Don’t Look Up di Adam McKay. Il film che meglio descrive il nostro tempo, con tragedie ribaltate in farse e farse in tragedie
A poco più di due settimane dall’uscita nelle sale cinematografiche, il 24 dicembre 2021 approda su Netflix Don’t Look Up – l’ultima fatica di Adam McKay, regista e sceneggiatore de La grande scommessa (2015)e Vice (2018) – scatenando subito un acceso dibattito in seno al pubblico e alla critica, tanto che a gennaio 2022 diventa il secondo film più visto di sempre sulla piattaforma di streaming fondata da Scotts Valley. Tra i detrattori del film, le condanne più battute riguardano la sua presunta banalità, dovuta a un impianto generalmente troppo didascalico. Tuttavia, leggendo tra le righe – o anche solo le righe – di molte di tali stroncature, si capisce come, più che l’aspetto formale dell’opera, a disturbare sia il suo contenuto. Del resto, è ovvio che nelle analisi degli intellettuali organici al sistema si rispecchi il punto di vista del mondo politico ed economico – proprio quello messo sotto accusa da McKay in rapporto a praticamente tutte le contraddizioni di cui è gravida la società occidentale.
Si pensi, per esempio, a quanto scrive David Rooney sull’Hollywood Reporter: “[Don’t Look Up] si guarda troppo allo specchio e vuole far sentire i suoi spettatori superiori a quegli amorali conservatori, quei liberali che pensano solo a se stessi e quei capitalisti avidi e insaziabili”. Oppure alla definizione tanto sprezzante quanto fuori fuoco che ne ha dato Peter Debruge su Variety: un Armageddon di sinistra (1). Per quanto riguarda i critici nostrani, Gianmaria Tammaro su La Stampa ci ricorda che esistono almeno cinquanta sfumature di grigio, prima di porsi una domanda degna di Amleto: “[…] c’è una semplificazione eccessiva della posizione delle due parti, del sistema politico e della società. Un film che nasce per mettere a nudo contraddizioni e assurdità non può limitarsi a tranquillizzare e a percorrere la strada più semplice, quella della battuta urlata e prevedibile, del potere brutto e cattivo, e di una verità che accoglie e riunisce tutti i giusti (ma chi sono, poi, i giusti?)” (2).
Inoltre, non sono mancati quanti hanno puntato il dito sui cachet astronomici riservati agli attori – trenta milioni di dollari per Leonardo Di Caprio e venticinque per Jennifer Lawrence – nonché sul fatto che il film sia stato prodotto e distribuito da Netflix, killer di sale cinematografiche e una delle colonne portanti di quel sistema massmediale contro cui si scaglia gran parte del j’accuse di McKay. Peccato che, al netto di tutto ciò, Don’t Look Up resti probabilmente il film che meglio descrive il nostro tempo con tutto il suo corredo di tragedie ribaltate in farse e farse in tragedie.
Quando l’astrofisico Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) prende a calcolare le effemeridi – tabelle da cui vengono desunti i valori di diverse grandezze astronomiche all’interno di un preciso arco di tempo – relative a una cometa appena scoperta dalla dottoranda Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), fa una scoperta sconvolgente: il corpo celeste – dal diametro stimato tra i cinque e i nove chilometri – impatterà direttamente contro la Terra entro sei mesi e quattordici giorni. Subito viene allertata la dottoressa Calder (Hettienne Park) – a capo della Nasa – senonché quest’ultima li fa attendere diversi minuti al telefono e, quando finalmente risponde, si lamenta del fatto che l’hanno costretta a lasciare una riunione in cui doveva comunicare al suo team la perdita di otto milioni di finanziamento. Vengono così introdotti sottotraccia alcuni elementi che rivestiranno in seguito un’importanza centrale nel film: lo spreco di tempo e l’assoluta priorità accordata al denaro anche rispetto alla sopravvivenza dell’intera umanità e di qualsiasi altra specie vivente a fronte di un evento apocalittico.
