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Ballate di fine comunismo. Le canzoni di Davide Giromini nel deserto del post-cantautorato

Mario Bonanno by Mario Bonanno
5 Dicembre 2023
in Musica
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Ballate di fine comunismo. Le canzoni di Davide Giromini nel deserto del post-cantautorato
  • (Paginauno n. 84, dicembre 2023 – gennaio 2024)

A quale potere abbiamo consegnato le popolazioni dell’ex blocco sovietico dopo averle affrancate dal millantato ‘impero del male’? Nel 1989 della caduta del Muro di Berlino il mondo conclama il superamento dell’accezione monolitica dei poteri politici per consegnarsi al potere parcellizzato delle lobby economiche. Non essendo stata eradicata la piaga virulenta del sistema (il Sistema si abbatte, non si cambia) esso si è frammentato in una miriade di espressioni di potere interconnesse al sistema ulteriore del Capitale. Gurdjieffiani re del mondo gestiscono la competizione economica e l’operato dei governi. Fiancheggiano le industrie delle armi e quelle farmaceutiche. Pianificano, di conseguenza, guerre e pandemie. Depauperano moltitudini e torturano il pianeta. Come scrive Paolo Cacciari (Re Mida, Edizioni La Vela): “Il compromesso sociale tentato dal costituzionalismo postbellico e dalle carte internazionali sui diritti umani non ha retto all’urto neoliberale e neoliberista. La logica del capitale […] non concepisce limitazioni; né dell’estrazione di risorse vergini naturali, né dello sfruttamento del lavoro umano”. I falsi miti di progresso hanno artificializzato il mondo e alterato l’ontologia umana. Attraverso la loro diffusione capillare, le tecno-fedi contaminano industrie, ambiente, medicina, informazione, relazioni, e di conseguenza capacità autonomia di scelta e volere globali. Le più fosche proiezioni futuriste sono realtà poste in essere mediante sperimentazioni su vasta scala, tra il plauso funzionale dei nuovi potentati e la manipolazione dei popoli. La neo-divinità tecnologica ha soppiantato i credo eretti sull’idea di un “radioso avvenire”, in quanto il radioso avvenire – il migliore dei mondi possibili – è adesso e qui. Il passato ideologico è vetusto – il vecchio Dio è morto e il sol dell’avvenire tramontato – né più né meno che il passato merceologico. Soppiantato dal turbo-consumismo, dai flussi e riflussi di una tecnologia digitale quintessenza quotidiana.

Se il presente è da brividi, il futuro un’ipotesi: l’analisi del sociologo Vincenzo Susca (Tecnomagia. Estasi, totem e incantesimi nella cultura digitale, Mimesis, 2022) si radica come endoscopia esatta della fine globale. La tecnomagia come “danza sulle rovine”, come “estasi nel cuore della distopia”. Sì, perché i piani di occupazione del mondo tracciati dai demiurghi del capitalismo tecnologico sono editti subliminali, coattazioni di massa realizzate attraverso l’attrazione ipnotica di spot pubblicitari estesi ai telegiornali e ai tweet della nuova politica, così da favorire la spontanea (?) adesione al pensiero e all’agire unici della neo-massa spettatoriale (persino della propria vita). L’ego-referenzialità del modello economico capitalista aliena l’essere umano da se stesso, colonizzando la salute psicofisica della Terra attraverso il falso mito dello sviluppo e del progresso tecno-scientifico senza limiti.

L’attualità ci sbatte in faccia che siamo a un passo dal punto di non ritorno. Nel milieu della dittatura liberista, la reviviscenza della consapevolezza sociale riguarda anche in primo luogo la riappropriazione di un immaginario supino al sistema di potere. Lo diceva anche Lenin: sognare è necessario, ma nel modo giusto. Che non è certo quello distraente-edulcorato proposto dal sistema mediatico e pubblicitario. Se sottratto alla pervasiva gestione dell’Autorità, l’immaginario (tutto ciò che attiene all’immateriale – arte, cinema, letteratura fantastica, persino la semplice fantasticheria a occhi aperti) – potrebbe costituire in potenza veicolo di affrancamento. Nel primo Zombi di George Romero (1) l’archetipo del non-morto deroga dalla propria accezione orrifica, convertendosi nella configurazione politica del semi-vivo, cioè – in emblema – ingranaggio interno alla catena produttiva. E come scrive Slavoj Žižek, persino nel mediocre Essi vivono di John Carpenter “intravedi una dittatura nella democrazia, l’ordine invisibile che sostiene la tua apparente libertà”.

