi”, “scarafaggi”, “ratti”, e hanno ripetuto frasi espresse dai leader politici, invocando che “non ci sono ‘civili non coinvolti’”, chiedendo anche la costruzione di insediamenti a Gaza, “occupando Gaza… spazzando via il seme di Amalek”, vantandosi di aver ucciso “famiglie, madri e bambini”, umiliando palestinesi detenuti, facendo esplodere dozzine di case, distruggendo interi quartieri residenziali, e profanando cimiteri e luoghi di culto.
Il Primo ministro e il Presidente israeliano hanno affermato che Israele stava combattendo a nome di “tutti gli Stati civili e… i popoli”, “una barbarie che non trova posto nel mondo moderno”, che “sradicheranno il male e sarà un bene per l’intera regione e per il mondo”. Questa retorica razzista fa eco a quella di altre potenze coloniali e cerca di interpretare la violenza genocida di Israele come legittima alla luce del presunto carattere “barbaro” e “pre-moderno”.
6. Camuffamento umanitario: distorcere le leggi di guerra per nascondere intenti genocidari
Una caratteristica fondamentale della condotta di Israele dal 7 ottobre è stata l’intensificazione della decivilizzazione dei palestinesi, un gruppo protetto dalla Convenzione. Israele ha utilizzato terminologia del Diritto Internazionale Umanitario (DIU) per giustificare l’uso sistematico della violenza letale contro i civili palestinesi come gruppo, e la distruzione su larga scala delle infrastrutture di sostentamento vitale. Israele ha fatto ciò impiegando concetti di diritto internazionale umanitario come scudi umani, danni collaterali, zone sicure, evacuazioni e protezione medica, in modo così permissivo da sventrare questi concetti del loro contenuto normativo, sovvertendo il loro scopo protettivo e, in ultima analisi, erodendo la distinzione tra civili e combattenti nelle azioni israeliane a Gaza.
Le dichiarazioni ufficiali si sono tradotte in una condotta militare che ripudia il concetto stesso di protezione civile. Israele ha così alterato radicalmente l’equilibrio raggiunto dal DIU tra protezione civile e necessità militare, nonché le consuete regole di distinzione, proporzionalità e precauzione. Ciò ha oscurato un principio fondamentale del DIU: gli attacchi indiscriminati, che non distinguono gli obiettivi militari dalle persone e dai beni protetti, non possono essere proporzionati e sono sempre illegali.
Sul terreno, questa distorsione del diritto internazionale umanitario articolata da Israele come politica statale nei suoi documenti ufficiali, ha trasformato un intero gruppo nazionale e il suo spazio abitato in un obiettivo distruttibile, rivelando una condotta delle ostilità eliminazionista. Ciò ha avuto effetti devastanti, costando la vita a decine di migliaia di civili palestinesi, distruggendo il tessuto strutturale della vita a Gaza e causando danni irreparabili. Questo illustra un chiaro modello di condotta da cui l’intento genocida richiesto è l’unica deduzione ragionevole da trarre.
A. Gli scudi umani e la logica del genocidio
Il DIU vieta severamente l’uso di scudi umani. Il loro utilizzo costituisce un crimine di guerra, in quanto vìola il dovere di proteggere la popolazione civile dai pericoli derivanti dalle operazioni militari. Quando vengono utilizzati scudi umani, la parte attaccante deve tenere conto del rischio per i civili. Il danno indiscriminato o sproporzionato ai civili rimane illegale e la popolazione civile non può essere mai presa di mira.
Israele ha accusato i gruppi armati palestinesi di utilizzare deliberatamente i civili come scudi umani nelle precedenti aggressioni a Gaza (incluse quelle del settembre 2008, 2012, 2014, 2021 e 2022). Ha usato questa accusa anche per giustificare l’elevato numero di vittime civili e gli attacchi contro paramedici, giornalisti e altri, durante la “Grande Marcia del Ritorno” del 2018-2019. Missioni indipendenti di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite e rispettabili organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente contestato queste accuse, concludendo in alcuni casi che le prove di scudi umani erano state fabbricate. Ciononostante, Israele ha utilizzato queste accuse – talvolta poi ritrattate – per giustificare l’uccisione diffusa e sistematica di civili palestinesi nel corso del suo assalto.