La cometa è, infatti, quella che in gergo astronomico viene definita ‘killer di pianeti’. Ne è ben consapevole Ted Oglethorpe (Rob Morgan), capo dell’Ufficio di Coordinamento della Difesa Planetaria a Washington – un istituto realmente esistente – il quale intima a Randall e Kate di recarsi subito nella capitale. Qui i tre dovrebbero incontrarsi con la presidentessa degli Stati Uniti, Janie Orlean (Meryl Streep), in modo che quest’ultima, una volta informata, possa dare il via libera ai piani governativi già esistenti per far fronte a eventi di questo tipo. Da notare la battuta di Randall relativa allo studio ovale della Casa Bianca – “Sembra più piccolo che in foto” – come a sottolineare già una dicotomia tra la realtà del potere e la narrazione che lo circonda. A conferma di ciò, la riunione viene rinviata all’indomani, nonostante la presidentessa sappia perfettamente il motivo per cui Randall, Kate e Ted si trovano lì. A monopolizzare ora la sua attenzione è, infatti, uno scandalo che ha investito un candidato alla Corta Suprema, il quale si sarebbe mostrato visibilmente eccitato quando posava come modello di nudo ai tempi del college.
Ma non si tratta dell’unico elemento farsesco inserito da McKay fin dall’inizio del film. Durante le sette ore di inutile attesa sulla soglia dello studio ovale, Kate scopre che gli snak fatti loro pagare dieci dollari al pezzo da un generale pluristellato del Pentagono erano, in realtà, gratis. Fatto che continuerà a ossessionarla per tutta la durata della pellicola, rispetto al quale si darà, infine, la seguente spiegazione: “Forse lui si esalta con il potere. Sai, qualunque tipo di potere… Era come se sapesse che prima o poi avrei scoperto che gli snak erano gratis. Capisci, era tipo un gioco, una prova di potere”. Dunque, se prima avevamo già individuato sottotraccia il tema del denaro quale elemento cardine nell’analisi di McKay, ora è quello del potere fine a se stesso a fare la sua comparsa, insieme alla priorità assoluta conferita dalla Orlean ai suoi interessi politici. Non saranno le uniche perversioni della società occidentale evidenziate in Don’t Look Up. Ma procediamo per ordine.
Quando finalmente la presidentessa acconsente a ricevere Randall, Kate e Ted, accordando loro appena venti minuti per esporre la situazione, il suo ethos traspare, oltre che dai dialoghi, dai numerosi elementi di arredo presenti nello studio ovale su cui indugia la macchina da presa, tra i quali spicca una vecchia foto di lei abbracciata a Bill Clinton. L’intento del regista è evidente. Se da una parte, infatti, è possibile vedere nella Orlean la versione femminile di Trump per via della sua evidente grettezza e impreparazione, proprio il suo essere donna, dall’altra, rimanda alla narrazione sui diritti civili di matrice tipicamente democratica, ‘transustanziate’ nell’ex candidata alle elezioni presidenziali Hillary Clinton, come in Obama prima di lei. L’intero sistema politico statunitense viene, dunque, messo sotto accusa attraverso la sintesi operata da McKay in tale antagonista, di cui persino il nome, come quello di tanti altri personaggi di Don’t Look Up, potrebbe essere letto in chiave simbolica. Quello degli Orléans era, infatti, il ramo cadetto dei Borbone – succeduto al governo di Francia in seguito alla Rivoluzione di Luglio del 1830 – il quale raccoglieva in sé sia gli interessi della nobiltà che quelli della borghesia – proprio come nella ‘nostra’ Orlean convivono gli atteggiamenti di conservatori e liberali. Ed è significativo che questo aspetto non venga evidenziato in praticamente nessuna delle recensioni al film firmata dai critici nostrani (3).
