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Home Cultura Musica

Passaggi di una rivoluzione incruenta. Dalla canzone-retorica alla canzone-riflesso sociale

Mario Bonanno by Mario Bonanno
23 Febbraio 2022
in Musica
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Il nemico non è. Contestazione, stragismo e lotta armata nei testi dei cantautori *
  • (Paginauno n. 76, febbraio – marzo 2022)

La canzone d’autore italiana e le istanze politico-sociali di un intero decennio, quello del ‘lungo Sessantotto’

"Dio del Ciel se fossi una colomba/ vorrei volar laggiù dov’è il mio amor/ che inginocchiato a San Giusto/ prega con l’animo mesto/ Fa che il mio amore torni/ ma torni presto/ Vola, colomba bianca, vola/ diglielo tu che tornerò/ Dille che non sarà più sola/ e che mai più la lascerò/ Fummo felici uniti e ci han divisi/ Ci sorrideva il sole, il cielo, il mar/ noi lasciavamo il cantiere/ lieti del nostro lavoro/ ed il campanon din don/ ci faceva il coro/ Vola, colomba bianca, vola/ diglielo tu che tornerò/ Tutte le sere m’addormento triste/ e nei miei sogni piango e invoco te/ Anche il mi vecio te sogna/ pensa alle pene sofferte/ piange e nasconde il viso tra le coperte/ Vola, colomba bianca, vola/ diglielo tu che tornerò/ diglielo tu che tornerò.”
Carlo Concina-Bixio Cherubini, Vola colomba

All’Italia in ginocchio del primo dopoguerra serviva una canzone così. Una canzone ‘spensierata’. Una canzone deamicisiana. Consolatoria, che potesse funzionare al contempo da medium e collante pedagogico. In altre parole: le strofe delle canzoni effondevano retorica, e se mai qualcuna si connotava come strappalacrime c’era sempre un precetto, un buon fine, una morale sottesa e rassicurante sulla quale poggiare. Alla luce di ciò la realtà dei fatti veniva edulcorata, le idee di famiglia, di amore, di nazione (di patria) di conseguenza, con essa. Le canzoni popolari dell’epoca erano l’antro enfatico degli stereotipi – mamme angelo del focolare, mariti devoti, figli altrettanto, sogni rosa confetto, afflati patriottici, slanci stilnovisti, passioni irreggimentate, costituivano l’humus contenutistico su cui poggiavano. C’erano ferite da suturare, serviva allora una canzone così. ‘Innocua’. Effimera. Fine a se stessa, adesa al canone compositivo vigente: in fatto di canzoni le cose vanno in questo modo, e ci vanno per molto.

È il 1962 quando Luigi Tenco spariglia le carte della convenzione pronunciando la frase fatidica: “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare.” Un attacco al cuore dello status quo musicale. In appena una manciata di strofe, la canzone sentimentale derubricata dei suoi attributi celestiali, dei suoi voli pindarici, dei suoi afflati apollinei, ricondotta su coordinate terrestri. Con Tenco anche l’amore – l’amore cantato in primo luogo – diventa un fatto episodico, relativo, una possibilità contingente per uomini e donne irrisolti, imperfetti, ma vivaddio autentici, in carne e ossa.

Cosa racconta, in fondo, l’incipit di Mi sono innamorato di te? Racconta di lui nullafacente, che si annoia al punto da decidere di mettersi con lei, senza scopi particolarmente edificanti. Tolti gli epigoni impomatati del bel canto, ditemi chi, fosse soltanto per una volta, non si è riconosciuto in un amore di questo tipo. Con Mi sono innamorato di te la virata contenutistico-formale della canzone diventa radicale. Sulla sua scia, la ballata popolare dismette i panni di ballata scacciapensieri connotandosi come potenzialmente descrittiva. Contigua a un piano oggettivo quanto di contenuto. Siamo ancora lontani dall’ascrivere il cantautorato all’interno di una vera e propria fenomenologia (canoni espressivi, seguito di massa) ma con Luigi Tenco – e quasi contemporaneamente, soprattutto con Fabrizio De Andrè – è possibile individuare la germinazione, se non altro, di un proto-cantautorato.

Con sorprendente continuità, e sulla scorta delle aspettative del pubblico più giovane e impegnato, la canzone d’autore riuscirà a connotarsi come rappresentativa delle istanze politico-sociali di un intero decennio. Nel corso del lungo Sessantotto (1968/1978) l’onda della protesta irrora la canzone di nuovi contenuti e nuove poetiche, portatrici di una vis e di una caratura dirompenti. Sono i tempi in cui Venditti canta ancora da Venditti, esibendo barbone tupamaro e aforistica filocinese. Guccini disserta di ontologie ispirate da eskimo innocenti, e Bertoli si erge a portavoce delle istanze di un nuovo Quarto stato…

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* Estratto dal libro Il nemico non è. I cantautori, la guerra, il conflitto sociale, Mario Bonanno, Paginauno edizioni

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