Questa è la sintesi del contesto su cui tace la surrogata e presunta canzone d’autore di adesso. Morta vivente tra i morti viventi in quanto finita col finire della Storia sociale (negli Ottanta del Novecento). Continuano a chiedermi i nomi di epigoni e di eredi dei cantautori ‘classici’, nomi che non faccio e non ci sono. Il genere cantautorale andrebbe ormai storicizzato in quanto privo del suo collante civile. Nel deserto delle coscienze e della musica attuale, Davide Giromini scrive benissimo, rema sui generis e controvento, e in quanto controvento non è espressione di alcuna reviviscenza cantautorale: seguono appunti ispirati (d)alle sue utili ballate post-cantautorali di fine comunismo nell’evo svigorito del neoliberismo.

2011. Non lasciatevi incantare dallo sfavillio fuxia della copertina: Ballatepostmoderne ha anima neropece, e un’aria poco raccomandabile. Sotto la patina bubble gum della cover è l’analisi più lucida e disillusa sugli Ottanta che sia mai stata messa in canzone. Un album concept. Un porto-franco per fantasmi scomodi. Per ideologues non pacificati. Anime alla deriva, collassi interiori, e spettri sociali. Il de profundis della generazione-Vasco Rossi, intonato senza commiserazione e senza un briciolo di compiacimento. I prodromi del collasso della civiltà in dodici stazioni di una via crucis priva di redentori e promesse di salvezza. La verità nuda e cruda in brutta mostra, non un refolo di speranza in questo (post)disco di Davide Giromini-Redelnoir, dove tutto è transustanziato in poi. Superato, mercificato: ideologie (socialismo, craxismo-reaganismo), miti (Lorella Cuccarini, Rambo, Obi Wan Kenobi), modernismo, punk (certi influssi primo-ruggeriani), con il coraggio di una scrittura antimelodica che sbrindella pillole di ontologia pop – “siamo soltanto pidocchi attaccati alla terra/ pidocchi coi calli alle mani” –, conati di j’accuse, ironia, filosofia, cronaca, storie artificiali, crittogrammi, citazionismo alto e basso. Ballatepostmoderne come una corsa liberoassociativa sulle montagne russe della post-modernità. Si passa da Nietzsche a Bearzot, da Eraclito a Pasolini a Benjamin a Tarkowskij a Heidegger. Si usa ancora nella pop music? Ballatepostmoderne va assunto quindi come sguardo lucido contraltare alla miopia del sistema discografico contemporaneo. Un pugno allo stomaco alla (cattiva) coscienza collettiva, una requisitoria a tinte fosche, più incisiva delle coazioni a ripetersi di alcuni cantautori storici del nostro scontento. Un concept-album disalienato sull’alienazione che sin dai cancerogeni Ottanta, ci avvince come edera di nillapizziana memoria. Una partitura per voce sola che grida nel deserto, e assimila piano e suoni campionati, punk duro & puro e accenti ex cantautorali, in un crossover musicale straniato, ipnotico, irresistibile, balsamo per le orecchie affrante da giusiferrerismo espanso. Sterile svigorire il senso ultimo di un album da assumere nell’insieme, addentrandosi nello specifico e nelle meta-significanze delle tracce-stazioni. Se avete ancora un poco di coraggio per fissare in faccia la fine della storia e l’artificialità ontologica che ne è conseguita, Ballatepostmoderne è il disco che fa per voi.