Com’era prevedibile, il colloquio si conclude con un nulla di fatto. Nonostante Randall, Kate e Ted ripetano più volte alla Orlean che esiste il 100% di possibilità che la cometa colpisca la Terra, estinguendo ogni forma di vita, la presidentessa si ostina a sottovalutare la situazione, temendo che rivelare al pubblico una cosa del genere avrebbe un effetto negativo per il suo partito alle elezioni di medio termine. Tanto che propone di abbassare la percentuale dell’impatto al 70%, come se ciò dipendesse davvero da lei: “Non si può dire alle persone che hanno il 100% di possibilità di morire, capite? È da pazzi”.
Dovrebbe risultare chiaro, a questo punto, come, attraverso la metafora della cometa – tradizionalmente simbolo di nuova vita, essendo associata alla nascita di Cristo, mentre qui lo è di distruzione – McKay ci stia parlando, in realtà, del cambiamento climatico e del folle atteggiamento tenuto dalla classe politica ed economica nel subordinare tale minaccia ai propri interessi immediati. Del resto, lo stesso regista lo ha dichiarato in più occasioni, senza contare il video in cui Leonardo Di Caprio spiega apertamente il significato del film (4). Dal che risulta evidente come l’etichetta affibbiata da Debruge a Don’t Look Up, cui accennavamo sopra – un Armageddon di sinistra – sia in totale malafede. Naturalmente McKay gioca su situazioni e cliché tipici del cinema catastrofico, ma lo fa per ribaltare il loro significato e offrire allo spettatore uno scenario per nulla semplice e confortante, checché ne dica Tammaro nella sua recensione.
Dopo il fallimento del colloquio con la Orlean, i nostri decidono di rivolgersi direttamente ai mass media, scavalcando la Casa Bianca. La prima tappa è il New York Herald – chiara parodia del New York Times – per poi giungere al programma tivù Daily Rip, condotto dagli spumeggianti Jack (Tyler Perry) e Brie (Cate Blanchette). Il che diventa occasione per una riuscitissima critica al vetriolo operata da McKay nei confronti della società dello spettacolo di debordiana memoria. L’unica cosa che conta, infatti, sembra essere lo charme televisivo, necessario per la buona riuscita della puntata, e non il contenuto del messaggio di cui Randall e Kate sono portatori. A tal proposito, risulta emblematico il consiglio dato ai due scienziati da uno degli addetti al programma nel backstage: “[…] cercate di essere leggeri e divertenti, a loro [Jack e Brie] piace scherzare”.
Inoltre, sono gli ultimi in scaletta, preceduti da ulteriori commenti sullo scandalo in cui è coinvolto il candidato alla Corte Suprema e da un’intervista a Riley Bina (Ariana Grande), una popstar riguardo alla quale Randall compie un’osservazione del tutto parallela a quella precedente sullo studio ovale della Casa Bianca – “Sembra molto più piccola di persona, non trovi?” – che ha ovviamente lo stesso valore simbolico di sottolineare quella scollatura tra la realtà la sua rappresentazione mediatica, su cui agisce larga parte del film di McKay. In questo senso, va letta la rispostaccia data da Riley Bina – apparentemente la persona più dolce del mondo – a Randall, quando questi esprime il suo dispiacere per il fatto che lei e un certo DJ Chello (Scott Mescudi) si siano lasciati, nonché, più avanti, il racconto di Ted sulla flatulenza emessa da Sting di fronte a lui, in seguito alla quale il cantante non avrebbe nemmeno abbassato lo sguardo.