Dopo il 7 ottobre, questa macro-caratterizzazione dei civili di Gaza come una popolazione di scudi umani ha raggiunto livelli senza precedenti, con i leader politici e militari di alto rango di Israele che costantemente inquadrano i civili come agenti di Hamas, “complici”, o scudi umani tra i quali Hamas è “embedded”. A novembre, il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha definito “i residenti della Striscia di Gaza come scudi umani” e ha accusato Hamas di usare “la popolazione civile come scudo umano”. Il Ministero definisce i gruppi armati che combattono nelle aree cittadine deliberatamente “embedded” nella popolazione, a tal punto che “non si può concludere che un attacco sia stato illegale per il semplice fatto che coloro che apparentemente sembrano ‘civili’ o ‘oggetti civili’ so-no stati presi di mira”. Due elementi retorici di questo documento politico-giuridico chiave indicano l’intenzione di trasformare l’intera popolazione di Gaza e le sue infrastrutture di vita in uno scudo ‘legittimo’ da prendere di mira: l’uso del termine inglobante, combinato con le virgolette per qualificare civili e oggetti civili. Israele ha quindi cercato di camuffarel’intento genocida con il gergo del diritto umanitario.
Il diritto internazionale non consente l’affermazione generica secondo cui una forza opposta sta utilizzando l’intera popolazione come scudi umani in blocco. Qualsiasi utilizzo di questo tipo deve essere valutato e stabilito caso per caso prima di ogni singolo attacco. Il reato di utilizzo di scudi umani si verifica quando l’uso di civili o di oggetti civili per impedire attacchi contro obiettivi legittimi è il risultato di una deliberata tattica, che non deriva semplicemente dalla natura del campo di battaglia, come nel caso delle ostilità in terreni urbani densamente popolati.
Ciononostante, le autorità israeliane hanno caratterizzato le chiese, le moschee, le scuole, strutture delle Nazioni Unite, università, ospedali e ambulanze collegati ad Hamas, per rafforzare la percezione di una popolazione caratterizzata come ampiamente “complice” e quindi uccidibile. Un numero significativo di civili palestinesi sono definiti scudi umani semplicemente perché si trovavano nella “vicinanza” di potenziali obiettivi israeliani. Israele ha così trasformato Gaza in un “mondo senza civili” in cui “tutto, dal rifugiarsi negli ospedali alla fuga per mettersi in salvo, è dichiarato una forma di schermatura umana”. L’accusa di utilizzo di scudi umani è quindi diventata un pretesto, per giustificare l’uccisione di civili sotto il manto di una presunta legalità, la cui pervasività onnicomprensiva ammette solo intenti genocidi.
B. Trasformare Gaza nel suo complesso in un “obiettivo militare”
Il diritto internazionale stabilisce che gli attacchi devono essere “strettamente limitati” a quegli oggetti che “per la loro natura, ubicazione, scopo o utilizzo contribuiscono efficacemente all’azione militare”, la cui “distruzione, cattura o neutralizzazione totale o parziale” nelle circostanze del momento “deve offrire un chiaro vantaggio militare”.
Israele ha abusato di questa regola per “militarizzare” oggetti civili e tutto ciò che li circonda, giustificandone la distruzione indiscriminata. Secondo il Ministero degli Affari Esteri israeliano, “molti oggetti apparentemente civili potrebbero diventare obiettivi legittimi”, perdendo la loro protezione ai sensi del diritto internazionale umanitario o diventare un danno “collaterale” a seguito delle scelte di Hamas. La popolazione civile e le infrastrutture di Gaza sono presentate come ostacoli posizionati tra, davanti e sopra gli obiettivi. Invece di attenersi alle determinazioni circostanziali dello status in linea con il DIU per ogni attacco intrapreso, come richiesto, Israele ha caratterizzato l’intero territorio come un obiettivo militare.