2015. Sono trent’anni che provo a spiegare che non è questione di cantare o no di politica: il discrimine secondo cui una canzone può dirsi o meno canzone d’autore è dato dal modo in cui essa esprime il proprio contenuto. Attraverso un’impronta sui generis – un’impronta sbieca, storico-ontologica-nichilista-resistenziale – Davide Giromini si concede fuori tempo massimo il lusso dell’impegno, che in Rivoluzioni sequestrate passa dal racconto-filo rosso del conflitto di Stato (se quello di classe vi risultasse indigesto). Il disco, fra gli altri meriti, ha dunque quello della controtendenza. Intanto che il terzo millennio s’avanza contingente all’ombra del tardo-capitalismo, Rivoluzioni sequestrate è un disco funzionalmente sintetico. Della sinteticità spirituale che ci appartiene in quanto contemporanei alla fine del mondo. Se ci finisci dentro senza istruzioni per l’uso, i dischi di Davide Giromini ti stendono al tappeto. Nel senso che sono un cazzottone tirato sotto la cintura dell’ascoltatore: prepararsi a staccare un biglietto per l’iper-distopia realizzata. Rivoluzioni sequestrate ha anche un libro di supporto. Finisce uno e comincia l’altro. O viceversa: dentro e fuori le canzoni e le pagine. Dal suono alla parola, dal lemma alle campionature pulsanti per tastiera. E poi ancora, di nuovo, dalla parola alla voce. Lo specifico compositivo di Girominiè uno specifico liquido. Duttile. Intimamente correlato con la creazione autarchica e il performante. Dentro ci intravedi gli occhi e le bocche di una subumanità transitata per il Grande Nulla di rivoluzioni mancate (e/o sprecate) e alienazioni di massa. Storia e geografie, visioni robotiche, superomismi, derive dittatoriali. Sintomi da corsi e ricorsi storici. Il disco è un concept, sarebbe un peccato rivelarlo nei dettagli. Sarebbe, di nuovo, svilirlo di senso. Rivoluzioni sequestrate va preso per apologo post-umanista. Uno sconfinamento immaginifico dalla storia alla meta-sci-fi. Ci sono dentro trame. E maglie diacroniche. Nichilismo e sangue. Anarchismo e sangue. E sogni e stelle. Rappresi entrambi. Ci sono Robespierre, l’Unione Sovietica, solennità. Le guerre di Libia di un impero italiano di cartone. Rivoluzioni sequestrate è il suono sovrastrutturale delle ere rivoluzionarie dell’uomo. Due tastiere prestano la voce anche a basso e batteria. Il resto sa farlo una fisarmonica vera. I suoni campionati sono eco dell’uomo-robot. Quelli discendenti dalla fisarmonica reggono le fila di quasi tutto il resto. Soprattutto quando il cd dà tregua alla coscienza astratta e si misura con la rivoluzione della/nella Storia. Sono tango, valzer, e insomma, quel tipo di atmosfere lì, a opera del loro Demiurgo che è Giromini stesso. I suoi affreschi visionario-realistici se la vedono ancora faccia a faccia con l’ontologia e la speculazione sui sistemi massimi e minimi. Rimandano a sotto-testi di citazioni, evocazioni, motti, non-detti. Tracce di una scrittura edificata sul Verbo: parole pensate-sofferte-inseguite-intirizzite-piegate-esaltate-sublimate-declamate. Di volta in volta, ancora e ancora: dalla pagina al disco alla voce. Per via di titoli-prologo, ora ossimorici, ora apodittici. Come la cover – algidissima – del disco di Lavinia Mancini. Indicativa dell’aria che tira tra le tracce. Del freddo cane che tira tra le tracce. Retroterra di ogni immagine celebrata/ raffigurata/evocata in Rivoluzioni sequestrate (di ogni sua intonazione canora) sono quindi Suono e Parola (com’era in principio è ora e sempre). Alla radice di ciascuna parola, un ideale filosofico (forse ancor prima che cantautorale) prossimo a una te(le)ologia dell’Abisso. Per Davide Geromini, la fine della Storia viene avant-tout.

