Il neomecenatismo all’italiana che tanto piace ai capitani coraggiosi
Ve lo ricordate Totò che vende a un oriundo di ritorno dall’America – si chiama Decio Cavallo, ma il principe lo ribattezza subito Caciocavallo – la Fontana di Trevi? Abbiamo riso tutti davanti al film Totòtruffa (1962) ma, a posteriori, avremmo dovuto prendere la conversazione fra i due molto sul serio. Perché quello che sta avvenendo oggi nel Belpaese è davvero la (s)vendita ai ‘bisnissmèn’ del patrimonio culturale italiano, e chi ci guadagna, una volta di più, non è la collettività.
Il caso Colosseo
Se si chiede a un qualunque turista straniero di citare un monumento italiano, la risposta quasi sicuramente sarà il Colosseo. Con i suoi duemila anni di storia l’Anfiteatro Flavio è il monumento più visitato del Paese, e registra 5 milioni di ingressi ogni anno, che generano circa 5 miliardi di euro in ricadute economiche, fra ricavi diretti e indotto. La biglietteria del monumento incassa da sola 25 milioni l’anno, destinati tuttavia a pagare i conti dell’intera area archeologica romana: il Colosseo è soggetto a una sorta di redistribuzione dei suoi redditi, necessaria per assicurare un futuro anche ai resti antichi commercialmente meno fortunati. Per la gestione e la conservazione dell’anfiteatro restano alla fine appena 800 mila euro l’anno, briciole rispetto a quanto servirebbe anche solo per gli interventi di normale manutenzione.
Così il Colosseo cade letteralmente a pezzi: dal gennaio scorso l’anfiteatro è circondato da una fascia di sicurezza invalicabile larga fino a 15 metri, necessaria per preservare i passanti da eventuali cadute di frammenti: secondo la sovrintendenza negli ultimi due anni sono caduti tanti pezzi quanti ne erano caduti nell’arco dei 10 anni precedenti. Che gran parte della colpa sia dello smog che corrode le pietre, e soprattutto delle vibrazioni causate dal traffico dei veicoli (ben duemila all’ora) e dei tram intorno al monumento, non c’è nessun dubbio, ma a quanto pare la vita moderna ha i suoi ritmi e non si possono cambiare, almeno per altri tre anni: “Il nuovo piano del traffico, che ridurrà l’impatto sul Colosseo c’è già – ha assicurato Alemanno – e arriverà nel 2015”.
Intanto ecco aleggiare nell’aria l’ormai solito refrain: bisogna chiedere ‘aiuto’ ai privati. L’industriale delle scarpe Diego della Valle ha risposto con entusiasmo, mettendosi una mano sul cuore e sul tavolo ben 25 milioni: “Vivendo di made in Italy – sottolinea l’imprenditore marchigiano – il gruppo Tod’s cerca solo di fare il suo dovere. Il Colosseo è un monumento che appartiene all’Italia e ai cittadini del mondo”. Parrebbe il concetto di give back tanto caro oltreoceano: il progetto prevede il restauro delle facciate nord e sud, quello degli ipogei (consentendone la parziale apertura al pubblico), e la costruzione di un centro servizi. Sul tema del ‘neomecenatismo’ all’italiana è scoppiata però una vivace polemica. A parte i lavori urgenti, finanziati dalla sola sovrintendenza (come un intervento indispensabile sulle arcate), i ricorsi legati ai nuovi appalti hanno bloccato a lungo il varo del progetto sponsorizzato. Come mai? Il Codacons ha contestato prima davanti al Tar (perdendo), e ora davanti al Consiglio di Stato (la sentenza è attesa per aprile/maggio), il ritorno di immagine che l’azienda si assicura alle spalle di un patrimonio che è di tutti.
Perché il bel gesto non è disinteressato come si vorrebbe far credere: in cambio del suo contributo Della Valle avrà l’esclusiva (l’esclusiva!), sull’immagine del monumento per quindici anni “eventualmente prorogabili”, potrà gestire il marketing del biglietto d’ingresso e un centro di accoglienza legato alla istituenda fondazione “Amici del Colosseo”, e fin da subito il marchio Tod’s campeggerà sui ponteggi, naturalmente – come prescrive il comma 2 dell’art. 120 del Codice dei Beni culturali – “in forme compatibili con il carattere artistico e storico del monumento e con il decoro del bene” (ma chi scrive non ricorda, e se ne duole, mecenati che pretendessero di mettere la propria firma sul capolavoro che finanziavano).