Quando finalmente viene il turno di Randall e Kate per parlare con Jack e Brie, l’atteggiamento dei due conduttori lascia trasparire fin da subito l’intenzione di non dare troppo peso alla notizia, la quale viene accolta con una serie di battutine, come quella in cui Jack si augura che la cometa colpisca la casa della sua ex moglie. Il che suscita l’incredulità e la rabbia della dottoranda: “Scusate, non siamo stati abbastanza chiari? Stiamo cercando di dirvi che l’intero pianeta sta per essere disintegrato. […] Magari la distruzione dell’intero pianeta non dovrebbe divertirci. Magari questo dovrebbe, invece, terrorizzarci e sconvolgerci. E voi dovreste stare svegli tutte le notti che ci restano a piangere, perché è sicuro al 100% che moriremo tutti, cazzo!” Sfogo da cui originano una serie di meme poco lusinghieri nei confronti di Kate, diffusi attraverso i social-network, insieme a numerosi commenti relativi all’aspetto piacente di Randall, sintetizzati dall’acronimo A.I.L.F.: Astronomo Intrigante Lasciati Fottere. Emerge qui, oltre alla chiara intenzione satirica nei confronti dei mass media e del popolo di Internet, un altro tema estremamente battuto nel lavoro di McKay, ovvero la rimozione del dolore e della morte in seno alla società della prestazione.
Per dirla con Byung-Chul Han: “Il nostro rapporto con il dolore (Schmerz) rivela in quale società viviamo. […] L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d’amore sono diventate sospette. […] La psicologia positiva subordina persino il dolore a una logica della prestazione. L’ideologia neoliberista della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori di aumento della prestazione. Si parla addirittura di crescita post-traumatica. L’allenamento della resilienza in quanto palestra dell’anima ha il compito di modellare l’essere umano nella forma di un soggetto di prestazione il più possibile estraneo al dolore, e sempre felice. […] Il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o eliminare in nome della prestazione” (5). In questo senso, vanno lette le risposte date a Kate da Jack e Brie, secondo cui su Daily Rip cercano sempre di alleggerire le cattive notizie, nonché l’abuso di psicofarmaci come lo Xanax o altre sostanze stordenti che contraddistingue diversi personaggi del film, Randall in primis. Infatti: “Gli analgesici prescritti in massa coprono le circostanze sociali del dolore. L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impediscono che esso si faccia linguaggio, anzi critica. Sottrae al dolore il suo carattere oggettivo, sociale” (6). Ed è significativo che in nessuna delle recensioni a Don’t Look Up lette da chi scrive – nemmeno tra le più serie e oneste – compaia un riferimento a questo tema. Un tabù riconosciuto in quanto tale, infatti, è un tabù che ha già perso buona parte del suo potere. E quello sul dolore e sulla morte pare esercitare oggi la stessa forza dell’inibizione sessuale in epoca vittoriana (7).
Del resto, la rimozione di ogni negatività dall’esperienza umana è proprio l’obiettivo che si prefigge un altro antagonista di Randall e Kate, il più pericoloso, Peter Isherwell (Mark Rylance), colui il quale ha acquistato la Bibbia di Gutemberg e poi l’ha persa – espressione simbolica di una totale assenza di contatto con il passato, tanto più significativa in quanto la propaganda commerciale di tale personaggio si basa proprio sul concetto di ‘connessione’ – fondatore e amministratore delegato della Bash, una multinazionale dalle caratteristiche molto simili a quelle della Apple. La prima volta che lo vediamo in scena è impegnato nella presentazione di un nuovo modello di smartphone, il Bash LiiF 14.3, il quale, se impostato sulla modalità Vita, è in grado di comprendere l’umore dell’utente attraverso il rilevamento della pressione sanguigna e di altri valori biometrici. Nel caso dovesse risultare triste, il cellulare metterà in atto tutta una serie di diversivi – video, canzoncine ecc. – per rallegrarlo. Da notare che, prima della comparsa di Isherwell sul palco, una voce al microfono istruisce la platea sul comportamento da tenere in sua presenza: evitare contatti visivi diretti, mosse improvvise, tosse ed espressioni del volto negative. Del resto, motto della Bash è: “La vita senza lo stress di vivere”.