2019. L’ho scritto tante volte: la nuova leva finto-cantautorale mi deprime. Mi avvilisce al punto da costringermi a sguardi retroversi: i dischi che ascolto appartengono al passato. Ai tempi in cui il messaggio passava da radio e canzoni, e non da sms. Mi chiedo se è per questo che mi piacciono i dischi di Davide Giromini, un post-cantautore capace di declinare la deriva contemporanea in ballate (di fine comunismo) dove la militanza si innerva negli ambiti crossover del post-punk, dell’indie-dark; il discorso autoriale nell’elettronica new wave (mai pedissequa), il folk nella eco simil-nichilista del dark. A parte il filo-rosso della Storia – o meglio, della sua fine – Davide Giromini è un’araba fenice, si ripete poco o non si ripete affatto: dissemina il suo sentiero discografico di trittici e dittici significativi: tre dischi indiesfolk ai tempi degli Apuamater. Ballate di fine comunismo, Ostalghia e Ballatepostmoderne a firma – nell’ordine – Giromini Redelnoir, Giromini e La maledizione, poi Redelnoir e basta. Rivoluzioni sequestrate e quest’ultimo Vento nero, incisi invece con nome e cognome propri. Verrebbe da pensare a un’inclinazione mimetica, al tentativo identitario di adattarsi o sopravvivere ai tempi. Non fosse che i tempi (questi tempi) escono dai dischi di Giromini con le ossa rotte, attraverso la rilettura copiosa, senza remore e senza tregua, che ne restituisce. La cosa più importante è che l’analisi dello sfacelo, piuttosto che nello stile-tazebao del protest song, si evolve in Giromini in forma (in una scrittura) sapiente-tagliente, figlia – si vede e si sente – di sedimenti, buone letture, buoni ascolti, e altrettanto senso civico e critico. Per strade più scorrevoli ma altrettanto corrosive, il post-cantautore Davide Giromini si fa interprete del discorso avviato dalla canzone di contenuto sociale, riflettendo sulla Storia (appunto) e su come essa gravi sulle vite degli uomini non illustri (“la storia no, non siamo noi” recita – parafrasando De Gregori – un passaggio dello stupefacente Manifesto metastorico individuale). Una Storia che – brechtianamente – ha memoria solo di chi vince. Il resto è massa.

Secondo queste accezioni Vento nero è da assumersi come l’ennesimo concept album di Giromini: otto tracce-stazioni attraverso le quali è esplicitato il grado zero della civiltà a cui siamo costretti (Diceva il corvo, Italia, Vento nero, Autobiografia preindustriale). E d’altro canto, evidenziate le ricadute sociali di un Sistema post-ideologico, criminalmente liberista e manipolatorio che ci triangola alternando bombe ad anestetici, fascismi occultati da distrazioni di massa. Vento nero è un disco senza edulcoranti, buio-pece, e dunque salutare, e dunque forse anche salvifico. L’omaggio a Ivan Della Mea nel quale sfuma (Resurrezione per rivoluzione) autorizza infatti a pensare a un superamento: a una raccolta di testimone politico, a estremi rigurgiti resistenziali. Un cd stavolta più acustico che syntetico, che colloca  Giromini nell’alveo ormai ristretto dei cantautori (vabbè post-cantautori) impegnati.

2022. E se lo svaporare dei grandi ideali avesse sancito l’instaurarsi della babele poliglotta dei linguaggi a vuoto? Sul baratro dialettico della storia e la fine della storia, le ballate sintetiche di Davide Giromini compulsano il tradimento ontologico e, nel contempo, il tragicomico insidiarsi del non-sense nel mondo senza bussole. Una contemporaneità annaspante tra “l’avvenire e il sol dell’avvenir”, psicofarmaci, astronavi aliene, fughe dalla realtà e fughe dalla politica, “odio sotto forma religiosa (che) prende il posto della scienza”, post-impegno e lusinghe nichiliste. Manifesto post-pop rinforza (se possibile) lo straniato andirivieni tesi/antitesi, zombi del presente/fantasmi del passato, cui Giromini ci ha abituati sin dai suoi primi album (questo è il suo decimo). Quasi un compendio dell’idea di canzone (post e iper cantautorale) secondo l’ex Re del Noir: storia, politica, filosofia intrecciati a un discorso musicale che guarda all’ex declamare padano-sovietico dei CCCP e a contenuti protest-song, trascendendo entrambi per coerenza ideale e anti-retoricismo (“…i CCP/ ci prendevan per il culo con l’elettrica il tamburo/ tutti punk rivoluzione tutti in culo alla pensione al posto fisso al TFR/ per finire da Ferrara a far le fusa a Ratzinger”). È un fatto che Davide Giromini sappia come tenere la penna in mano, accendere le strofe col cervello, immune da medietà e didascalismi. Il suo prosare fluviale, occhieggia a evocazioni più che a ermetismi, padroneggia il tazebao quanto l’aforisma filosofico, il mitismo cantautorale come il poetare per libere associazioni apparenti del primo Franco Battiato. Manifesto post-pop comincia allora dove finisce il realismo para-letterario della migliore scuola cantautorale, lo aggiorna al naufragio globalista, lo transustanzia in claustrofobismo, in dolore, in qualche caso disillusione. Il pianetoide dell’apocalisse pop-ideale ripreso e rappreso nel cd, è l’ex pianeta del crepuscolo e insieme della fuga dalla realtà. Secondo le direttive di fuga dall’ideologia, dell’adesione sterile alle droghe, nei casi più estremi persino attraverso un visionarismo alieno da sub televisione (Malanga, Biglino, Malanga recital). Manifesto post-pop è insomma il disco della perdita di senso e della sconfitta collettiva, un concept claustrofobico che tra profluvi di locuzioni proprie, citazioni altrui, refoli di (auto)ironia si affaccia sull’abisso del no-future.