A queste condizioni il Colosseo è regalato, altro che give back, e infatti il mecenatismo alla Della Valle sta velocemente prendendo piede fra gli industriali: il 28 gennaio le sorelle Fendi hanno dichiarato di mettere a disposizione 2 milioni di euro per la Fontana di Trevi e 180.000 euro per il complesso delle Quattro Fontane, che saranno a breve oggetto di un importante restauro.
Cultura o petrolio?
Le più grandi fan del modello, manco a dirlo, sono le Regioni, soprattutto quelle a elevata intensità artistica, a cui non par vero di poter trasformare in denaro sonante una storica (è il caso di dirlo) voce di costo dei loro bilanci. Con il suggestivo slogan “La cultura è il petrolio dell’Italia”, l’Adn-kronos ha titolato una serie di lanci dedicati “all’impegno e alle prospettive delle Regioni per la valorizzazione dei beni culturali”: “L’Italia potrà essere il sesto o settimo Paese industrializzato del mondo, però è certamente la prima potenza culturale del pianeta”, sottolinea all’Adn-kronos Mario Caligiuri, assessore alla cultura della Regione Calabria e coordinatore della Commissione beni culturali della Conferenza delle Regioni.
Gli fanno eco il presidente della Regione Umbria, Catiuscia Marini, e quello dell’Emilia Romagna Vasco Errani, che addirittura chiedono a gran voce una legge di defiscalizzazione per i privati che investono nei beni culturali, per rendere ancora più appetibile il neomecenatismo: non basta più la svendita dei monumenti, servono ulteriori incentivi. Il presidente della storicissima Toscana, Enrico Rossi, ovviamente approva e sottoscrive: il modello Colosseo si può esportare anche in altre regioni italiane, “con procedure adeguate e regole pubblicamente fissate”: “I dati dicono che la Toscana ha una percentuale consistente del patrimonio culturale mondiale. Il Paese dovrebbe predisporsi a valorizzarlo di più, a conservarlo meglio e a ricavare maggiori risorse da questo patrimonio”, per cui serve una legge che “consenta la defiscalizzazione sugli investimenti dei privati. In Toscana arriverebbero parecchi finanziamenti. Noi avevamo pensato di farla sulla fiscalizzazione regionale, ovviamente potremmo attivarci solo a partire dall’entrata in vigore dell’autonomia finanziaria”.
In questa logica, dal momento che l’Italia non ha risorse naturali spendibili sul mercato (giacimenti minerali, petrolio, ecc.), ma è ricchissima in termini paesaggistici e soprattutto storico-culturali – un’eredità che le deriva da ventotto secoli di civiltà ininterrotta – si dovrebbe mettere a ricavo questo patrimonio. Nella classifica Unesco dei siti patrimonio dell’umanità, l’Italia si piazza in effetti prima, con 47, davanti a Spagna e Cina: basterebbe sfruttarli a dovere, si dice, per risolvere molti problemi che ci attanagliano, primo fra tutti reperire risorse per i sempre più scarni budget ministeriali. Invece negli ultimi dieci anni il bilancio del ministero dei Beni e delle Attività culturali si è quasi dimezzato: nel 2000 in cassa c’erano poco più di 2 miliardi, nel 2011 rimaneva meno di 1 miliardo e mezzo, lo 0,19% del bilancio dello Stato. Come spiega Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, ai microfoni di Euronews: “Qualche tempo fa girava una battuta che fa ridere ma che è anche molto amara, diceva: ‘Lo sai che il 60% dei beni culturali del mondo è in Italia?’ ‘E il resto?’ ‘Il resto è in salvo’.
Ecco, questo è il problema dei beni culturali in Italia. C’è stata una cultura di governo in questo Paese che ha considerato i beni culturali come una spesa in più, una spesa superflua, un peso economico”.