Ritroveremo Isherwell in compagnia della presidentessa Orlean nel momento in cui quest’ultima, sperando così di distrarre l’attenzione mediatica da uno scandalo sessuale che la coinvolge questa volta in prima persona, si deciderà finalmente ad attuare i piani governativi per deviare la cometa con l’utilizzo di alcune testate nucleari. Per l’occasione, viene pronunciato un discorso in grande stile da una portaerei illuminata con i colori della bandiera a stelle e strisce, dove il corpo celeste è presentato alla stregua di un nemico di guerra, contro il quale gli Stati Uniti sono pronti a scendere in campo, secondo quel meccanismo tipicamente puritano di violazione-riconsacrazione-ritorno a casa, di cui avevamo parlato nel nostro articolo su Le strade del male di Antonio Campos (8), un genere di narrazione da cui – sia notato di sfuggita – non è stata esente nemmeno la pandemia da Covid-19.
Nonostante la missione possa svolgersi in maniera totalmente teleguidata, il colonnello Benedict Drask (Ron Perlman) – tipico esempio di eroe nazionalpopolare statunitense – partirà a bordo di uno shuttle insieme ai satelliti carichi degli ordigni nucleari in quanto, come spiega Ted: “Washington ha sempre bisogno di avere un eroe”. La frase pronunciata da Benedict sulla portaerei, scritta per lui da Jason (Jonah Hill), capo del gabinetto, nonché figlio della Orlean, è, in realtà, una citazione da Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg: “Se io verrò ammazzato, meriterete la vita che avrete grazie al mio sacrificio?” Circostanza dal valore chiaramente meta-cinematografico nel momento in cui si considera che l’intenzione di McKay qui è dimostrare come nella cultura occidentale sembri ormai intercorrere un rapporto diretto tra il cinema, o meglio, il cattivo cinema e la realtà, secondo quanto notava Pirandello già nel 1916: “Tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, non può produrre ormai altro che stupidità. Stupidità affannose e grottesche! Che uomini, che intrecci, che passioni, che vita, in un tempo come questo? La follia, il delitto o la stupidità. Vita da cinematografo! Ecco qua: questa donna che mi stava davanti, coi capelli di rame. Là, nelle sei tele, l’arte, il sogno luminoso di un giovinetto che non poteva vivere in un tempo come questo. E qua, la donna caduta da quel sogno: caduta dall’arte al cinematografo” (9).
Dicevamo di Isherwell… Come spiega Jason a Randall e Kate, egli è un finanziatore platinum della campagna elettorale della Orlean, circostanza nella quale si manifesta l’inevitabile subordinazione della politica rispetto al potere economico in barba a qualsiasi pretesa di democrazia in seno al capitalismo. L’influenza di Isherwell, infatti, è tanto grande da far sì che la missione governativa venga abortita su sua richiesta, quando già i satelliti e lo shuttle con a bordo Benedict sono partiti. Il motivo è presto spiegato: analizzando la composizione geologica della cometa, i suoi scienziati hanno scoperto che in essa si trovano minerali preziosi, con particolare riferimento a quelli necessari all’industria tecnologica, per un valore totale di 140 trilioni di dollari.
Dimodoché il piano di Isherwell è permettere al corpo celeste di avvicinarsi alla Terra in modo da mandare sulla sua superficie alcuni droni – anch’essi carichi di ordigni nucleari – non più con lo scopo di deviarlo, ma di frantumarlo in trenta meteoriti più piccoli, i quali, decelerati grazie alla tecnologia della Bash, cadranno nell’oceano Pacifico per essere lì recuperati dalle navi della marina: “Quando questi tesori del cielo saranno raccolti, la povertà che conosciamo, le ingiustizie sociali, la perdita di biodiversità, tutta questa moltitudine di problemi diventerà solo un retaggio del passato, e l’umanità entrerà nuda attraverso le mitiche colonne Boaz e Yakin, marciando nella gloria dell’età dell’oro. Parliamo di un’interplanetaria, interstellare, intergalattica esistenza per la razza umana”. Senonché, dietro una simile utopia, risulta evidente l’intento, ben più prosaico, di moltiplicare i propri profitti, anche se questo significa mettere a rischio l’esistenza dell’intera umanità – esattamente quanto si manifesta nel rapporto tra un certo tipo di interessi economici e il cambiamento climatico. In questo senso, la sociopatia di Isherwell e il suo delirio di onnipotenza non costituiscono affatto un’esagerazione, essendo aspetti tipici della psicologia di uomini come Steve Jobs, Jeff Bezos, Bill Gates, Mark Zuckerberg, Elon Musk ecc., ai quali il personaggio creato da McKay è chiaramente ispirato.