I beni civili protetti possono perdere la loro immunità dagli attacchi se e finché vengono utilizzati dai combattenti nelle ostilità. Tuttavia, Israele considera qualsiasi oggetto che sia stato o potrebbe essere utilizzato militarmente come un obiettivo legittimo, cosicché interi quartieri possano essere rasi al suolo o demoliti in base a finzioni di legalità. Nella logica israeliana, gli oggetti civili, come case e appartamenti, diventano obiettivi militari per prossimità, come se lo status di bersaglio ‘legittimo’ si diffondesse nelle vicinanze per ‘contagio virale’. Per esempio, i grattacieli residenziali, ciascuno composto da decine di piani e centinaia di appartamenti (funzionalmente separati e utilizzabili autonomamente), diventerebbero obiettivi militari nella loro interezza se un singolo appartamento o stanza fosse stato presumibilmente utilizzato da gruppi armati.
Esempi paradigmatici sono i “power targets”, che comprendono qualsiasi oggetto civile, compresi gli edifici residenziali, con il pretesto che “Hamas è ovunque a Gaza”. Interi edifici a più piani sono stati rasi al suolo mentre erano pieni di civili, consapevolmente uccidendo centinaia di persone in un solo attacco. L’attacco alla torre Al-Taj a Gaza City, bombardato il 25 ottobre, ha ucciso 101 persone, tra cui 44 bambini e 37 donne, e ne ha ferite centinaia.
Israele ha così di fatto abolito la distinzione tra obiettivi civili e obiettivi militari. Nelle prime tre settimane dell’offensiva, intere aree residenziali nel nord di Gaza sono state rase al suolo. Nel frattempo, i quartieri nelle “aree sicure” nel sud erano già stati bombardati. A novembre, la devastazione delle città nel nord di Gaza ha superato di gran lunga quella di Dresda nel 1945.
Razionalizzare i modelli di attacco contro obiettivi civili, uccidendo consapevolmente civili in massa, è diventata una strategia militare basata su probabili crimini di guerra presentati come rispettosi del diritto internazionale umanitario. Questa strategia implica ragionevolmente ed esclusivamente una politica genocida.
C. Uccisione indiscriminata come “danno collaterale”
Israele ha anche cercato di fornire copertura legale per attacchi indiscriminati utilizzando impropriamente la nozione di “danno collaterale”, espandendo illimitatamente ciò che può essere considerato “danno civile accidentale”. Esempi di attacchi indiscriminati includono attacchi che, con qualsiasi metodo o mezzo, colpiscono più obiettivi legali contemporaneamente in aree con elevate concentrazioni di civili o beni civili. Per giustificare l’uccisione di membri del gruppo protetto, Israele ha sostenuto che tali azioni causano solo danni accidentali ai civili, proporzionati ai vantaggi militari concreti e diretti previsti.
Invocando il concetto di “danno collaterale proporzionato” per bombardare consapevolmente un gran numero di membri del gruppo protetto, Israele afferma che quando gli attacchi provocano danni collaterali maggiori del previsto, ciò non indica necessariamente una violazione, poiché “l’osservanza è orientata al comportamento, non al risultato».
Tuttavia, in tutti gli attacchi lanciati contro le torri residenziali senza preavviso, si prevedeva come risultato principale ingenti danni civili. L’edificio Al-Taj era pieno di famiglie al momento dell’attacco del 31 ottobre, che probabilmente avrebbe ucciso o ferito tutti i civili che vivevano lì. Il fatto che siano state uccise così tante persone era del tutto prevedibile – quindi almeno indirettamente voluto – com’è evidente dalle immagini che lo stesso esercito israeliano ha pubblicato. L’attacco al campo profughi di Jabalia il 25 ottobre ha ucciso almeno 126 civili, tra cui 69 bambini, e ne ha feriti altri 280. Il personale militare israeliano ha affermato che l’obiettivo era un comandante di Hamas in una base sotterranea.