La cultura non ha prezzo
Ma possiamo all’opposto considerare un monumento una risorsa da sfruttare, proprio come il petrolio? Purtroppo, come dice il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan (1), il concetto di bene culturale in realtà non esiste: vi sono solo “gruppi e complessi di cose che hanno importanza per la storia, la condizione presente e i prossimi sviluppi della cultura”, e la cultura non è proprietà di persone, di classi o di singoli Paesi, ma è di tutti. Bene culturale significa dunque bene pubblico. E anche se il termine ‘bene’ ha un senso patrimoniale, il patrimonio di cui i beni culturali fanno parte, cioè il patrimonio culturale, è mondiale, immateriale (dipende dal valore artistico o storico, ma non intrinseco dei beni), e ciascun Paese risponde del proprio a tutto il mondo civile.
Ogni Paese civile ha leggi che proteggono, cioè disciplinano, l’uso del proprio patrimonio culturale: all’apparato giuridico corrispondono servizi tecnici e amministrativi per l’interpretazione e l’applicazione delle leggi di protezione (in Italia la tutela è addirittura di dettato costituzionale, all’art. 9). Il patrimonio culturale e ambientale è in parte di proprietà demaniale, in parte di proprietà di enti e privati, ma – proprio in quanto parte di un patrimonio unitario – anche le cose di proprietà privata sono d’interesse pubblico: ciò comporta ovviamente degli impedimenti e delle limitazioni nella disponibilità delle cose da parte dei proprietari. La legge tuttavia evita di contraddire al principio della discrezionalità dei proprietari, perché “l’apparato giuridico dello Stato è strutturato in funzione della difesa della proprietà privata: ne discende che le stesse leggi dello Stato per la protezione del patrimonio culturale e ambientale sono in deroga o, comunque, in difficile sintonia con l’apparato giuridico globale.
Da ciò dipende la riluttanza, da parte delle magistrature locali e nazionali, a sostenere il preminente interesse pubblico e dello stesso Stato alla fruibilità di beni privati da parte della collettività. Conseguenza più grave è la riduzione della legislazione protettiva a una serie di limitazioni e divieti che la rendono impopolare, inutilmente restrittiva, scarsamente efficace. Inoltre, non potendosi costruire una politica costruttiva sulle limitazioni e i divieti, l’Italia è riuscita soltanto a organizzare un’amministrazione, non una politica dei beni culturali e ambientali: la tutela non è mai diventata, come sarebbe necessario, un vettore della programmazione. Non essendoci una politica culturale, ma soltanto una conservazione, per di più insufficiente, è comprensibile, ancorché deplorevole, che lo Stato destini al patrimonio culturale una parte vergognosamente piccola del proprio bilancio”.
Il pensiero di Argan è chiaro, e sconvolgente nella sua lucidità: la radice del problema è che un sistema giuridico costruito per difendere la proprietà privata si trova in grosse difficoltà quando si tratta di tutelare ciò che è pubblico. Anche la storica mancanza italiana di programmazione nella gestione dei beni culturali non dipende dunque da cattiva volontà o incapacità, ma è strutturale in senso proprio, cioè dipende dalla struttura dello Stato. E a ben guardare anche la Costituzione si tiene alla larga dal problema, limitandosi a un genericissimo “la Repubblica […] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Pubblico o privato
“Alla fine del Settecento, per effetto della secolarizzazione della cultura avviata dall’Illuminismo e sistematizzata dall’ideologismo della rivoluzione francese, è cominciato il passaggio alla proprietà pubblica dei patrimoni culturali delle corti, dell’aristocrazia, dei conventi. Ha favorito il processo di deprivatizzazione lo sviluppo dell’archeologia e della storia dell’arte secondo metodologie scientifiche di ricerca, classificazione, giudizio. La formazione dei grandi musei pubblici era in rapporto con la nuova esigenza di raccogliere e ordinare i documenti della cultura del passato secondo criteri scientifici che non riguardavano soltanto la conoscenza e la conservazione del materiale, ma la sua disponibilità e funzionalità ai fini di una cultura che si voleva generalizzata e non più patrimonio esclusivo di classi privilegiate. Nel nostro secolo, poi, la trasformazione delle strutture sociali ed economiche determinata dallo sviluppo della produzione industriale e dalla diversa distribuzione e gestione della ricchezza ha portato alla dissoluzione delle raccolte d’arte e delle biblioteche private, perfino degli archivi delle vecchie famiglie patrizie.