Emblematica la risposta data da Isherwell a Randall nel momento in cui questi si mostra allarmato per l’allontanamento di alcuni scienziati dal progetto della Bash relativo alla cometa, colpevoli di aver fatto troppe domande: “Che cosa ha detto? Mi ha chiamato uomo d’affari? Io sarei solo un uomo d’affari? Crede di conoscermi, dottore? Affari? Questa è l’evoluzione. E l’evoluzione della specie umana. Lo sa che la Bash ha più di quaranta milioni di dati personali che riguardano lei e ogni sua decisione dal 1994, dottore? Io so quando nel suo colon ha dei polipi mesi prima che lo sappia il suo medico. Ne ha quattro o cinque al momento. In realtà, niente di inquietante, ma farei un checkup, se fossi in lei. Ma soprattutto la cosa più importante è che so cos’è lei. So chi è. Il mio algoritmo ha determinato il profilo di otto sostanziali categorie di utente. Lei ha uno stile di vita da idealista. Crede di essere motivato da certe convinzioni, convinzioni altamente etiche, ma non fa che correre verso il piacere e fuggire dal dolore, come un topo selvatico. I nostri algoritmi possono prevedere come morirà con il 96, forse il 96,5 percento di accuratezza. Ho raccolto un po’ di informazioni su di lei, e la sua morte sarà così insignificante e noiosa che non ricordo i dettagli, a parte una cosa, sì… Lei morirà solo”. Sarà proprio tale dialogo – in cui emerge, tra l’altro, l’assoluta trasparenza del cittadino di fronte al potere e la totale opacità di quest’ultimo agli occhi del primo – a convincere Randall a sganciarsi dal progetto di Isherwell per riunirsi a Kate e Ted in una campagna di sensibilizzazione relativa alla cometa.
In un primo momento, infatti, il gruppo si era diviso a causa del convincimento di Randall secondo cui sarebbe stato inutile tentare di condurre una lotta dal basso: “Dovete capire che questa cosa è fuori dal nostro controllo. Il potere è in mano loro. Quindi chi volete nella stanza dei bottoni per assicurarvi che la situazione non si trasformi in un completo disastro?” Peccato che voler cambiare il sistema dall’interno – o anche solo sperare di contenerne gli effetti più distruttivi – risulti sempre una pia illusione per il modo stesso in cui è organizzata la società. Più specificamente, la seduzione esercitata su Randall dallo star-system – sottolineata a livello simbolico dal suo flirt con Brie – e dall’apparente onniscienza tecnica di Isherwell dimostrerebbe come qualsiasi forma di ambientalismo che non contenga in sé una critica totale all’economia capitalista – basata esclusivamente sul profitto – sia destinata a restare lettera morta. La forza del film di McKay sta proprio in quel che alcuni detrattori dell’opera giudicano il suo maggiore difetto, scambiando colpevolmente per disorganicità tematica ciò che è appunto il tema centrale di Don’t Look Up, ovvero l’interconnessione di elementi strutturali e sovrastrutturali che determinano la sempre più tangibile possibilità di una catastrofe planetaria a breve termine in rapporto al cambiamento climatico.