Affinché una valutazione della proporzionalità sia legittima, deve innanzitutto essere rispettato il principio di distinzione, altrimenti il danno civile previsto da un attacco cessa di essere una conseguenza incidentale e non intenzionale dell’attacco stesso. Sebbene sia gli attacchi indiscriminati che quelli sproporzionati sembrino essere stati commessi sistematicamente e ripetutamente nel corso dell’ultima campagna israeliana, il fatto che entrambi i tipi di attacchi illegali siano stati costantemente considerati leciti da Israele, suggerisce che esso operi secondo una politica di condono delle uccisioni di massa.
Secondo il diritto internazionale umanitario, il vantaggio militare concreto e diretto atteso da un singolo attacco deve essere valutato rispetto al prevedibile danno incidentale ai civili e ai beni civili. Tuttavia, nelle sue forzate valutazioni di proporzionalità, il Ministero degli Affari Esteri israeliano afferma che “il vantaggio militare […] può riferirsi al vantaggio militare previsto” non da un’azione militare specifica ma “da un’operazione nel suo insieme”, alludendo allo scopo complessivo della guerra.
Le valutazioni di proporzionalità di Israele hanno violato i requisiti legali definendo il vantaggio militare, in ogni attacco, in relazione alla distruzione dell’intera organizzazione di Hamas, sia politicamente che militarmente. È manifestamente illegale dichiarare come obiettivo di guerra la distruzione della capacità politica della controparte (in particolare nel contesto di un’occupazione militare di 56 anni che priva la popolazione occupata del diritto all’autodeterminazione). Ma quando tale scopo complessivamente ‘politico’ di guerra viene preso come valore rispetto al quale la proporzionalità deve essere misurata in relazione al danno previsto ai civili, non vi è praticamente alcuna entità del danno civile atteso che possa mai essere considerata “eccessiva” fintantoché l’obiettivo politico illegittimo, come definito dall’aggressore, non viene raggiunto. In questo contesto, l’uccisione indiscriminata di persone protette e la distruzione di beni protetti saranno sempre rappresentate, da parte dell’aggressore, come un danno incidentale “proporzionato”, nonostante la sua manifesta illegalità.
Presentare la violenza letale indiscriminata contro il gruppo protetto come un ‘mezzo proporzionato’ per perseguire gli obiettivi della guerra, indica l’intento di prendere di mira la popolazione palestinese nel suo insieme, in linea con le dichiarazioni genocide che annunciano la campagna. In altre parole, Israele sembra presentare se stesso come portatore di un ‘genocidio proporzionato’.
D. Evacuazioni e zone sicure
Secondo il diritto internazionale umanitario, le parti in conflitto devono evacuare la popolazione civile e rimuovere i beni civili dalle vicinanze degli obiettivi militari. Le evacuazioni sono ammissibili, purché non spostino le persone protette fuori dal territorio occupato; le persone evacuate devono essere trasferite nelle lorocase non appena le ostilità nell’area in questione siano cessate. Gli sfollati, i feriti e i malati dovrebbero essere protetti attraverso la creazione di “zone ospedaliere e di sicurezza” – chiamate anche “aree di sicurezza” o “zone sicure” – che dovranno “essere lontane dalle operazioni militari” e stabilite attraverso un accordo tra le parti.
L’ordine di evacuazione di massa del 13 ottobre – quando a 1,1 milioni di palestinesi è stato ordinato di evacuare il nord di Gaza in 24 ore verso le “zone sicure” designate da Israele nel sud – è stato comunicato attraverso almeno 23 diversi volantini lanciati da aerei, post sui social media, messaggi di testo e messaggi telefonici registrati. Invece di aumentare la sicurezza per i civili, la vastità delle evacuazioni nel mezzo di un’intensa campagna di bombardamenti e il sistema di zone sicure comunicato in modo casuale, insieme a prolungati blackout delle comunicazioni, hanno aumentato il livello di panico, gli sfollamenti forzati e le uccisioni di massa.