Il processo di alienazione e di dispersione dei beni culturali privati, però, non è avvenuto soltanto come passaggio dalla sfera privata alla pubblica: la borghesia, cioè la nuova classe dirigente, ha cercato di subentrare alla vecchia nel possesso di un patrimonio culturale che cosi è divenuto, oltre che motivo di prestigio sociale, oggetto di speculazione commerciale” (2). Si sono dunque determinate le due tendenze contrarie il cui contrasto sta raggiungendo oggi carattere di alternativa, anzi di dilemma. Da un lato si vuole e si chiede una disciplina dei beni culturali, che comporta logicamente la limitazione della libera disponibilità della proprietà: la pubblica amministrazione, per esempio, non potrebbe cedere il Colosseo come location per eventi privati, perché il bene è pubblico, e nemmeno venderne l’immagine a un privato, o trasformarlo in un centro commerciale i cui proventi vadano ad aziende private. Dall’altro la privatizzazione, nata come desiderio del ricco borghese di fregiarsi del prestigio della vecchia classe dirigente (una sorta di tesoro di guerra), preme oggi, più che per il possesso materiale del bene, per la sua gestione manageriale, cioè direttamente o indirettamente finalizzata al mercato e al profitto.
“Lo scontro tra le due tendenze è stato ed è molto aspro, ma la tendenza al mercato e alla privatizzazione è obiettivamente (e sciaguratamente) più forte, anche perché i governi borghesi tendono logicamente a proteggere gli interessi della borghesia e gli investimenti privati in fatto di mercato dei beni culturali sono stati incomparabilmente maggiori degli investimenti pubblici. Inoltre si è accentuata la tendenza, da parte dei Paesi più ricchi, ad appropriarsi, attraverso il mercato, dei patrimoni culturali dei Paesi più poveri: è un’emorragia ancora relativamente lenta, ma inarrestabile” (3).
Il patrimonio artistico si trasforma quindi da tesoro da proteggere in fattore di produzione di una gestione manageriale. Non può essere considerato un caso che il direttore generale del ministero per i Beni culturali dal 2009 al 2012 sia stato uno come Mario Resca, ex amministratore delegato di McDonald’s Italia, ex presidente di Confimprese, presidente di Italia Zuccheri, consigliere di amministrazione di Eni, del Gruppo Mondadori, di L’Oréal, e di Rcs. A fine mandato, lui che di competenze storicoartistiche non ne aveva nessuna (a meno che vendere hamburger o tinte per capelli sia considerata una forma d’arte), ha confidato a Il Giornale che il problema è che in Italia non si accetta il fatto che il patrimonio culturale, oltre ad essere tutelato, possa anche essere una sorta di merce da vendere, ai turisti come ai privati. Il suo cruccio più grande è stato quello di “non essere riuscito a rifare le gare per il rinnovo delle concessioni dentro i musei, secondo le regole della libera concorrenza. Avrei voluto, dentro ogni museo, il meglio della ristorazione, il meglio dei servizi di bookshop, il meglio delle guide multimediali. Aumentando l’appeal dei luoghi d’arte. Ecco, qui siamo ancora impantanati nella difesa corporativa, nelle posizioni acquisite, nelle cricche che rifiutano il mercato”.
Come si valorizzano i beni culturali, allora? Trasformandoli nell’attrazione di un centro commerciale, perché dove ci sono turisti, c’è denaro da spendere. Il cittadino comproprietario del bene si trasforma in consumatore, e non di cultura, ma di collaterals: libri, cibi, gadget. Sono queste cose che aumentano l’appeal di un monumento, non il contrario. Ma una volta destituito Sandro Bondi da ministro della Cultura sarà cambiato tutto, si dirà, un uomo colto come Lorenzo Ornaghi avrà nominato una persona di tutt’altra pasta. Invece sotto le apparenze la sostanza non muta: nuovo direttore generale del ministero è Anna Maria Buzzi, docente di economia della cultura (!) alla Lumsa di Roma, autrice, guarda caso, già nel 2005 di un libro sulle agevolazioni fiscali per chi investe in cultura (4).