Comunisti del terzo millennio scalfisce, irriga e declina visivamente la coscienza di chi ci credeva e di chi ci crede ancora (non certo l’attuale fascio-sinistra): ”…paghiamo caro in società la Cina Cuba ed il Vietnam tra un altro sciopero e Stakanov tra 100 fiori nei cannoni e 100 molotov noi non sappiamo neanche più chi siamo […] compagni lasciamo stare è un fatto di seduzione non di scelte alla Mara Cagol non di fabbriche e occupazione non di fasci e capitalismo non di falci e rivoluzione ma bolscevismo futurismo è un fucile e un berretto che vola in qualche canzone”.

E la ripresa acustica di Manifesto metastorico individuale, in un mondo diverso dal mondo dove vige l’unanimismo di pensiero, dovrebbe (potrebbe) funzionare come introduzione a libere letture di (contro)storia: ”La storia ci appartiene solo in parte e quella parte non è storia per i libri della storia la storia in quanto tale deve essere raccontata e quindi taglia seleziona falciatrice di esistenze non perdona chi non fa qualcosa di importante per il bene per il male non importa la storia nella storia ci si nuota per negare a sproposito parlare di politica non tenendo conto poi che il tempo è solamente quell’eterno istante e nulla si ripete e nulla parte la storia se non lo sapete evitate congetture evitate le bandiere soprattutto non mettetevi a sedere su nozioni non sicure come il male come il bene ottime intuizioni per dividere l’insieme”.

I testi di Giromini costituiscono insomma l’anamnesi esatta dello sfacelo globalista, ma più che savonarolici rimbombano come caratura dolente del cronachismo del dopo-bomba (dis)valoriale. Di nuovo: tra smarrimenti generazionali [“Siamo tutti vissuti senza essere nati siamo uomini di latta e leoni umiliati siamo spaventapasseri morti dentro il giro sbagliato di corvi insetti e zanzare”, Manifesto post-pop (politico esistenziale)] e (ironici) dileggi coniugati in rivendicazione politico-musicale (“Quando ascolto Alessio Lega/ penso alla gente cazzo gliene frega/ di cantanti censurati e di anarchici incazzati Malatesta e Bakunin […] Quando provo a emanciparmi casco dentro l’astrattismo in Rocco Marchi/ devastati dai Negroni di Canterbury e Dusserdorf e dai Carmina di Orf/ suoneremo un synth malato su di Ulriche Meinhoff/ Ecco che ringiovanisco fino al cuor della rivolta canta Cisco/ finalmente Che Guevara io ritorno al combat folk/ ma poi salgo sulla Porche nel mio sogno miliardario inoculato da un vaccino contro il pop”, La mia personale storia della canzone impegnata). Da una fuga esistenziale [Fuga da Sanpa (cane e Sert)] alla denuncia di un odio sociale divenuto capillare, da che governo Draghi è stato governo Draghi (L’odio): “L’odio scrive un alfabeto con le pieghe della faccia/ L’odio passa da uno stadio fra le pagine del Mein Kampf/ L’odio parte da uno stadio per finire fra le righe del Mein Kampf”.

Sostenuta musicalmente da Giovanni Biancalana (basso), Giulia Giannetti (flauti traversi), Steve Lunardi (violini), e dalla voce e i cori di Selenia Zabaroni, l’esegesi della Fine si srotola tra le tracce del Manifesto post-pop di Geromini per mezzo di una scrittura formalmente ruvida-lucida-barocca-lisergica al contempo, opportunamente restituita (nel booklet) senza punteggiatura. Un richiamo implicito al taglio sperimentale-militante di Nanni Balestrini. Un riflesso allucinato della corsa senza scopi – nell’autodromo finto-dorato e ultra-vaccinato del neocapitale – a cui ci hanno iscritti. Più militante e disalienante di così.

1) Cfr. Mario Bonanno, Zombi. La progenie afasica del Capitale, Paginauno n. 75, dicembre 2021/gennaio 2022

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