Immediatamente dopo gli ordini di evacuazione del 13 ottobre e la trasformazione del sud di Gaza in un’apparente “zona sicura”, Israele ha illegalmente classificato gli abitanti rimasti del nord di Gaza (compresi i malati e i feriti) come “scudi umani” e “complici” del terrorismo. Questa politica evidenzia l’intenzione di Israele di ‘trasformare’ centinaia di migliaia di civili in obiettivi militari ‘legittimi’ o vittime collaterali, attraverso ordini di evacuazione impossibili da eseguire. L’ordine di evacuazione di massa comprendeva incredibilmente 22 ospedali della zona, mettendo a rischio più di 2.000 pazienti e sfollati che si rifugiavano nei nosocomi e privando coloro che restavano dei servizi di sostentamento.
La cancellazione delle protezioni civili nell’area evacuata è stata combinata con il targeting indiscriminato degli sfollati e degli abitanti delle aree designate come zone sicure. Dall’inizio del suo assalto, Israele ha bombardato perfidamente le aree designate come “sicure”, provocando perdite significative. Delle circa 500 bombe da 2.000 libbre sganciate da Israele nelle prime sei settimane di ostilità, il 42% è stato lanciato nelle zone sicure designate nelle aree meridionali. Israele ha preso di mira il sud di Gaza anche con altre munizioni aeree, marittime e terrestri, provocando la distruzione su larga scala di aree civili nelle “zone sicure”.
Al 28 ottobre, due settimane dopo l’ordine di evacuazione di massa da parte di Israele, circa il 38% delle uccisioni a Gaza è avvenuto nelle aree a sud, dichiarate sicure, di Wadi Gaza. Al 20 novembre, il 34% di tutti i palestinesi uccisi nella Striscia si trovava in quest’area, e al 22 gennaio il 42%; un’area che all’epoca ospitava la maggioranza della popolazione di Gaza. In parole povere, le “aree sicure” sono state deliberatamente trasformate in aree di uccisioni di massa.
Modelli simili emergono dalla militarizzazione da parte di Israele dei “corridoi umanitari”, che ha chiesto alla popolazione di utilizzare per evacuare e raggiungere le aree sicure. In contrasto con la retorica umanitaria attraverso la quale venivano annunciati questi “percorsi sicuri”, questi corridoi venivano sistematicamente e perfidamente presi di mira da bombardamenti, cannoneggiamenti e dal fuoco dei cecchini, diventando “corridoi della morte”. Israele ha istituito posti di blocco per scansioni facciali e controlli di identità, dove i palestinesi in fuga venivano spesso detenuti e successivamente maltrattati e torturati.
Alla fine di novembre, il bilancio delle vittime palestinesi ha raggiunto quota 15.000. In risposta alle crescenti critiche internazionali, l’esercito israeliano ha riconfigurato i suoi meccanismi di evacuazione, introducendo un nuovo strumento “umanitario”: la “griglia di evacuazione”. L’esercito ha pubblicato sui social media una mappa a griglia che divideva Gaza in 600 isolati e indicava le aree da “evacuare” e quelle “sicure”. Il sistema – introdotto quando l’esercito aveva tagliato fuori Gaza da ogni forma di comunicazione – ha gettato i residenti nel panico, aumentando il livello di caos e, successivamente, il numero di morti. Dall’inizio di dicembre, Israele ha regolarmente ordinato ai civili palestinesi nelle aree a sud di Wadi Gaza di spostarsi in nuove zone designate come sicure, secondo la griglia. Subito dopo, l’esercito ha preso di mira queste “zone sicure”.
Dalla fine di dicembre a febbraio, Israele ha intensificato la sua offensiva nelle “aree sicure” di Al Muwasi e Rafah, che ospitavano la maggior parte della popolazione sfollata. Questi attacchi sono continuati anche dopo che la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato a Israele di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire il genocidio. Invece, a febbraio Israele aveva ucciso altri 3.135 palestinesi, molti dei quali mentre cercavano rifugio.
All’inizio di febbraio, 1,4 milioni di palestinesi erano stati sfollati a Rafah, rendendo quel governatorato il più sovraffollato di Gaza con “una densità media di oltre 22.200 per chilometro quadrato, cinque volte il livello pre-bellico”. Un bombardamento continuo di queste “aree sicure” ha preso di mira le strutture che ospitano gli sfollati e le strutture mediche.
Proprio mentre venivano implementate le evacuazioni e le zone sicure, funzionari israeliani di alto rango invocavano la sostituzione con le colonie. Il Primo ministro israeliano ha caldeggiato il trasferimento etnico; il ministro delle Finanze israeliano ha espresso sostegno all’espulsione di due milioni di palestinesi da Gaza; il ministro della Sicurezza Nazionale israeliano ha dichiarato che la guerra è un’opportunità per “concentrarsi sull’incoraggiare la migrazione dei residenti di Gaza”, mentre altri ministri del gabinetto hanno proposto di “reinsediare” i palestinesi nel Sinai, nei Paesi occidentali e altrove. Il ministro israeliano delle Comunicazioni ha rivelato che l’espulsione dei palestinesi evacuati fuori Gaza è stata discussa “durante le riunioni del governo”. Il 12 gennaio, ministri israeliani hanno partecipato a una conferenza per la ri-colonizzazione di Gaza e l’espulsione dei palestinesi.
Il modello di uccisioni di civili evacuati nel sud, in combinazione con le dichiarazioni di alcuni alti funzionari israeliani che affermano l’intenzione di sfollare con la forza i palestinesi fuori Gaza e sostituirli con coloni israeliani, portano a dedurre ragionevolmente che gli ordini di evacuazione e le zone sicure sono stati utilizzati come strumenti genocidari per ottenere la pulizia etnica.
E. Scudi ospedalieri
Un ultimo livello del “camuffamento umanitario” di Israele riguarda i suoi sforzi per fornire copertura legale agli attacchi sistematici contro strutture e personale medico, causando il progressivo collasso del settore sanitario di Gaza. Prendere di mira le strutture mediche, accusandole di proteggere il nemico al loro interno, è una strategia di “medical lawfare” già impiegata da Israele nelle guerre precedenti. Nell’assalto attuale, Israele ha invocato questa strategia legale per giustificare il genocidio attraverso la completa distruzione delle infrastrutture di sostentamento della vita.
L’assistenza sanitaria civile è particolarmente protetta dal diritto internazionale: esiste una soglia elevata perché lo status di protezione delle unità mediche civili venga perso. Il diritto internazionale protegge gli ospedali vietandone l’uso per scopi militari o come scudo per attività militari, come il posizionamento di obiettivi militari nelle loro vicinanze. Fin dall’inizio delle ostilità, Israele ha considerato gli ospedali di Gaza come “quartier generale” di Hamas e come spazi utilizzati per proteggere le attività militari, con lo scopo di offuscare la distinzione tra obiettivi civili e militari, trasformando gli ospedali in “scudi ospedalieri”, e legittimando la distruzione dell’intero settore sanitario di Gaza.
Nel novembre 2023, l’ospedale Al Shifa, nel nord di Gaza, ospitava decine di migliaia di sfollati – quando fu assediato e invaso. Il 27 ottobre, l’esercito israeliano ha pubblicato un video 3D che rappresentava il sottosuolo dell’ospedale come una complessa rete di tunnel che fungevano da un “centro di comando di Hamas”. Il 2 novembre, il Ministero degli Affari Esteri ha pubblicato un documento legale che designava l’ospedale come un centro militare che nascondeva risorse militari. L’ospedale è stato poi posto sotto assedio e invaso a metà novembre, con Israele che accusava Hamas di utilizzare il personale medico come “scudi umani”. Dopo giorni di attacchi, l’ospedale è stato trasformato in una “zona della morte”; cinque neonati e 14 pazienti sono rimasti feriti; almeno 31 persone sono state uccise, e parti dell’ospedale sono state trasformate in fosse comuni.
I media hanno contestato le accuse di Israele secondo cui Hamas utilizzava gli ospedali come scudi, affermando che non c’erano prove che suggerissero che le stanze collegate all’ospedale fossero state utilizzate da Hamas; si è scoperto che gli edifici ospedalieri (contrariamente alle immagini 3D dei militari israeliane) non erano collegati alla rete di tunnel; e non c’erano prove che i tunnel fossero accessibili dai reparti ospedalieri. Inoltre, secondo quanto riferito, l’esercito israeliano ha disposto le armi ad Al Shifa prima delle visite delle troupe televisive, sollevando ulteriori sospetti di falsificazione dopo che aveva affermato che una “lista di terroristi” trovata in un altro ospedale di Gaza, l’Al Rantisi, si era rivelata essere un calendario dei giorni della settimana in arabo. Vere o meno che fossero le accuse di Israele che l’ospedale di Al Shifa fosse uno scudo per Hamas – ma resta ancora da dimostrare – i civili negli ospedali avrebbero dovuto essere protetti e non sottoposti ad assedio e attacchi militari.
Che in questo caso, l’intento dietro il “camuffamento umanitario” di Israele possa essere caratterizzato solo come genocida, è chiaro per due ragioni. In primo luogo, Israele era consapevole della distruzione su larga scala del sistema sanitario da quando, a metà novembre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva riferito che a Gaza si stava concretizzando una “catastrofe sanitaria pubblica”, con 26 dei 35 ospedali non più operativi a causa dei bombardamenti israeliani e dell’assedio. In secondo luogo, Israele sapeva che la sua operazione militare stava provocando un numero significativo di feriti. Il trauma fisico costituisce la causa principale dell’eccesso di mortalità a Gaza. Era prevedibile che la sospensione forzata dei servizi presso il più grande ospedale della Striscia avrebbe danneggiare gravemente le prospettive di sopravvivenza dei feriti, dei malati cronici e dei neonati nelle incubatrici. Pertanto, prendendo di mira l’ospedale Al Shifa, Israele ha consapevolmente condannato migliaia di malati e sfollati a sofferenze e morte prevenibili.
Fare affidamento sulla strategia di trattare gli ospedali come scudi, ignorando la loro funzione di centri indispensabili di sopravvivenza sociale per i migliaia di feriti e di molti altri in cerca di rifugio, mostra ancora un altro aspetto della logica genocida alla base della strategia militare di Israele.
7. Conclusioni
La natura travolgente, e la portata dell’assalto israeliano a Gaza, e le condizioni di vita distruttive che ha inflitto, rivelano l’intento di distruggere fisicamente i palestinesi come gruppo. Questo rapporto rileva che ci sono ragionevoli motivi per ritenere che sia stata raggiunta la soglia che indica la commissione dei seguenti atti di genocidio contro i palestinesi a Gaza: uccidere membri del gruppo; causare gravi danni fisici o mentali ai membri dei gruppi; e infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica, totale o parziale. Gli atti di genocidio sono stati approvati e resi effettivi a seguito di dichiarazioni di intenti genocidari rilasciate da alti funzionari militari e governativi.
Israele ha cercato di nascondere la sua condotta delle ostilità eliminazionista, definendo la commissione di crimini internazionali come rispettosi del diritto internazionale umanitario. Distorcendo le norme consuetudinarie del DIU, comprese distinzione, proporzionalità e precauzioni, Israele ha di fatto trattato un intero gruppo protetto e le sue infrastrutture di sostentamento come ‘terroristi’ o ‘sostenitori del terrorismo’, trasformando così tutto e tutti in un bersaglio o in un danno collaterale, quindi uccidibile o distruttibile. In questo modo, per definizione, nessun palestinese a Gaza è al sicuro. Questo ha avuto effetti devastanti e intenzionali, costando la vita a decine di migliaia di palestinesi, distruggendo il tessuto della vita a Gaza e causando danni irreparabili all’intera popolazione.