Leonardo vs Tod’s
Al fronte dell’interesse pubblico, che è anche l’interesse della scienza e della cultura (considerato immobilista, polveroso, autoreferenziale, arcaico), si contrappone dunque il fronte della privatizzazione (dinamico, fresco, aperto, moderno), indubbiamente più forte non solo in termini di appeal, ma anche in quanto a mezzi economici e sostegni politici. Dice Argan, e lo diceva già nel 1986 (a dimostrazione che il fenomeno non è così moderno come si vorrebbe far credere), che il fronte della privatizzazione è in movimento, anzi in fase offensiva: “Col sistema solo apparentemente benefico delle cosiddette sponsorizzazioni il grande capitalismo non si accontenta più di ‘aiutare’ lo Stato e gli enti pubblici nel pesante compito della tutela del patrimonio, ma tende ad assumerne in proprio la gestione: e cioè la direzione culturale del Paese.
Non si può negare che il capitalismo sia portatore, oltre che di forti mezzi finanziari, di moderne tecnologie e metodologie, che possono anche giovare alla conservazione delle cose e perfino alla riforma del sistema; ma non occorre essere profeti, basta un po’ di buon senso per capire che il coinvolgimento del patrimonio culturale in un grande sistema di mercato porterà inevitabilmente al sovrapporsi degli interessi economici ai culturali, specialmente dei Paesi poveri come l’Italia. Né tanto si mira, da parte del grande capitalismo, a un passaggio della proprietà (che sarebbe difficile e oneroso) dalla sfera pubblica alla privata, cioè dal museo al mercato, ma alla privatizzazione dell’interesse pubblico, e cioè all’assunzione della direzione culturale da parte del grande capitale. E ciò sarebbe di una gravità inaudita perché sarebbe una piena e grave rinuncia allo stesso ordine democratico” (5). I grandi gruppi privati, industriali o finanziari (cioè il mercato), ambiscono dunque a ben altro che a pietose dinamiche di give back, che del resto non gli sono mai state proprie. Obiettivo: la direzione culturale del Paese, per sostituire l’artista con il brand, e le occasioni di riflessione con occasioni di consumo.
E i cittadini con che cosa?
Cultura o sviluppo economico?
Che gli interessi economici alla fine prevalgono su quelli culturali è già un dato di fatto. Confcultura (l’associazione, aderente a Confindustria, delle aziende private che gestiscono i servizi “per la valorizzazione, fruizione, e promozione del Patrimonio Culturale”, il cui slogan è “In art we trust”), chiede a gran voce che il ministero della Cultura e dei Beni culturali si dedichi solo a opere di conservazione del patrimonio artistico, e che le sue competenze gestionali passino al ministero per lo Sviluppo economico: non solo, insomma, i costi dovrebbero essere a carico della collettività e i profitti a favore dei privati, ma l’interesse prevalente per quanto riguarda lo sviluppo dovrebbe essere quello economico.
Ma noi, tutti noi, cosa stiamo rischiando? Lo dice ancora Argan: “Solo il patrimonio culturale e ambientale potrà salvare l’individuo e la collettività dalle conseguenze fisiologicamente e psichicamente nefaste dello stato di alienazione, di non-adattamento, in cui lo pone l’uso che la borghesia capitalistica ha fatto e fa delle cose della cultura e dell’ambiente.” Se permettiamo quindi che l’ambiente e la cultura vengano considerati solo per quel che producono, ci rassegniamo a fare la stessa fine: l’individuo è parte indissolubile del territorio e del sistema culturale, di cui è nello stesso tempo creatore e fruitore, e se la cultura è una merce, chi la produce è una macchina.
(1) G.C. Argan, Beni culturali: ma di chi?, in Insegnare, a. II, n. 7-8, luglio-agosto 1986
(2) Ibidem
(3) Ibidem
(4) A.M. Buzzi, Investire in Cultura, guida alle agevolazioni fiscali, Mibac, 2005
(5) G.C. Argan, art. cit.