A tale interconnessione non sfugge naturalmente il cinema, come si evince dalla scena relativa all’intervista a Devin Peters (Chris Evans), regista del film Devastazione totale, la cui uscita nelle sale è prevista per lo stesso giorno in cui dovrebbe avvenire l’impatto della cometa sulla Terra. Rispetto ai due movimenti creatisi, nel frattempo, attorno all’esistenza o meno del corpo celeste – di cui quello negazionista, capeggiato dalla Orlean, utilizza lo slogan che dà il titolo al lavoro di McKay, ‘Don’t Look Up’ appunto – egli vorrebbe mantenersi neutrale, come prova la spilla ostentata al bavero della giacca, ritraente una doppia freccia puntata verso l’alto e il basso: “Questa spilla indica sia sopra che sotto, perché credo che, come nazione, dobbiamo dire basta alle polemiche e dare un segnale virtuoso, andare tutti d’accordo”. Peccato che qualsiasi attestazione di neutralità comporti sempre un’accettazione passiva dello status quo, risultando nei fatti funzionale a esso. Ed è interessante notare come la locandina di Devastazione totale, ritraente l’annientamento della Terra da parte di un asteroide, non sia affatto in contraddizione con quanto scrivevamo più sopra rispetto alla rimozione del dolore in seno alla società occidentale. Una morte spettacolarizzata nel senso debordiano del termine, infatti, cessa di essere tale, riducendosi a mero espediente di intrattenimento. Come, nell’ambito della scultura, i ragni giganti di Louise Bourgeois, “più mostruosamente decorativi che minacciosi” (10). Non per niente, sollecitato dall’intervistatrice, la quale afferma che sono tutti stanchi della politica, Peters afferma: “Già, per questo abbiamo fatto Devastazione totale, è per tutti, un film da popcorn”.
Al contrario, Riley Bina è diventata una fervente sostenitrice del movimento ‘Look Up’, il che diventa occasione per un concerto in cui il messaggio di sensibilizzazione relativo alla cometa viene innestato su una canzone d’amore dalle sonorità tipicamente pop, producendo così un meraviglioso effetto straniante. La speranza è che Russia, India e Cina, ovvero i Paesi esclusi dai profitti che deriverebbero dalle risorse contenute all’interno del corpo celeste – dunque, non motivati certo alla base da una nobile intenzione a conferma di come il capitalismo segua dappertutto le stesse dinamiche – riescano a organizzare una nuova missione per deviarne la rotta. Senonché tale missione fallisce, probabilmente sabotata dalla Bash e dal governo degli Stati Uniti. L’ultima risorsa per la salvezza del pianeta sembrerebbe, dunque, restare il progetto di Isherwell. Ma nemmeno per un istante lo spettatore è portato a credere a un lieto fine.
Infatti, com’era prevedibile, la cometa – tutta intera – colpisce la Terra, estinguendo ogni forma di vita sulla sua superficie, quasi una rielaborazione in chiave cinematografica del celebre adagio attribuito di volta in volta a Slavoj Žižek o a Fredric Jameson, secondo cui è più facile ormai immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo (11). Gli unici superstiti sono proprio le persone che maggiormente hanno contribuito alla catastrofe, dunque, i peggiori esponenti dell’umanità. Isherwell aveva, infatti, preposto un’astronave di duemila posti, completa di meccanismi di criogenizzazione per i viaggi a lungo termine nello spazio, destinata a contenere buona parte di quell’1% che da solo inquina più – oltre a detenere la ricchezza – di oltre la metà della popolazione mondiale. Quando, dopo ventiduemila anni, la nave, completamente automatizzata, trova finalmente un pianeta abitabile, inizia quella “interplanetaria, interstellare, intergalattica esistenza per la razza umana” evocata da Isherwell nel suo precedente sproloquio relativo alla frantumazione della cometa. Senonché degli individui abituati ad aver rimosso qualsiasi forma di conflitto dalle loro vite non sono certo i meglio preparati a trovarsi gettati letteralmente nudi e senza mezzi in seno a una natura matrigna di leopardiana memoria. In questo senso, che è quello di una riscoperta traumatica della morte e del dolore, va letta la scena in cui la Orlean viene divorata da una specie di dinosauro, dopo che vi si era avvicinata fiduciosa, attratta dal suo aspetto apparentemente innocuo.