Il genocidio israeliano dei palestinesi di Gaza è una fase progressiva di un lungo processo coloniale di cancellazione. Per oltre settant’anni questo processo ha soffocato il popolo palestinese come gruppo – demograficamente, culturalmente, economicamente e politicamente –, cercando di spostarlo, espropriare e controllare la sua terra e le sue risorse. La Nakba in corso deve essere fermata, e vi si deve porre rimedio una volta per tutte. È un imperativo dovuto alle vittime di questa tragedia altamente prevenibile, e alle generazioni future di quella terra.
8. Raccomandazioni
Il Relatore Speciale esorta gli Stati membri a far rispettare il divieto di genocidio in conformità con i loro obblighi inderogabili. Israele e quegli Stati che sono stati complici di ciò che si può ragionevolmente concludere essere un genocidio, devono essere ritenuti responsabili e fornire risarcimenti commisurati alla distruzione, la morte e il danno inflitti al popolo palestinese.
Il Relatore Speciale raccomanda agli Stati membri:
- a) attuare immediatamente un embargo sulle armi nei confronti di Israele, poiché sembra non aver rispettato le misure vincolanti ordinate dalla Corte Internazionale di Giustizia il 26 gennaio 2024, nonché altre misure economiche e politiche, comprese le sanzioni, necessarie per garantire un cessate il fuoco immediato e duraturo e per ripristinare il rispetto del diritto internazionale;
- b) sostenere il Sudafrica che ricorre al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ai sensi dell’articolo 94 (2) della Carta delle Nazioni Unite, a seguito del mancato rispetto da parte di Israele delle misure citate della CIG;
- c) agire per garantire un’indagine approfondita, indipendente e trasparente su tutte le violazioni del diritto internazionale commesse da tutti gli attori, comprese quelle che costituiscono crimini di guerra, crimini contro l’umanità e il crimine di genocidio, tra cui:
- (i) cooperare con meccanismi internazionali indipendenti di accertamento dei fatti/investigativi e delle responsabilità;
- (ii) riferire immediatamente alla CPI sulla situazione in Palestina, a sostegno delle sue indagini in corso;
- (iii) adempiere ai propri obblighi ai sensi dei principi della giurisdizione universale, garantendo indagini e procedimenti giudiziari autentici nei confronti di individui sospettati di aver commesso, o aiutato o favorito, nella commissione di crimini internazionali, compreso il genocidio, a cominciare dai propri stessi cittadini;
- d) assicurarsi che Israele, così come gli Stati che sono stati complici del genocidio di Gaza, riconoscano il colossale danno arrecato, si impegnino a non ripeterlo, con misure di prevenzione, e a risarcimenti completi, compreso l’intero costo della ricostruzione di Gaza, per la quale si raccomanda l’istituzione di un registro dei danni con un processo di verifica e di rivendicazione di massa;
- e) nell’ambito dell’Assemblea Generale, sviluppare un piano per porre fine allo status quo illegale e insostenibile che costituisce la causa principale dell’ultima escalation, culminata infine nel genocidio di Gaza, anche attraverso la ricostituzione del Comitato speciale delle Nazioni Unite contro l’Apartheid, per affrontare in modo esaustivo la situazione in Palestina e tenersi pronti ad attuare le misure diplomatiche, economiche e politiche previste dalla Carta delle Nazioni Unite in caso di inadempienza da parte di Israele;
- f) a breve termine e come misura temporanea, di concerto con lo Stato di Palestina, dispiegare una presenza protettiva internazionale per limitare la violenza abitualmente usata contro i palestinesi nei Territori Palestinesi Occupati;
- g) garantire che l’UNRWA sia adeguatamente finanziata, per consentirle di soddisfare le crescenti esigenze dei palestinesi a Gaza.
Il Relatore Speciale invita l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani a intensificare i propri sforzi per porre fine alle attuali atrocità a Gaza, anche promuovendo e applicando accuratamente il diritto internazionale, in particolare la Convenzione sul genocidio, nel contesto dei Territori Palestinesi Occupati nel loro complesso.