Degna di nota la frase che Isherwell si ostina a ripetere in questa circostanza, come già gli era capitato di fare in seguito al fallimento della missione della Bash: “Andrà tutto bene” (in inglese, everything will be fine). Se non fosse che negli Stati Uniti non ha mai attecchito un simile mantra in relazione al Covid-19 – come, invece, in Italia e in Europa – si sarebbe portati a considerare tale battuta un riferimento diretto alla pandemia e alla narrazione spesso contraddittoria che l’ha accompagnata, tra conte dei morti quotidiane e vuote dichiarazioni di fiducia nel domani. Progettato nel 2019, infatti, il film è stato girato nel 2020, e non bisogna escludere che lo stato d’eccezione venutosi a creare nel frattempo abbia fornito a McKay ulteriori spunti di riflessione, poi introdotti nel suo lavoro. In ogni caso, la frase di Isherwell resta una coincidenza significativa, che ci ricorda come la speranza fine a se stessa – priva di una base concreta su cui poggiare – sia un sentimento passivo e ciecamente ‘conservatore’ a fronte di una realtà oggettiva per nulla rassicurante.
Il 9 agosto 2021 è stato pubblicato l’ultimo report ufficiale dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) (12), il quale conferma, con ulteriori dettagli, profondità di analisi e certezze, quanto è risaputo già da tempo. Il documento dimostra, tra le altre cose, come l’innalzamento del livello dei mari sia un fenomeno ormai irreversibile; eventi estremi di natura atmosferica si verificheranno annualmente, anziché una volta ogni secolo; aumenteranno gli incendi e la desertificazione di intere aree del mondo; e molto altro ancora. Lungi dall’essere connotato da un “superficiale nichilismo”, come scritto da Joe Morgenstern sul Wall Street Journal (13), Don’t Look Up è un invito ad agire in modo da contenere, se non altro, le conseguenze più esiziali del cambiamento climatico. Tale minaccia riporta l’essere umano a prendere atto del proprio essere-nel-mondo a fronte di una sempre più spiccata individualizzazione e virtualizzazione della vita, dove pare esprimersi una farsesca – ma non per questo innocua – forma di ‘idealismo’ che rifiuta qualsiasi interdipendenza del soggetto dalla realtà materiale in cui è immerso. Le possibilità tecniche per salvarci dalla catastrofe esistono, ma, vale la pena ripeterlo in chiusura, è difficile immaginare un loro utilizzo realmente efficacie, senza una pianificazione a monte dell’economia. Duecentocinquant’anni di capitalismo industriale e finanziario ci hanno condotto di fronte a quella che Günther Anders, in relazione alla minaccia atomica, ha definito la “possibilità metafisica del nulla” (14). Solo per il fatto di averla riconosciuta apertamente, il film di McKay – uno dei pochissimi mai girati sul tema del cambiamento climatico – meriterebbe di essere visto più e più volte.
1) Vedi l’articolo de Il Post al seguente link, il quale accorpa vari commenti sia positivi che negativi a Don’t Look Up: www.ilpost.it/2021/12/29/dont-look-up-recensioni
3) Fa eccezione la bella analisi di Tommaso Paris su www.artesettima.it
4) Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=sm2u3knkntw&ab_channel=NetflixItalia
5) Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi
6) Ibidem
7) Cfr. Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, Bur
8) Iacopo Adami, Psicopatologia di una superpotenza, Paginauno n. 74/2021
9) Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Bur
10) Byung-Chul Han, op. cit.7
11) Cfr. Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero
12) https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg1/
13) Il Post, art. cit.
14) Günther Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri