Nuove tecnologie ed egemonia digitale: come ci stanno cambiando? Tablet gestiscono e controllano il lavoro, smartphone creano le nostre mappe concettuali e ci chiudono in un sapere procedurale: l’innovazione tecnologica è progresso sociale? È ora di domandarselo
Incontro-dibattito sul libro L’egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, a cura di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2016), presso il Csa Vittoria, Milano, 20 ottobre 2016
La letteratura sul mondo di internet, sui cambiamenti che la nuove tecnologie digitali stanno generando, è abbastanza vasta. Tuttavia è una letteratura tendenziosa, perché o affronta il problema in maniera molto teorica oppure dal lato dei social network, che in apparenza è quello più diffuso o quello su cui si cerca di attirare maggiormente l’attenzione. Ma questo territorio, pur nella sua importanza – noi abbiamo cercato di farne una lettura con L’Impero virtuale, un lavoro che ha preceduto questo – è un aspetto secondario, perché il vero nodo delle tecnologie digitali è ciò che caratterizza il passaggio dal capitalismo industriale-finanziario a quello che tutti chiamano capitalismo digitale. Un passaggio interno al modo di produzione capitalistico, e dunque anche al modo di consumo, di conduzione delle mappe culturali, e questo caratterizza una trasformazione sociale profondissima che non coinvolge soltanto alcuni aspetti della vita sociale e comunicativa, ma il nostro modo di essere all’interno della società, alla radice.
Il passaggio dal capitalismo industriale-finanziario – che ha dominato l’Ottocento, il Novecento e l’inizio del secolo attuale, e che tuttora occupa uno spazio consistente del modo di produzione capitalistico, benché in declino – a quello attuale, rappresentato da una oligarchia industriale e produttiva completamente nuova che quindici anni fa non esisteva (aziende come Google, Amazon, Facebook…), è caratterizzato da due tendenze che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: una è l’enorme velocità delle transazioni e delle trasformazioni.
Un’azienda che quindici anni fa non c’era e che oggi è quella che ha il più alto fatturato del mondo e investe tre miliardi di persone sul pianeta, è un problema, perché ci mostra una velocità di sviluppo incommensurabile a confronto con la General Motors, per esempio, l’impresa che negli anni Sessanta aveva il fatturato maggiore. Nei secoli scorsi ci sono voluti cent’anni alle aziende automobilistiche per acquisire una posizione di mercato significativa a livello mondiale, qui stiamo invece parlando di soggetti produttivi nati in pochissimi anni, e con un’occupazione irrisoria rispetto ai livelli precedenti – Google, la più grossa struttura mondiale per importanza, fatturato, coinvolgimento di persone, in tutto il mondo non ha più di 50.000 persone alle sue dipendente, cioè nulla.
Ma a questa enorme velocità corrisponde una enorme lentezza nella percezione delle trasformazioni che queste strutture ci mettono sotto gli occhi e nelle tasche, nelle mani, nel portafoglio, e rispetto alle quali ci dobbiamo confrontare. Poiché solo quindici anni fa queste aziende non esistevano, era molto difficile prevedere le modalità con cui avrebbero operato, tant’è che oggi arranchiamo nella difficoltà di non applicare, in una maniera ingenua o pigra, le chiavi interpretative che si sono sviluppate nell’Ottocento e nel Novecento. In questo doppio movimento di velocità enorme e lentezza ci troviamo dunque spaesati, ed è qui che cogliamo oggi uno dei più grossi problemi e delle più grandi lacune, perché una persona spaesata non è in grado di affrontare la dimensione con cui si deve confrontare, che è una dimensione di malessere, di immense aree che vengono polarizzate verso la povertà, espulse dai livelli di consumo. Esiste oggi un nuovo tipo di esclusione sociale, quella tecnologica, digitale: interi gruppi sociali vengono buttati fuori dal mondo.
Questo è il quadro, e per entrarci inizierò raccontando una storia che ha toccato il nostro cantiere sociale, emblematica e interessante. È la storia di un lavoratore di un’azienda importante leader nel mondo, la Leroy Merlin, e che chiamerò Filippo.
Un giorno Filippo va a lavorare come al solito, e l’azienda gli dice: da oggi tu dovrai utilizzare questo bracciale elettronico, un tablet che entra in funzione con il badge, appena Filippo fa il suo ingresso in azienda. Filippo va allo spogliatoio e poi al punto di lavoro, dove è abituato a incontrare il capo reparto che gli dà le indicazioni per la giornata. Ma lì non trova nessuno e sente invece un beep beep provenire dal suo tablet sul braccio, lo guarda, e vi trova scritte sette operazioni che deve compiere. Sullo schermo appare: operazione numero 1, spostare il bancale X dal posto Y al posto Z, 7 minuti; operazione numero 2, spostare un altro bancale, 12 minuti, e via di seguito. Filippo si accinge a svolgere il suo compito e trova un altro lavoratore, che è stato convogliato anche lui dal suo tablet su quel bancale per fare quell’operazione, ma non si possono parlare perché al primo saluto che si scambiano, il tablet dice: dovete lavorare, non chiacchierare, se chiacchierate vi leviamo punti.
Quali punti? Lo scoprono dopo la prima operazione. Fanno il lavoro in 8 minuti, e il tablet segnala che ci hanno messo un minuto in più del previsto, dunque gli verranno tolti 120 punti; ma indica anche che se nella seconda operazione impiegheranno un po’ meno dei 12 minuti previsti, dei punti verranno aggiunti, quindi potranno tornare in equilibrio. Finite le sette operazioni, il tablet gliene assegna immediatamente altre, per esempio è entrata tanta gente in negozio quindi dice a Filippo di andare al posto X a fare l’operazione Y per 42 minuti, ecc. Filippo quindi scopre che da quel momento viene remunerato con dei punti, e che la sua vita non è più regolata da relazioni prossimali con una gerarchia, ma che la gerarchia è incorporata in uno strumento che è diventato il suo capo.
Abbiamo raccolto tante storie di questo genere, e sono tutte uguali. L’aspetto interessante, intanto, è che il tablet bracciale è prodotto dalla Motorola, un’azienda tra le prime a essersi formate nella produzione di telefoni cellulari a livello internazionale e che poi ha lavorato soprattutto con il Dipartimento di Stato americano per la tecnologia digitale, e oggi è leader nella produzione di strumenti del controllo.
Cerchiamo quindi di capire che cosa significhi oggi il controllo del lavoro, quanti versanti ha. Rimaniamo all’interno di questa storia per vedere cosa ci insegna, al di là dello sgomento, sul cambiamento della modalità della gestione del lavoro in azienda. Non abbiamo più una gerarchia
prossimale, relazioni tra lavoratori, ma un mutamento radicale di quella che è stata la categoria principale di lettura del mondo del lavoro in tutto il Novecento, ossia la categoria del ‘tempo’.
Sappiamo tutti che storicamente i contratti retribuiscono ore di lavoro – l’azienda compra lavoro e lo paga tanto all’ora – e si articolano intorno a una categoria di tempo che è il tempo orario; sono state fatte quindi, e si fanno tuttora, lotte per diminuire l’orario, aumentare la retribuzione oraria ecc. Ora, nel passaggio al capitalismo digitale, questa categoria di tempo non ha più alcun valore, perché ciò che viene misurato dal bracciale non è l’ora di lavoro ma quanto lavoro viene fatto realmente all’interno di un’ora.
Quindi siamo dentro una retribuzione che non è più del tempo di lavoro ma della produttività in tempo reale. Questo cambia completamente il quadro, perché è immediatamente chiaro che la quantità di lavoro che un lavoratore deve svolgere per rimanere all’interno del precedente standard è, se non raddoppiata, sicuramente molto intensificata. Quindi il cambiamento dell’idea di tempo comporta un cambiamento dell’idea di intensità dello sfruttamento.
Si modifica però anche l’idea di spazio, perché qual è lo spazio tra due persone che sono intermediate da un dispositivo digitale? Possono essere migliaia di chilometri. Prendiamo i droni, per esempio, che vengono lanciati in Afghanistan, Siria o Iraq, da una base che sta in Italia o negli Stati Uniti. Esiste oggi la possibilità in tempo reale di vedere un territorio, esplorarlo, decidere con un impulso di mandare un drone e colpire, stando in una stanza a 100, 1.000 chilometri. Quindi la distanza non si misura più in metri o chilometri, ma in tecnologia.
Questo è un problema di fondo, perché pone la domanda: la tecnologia della Motorola, da chi è realmente gestita? Da un capo che sta in una stanza al terzo piano, oppure da un ufficio che gestisce 40/50 strutture della Leroy Merlin in giro per l’Italia o per l’Europa? È una questione importante, perché ci dice che la mutazione dello spazio comporta anche il fatto che i lavoratori, benché spazialmente vicini in metri, ma dotati ognuno di un dispositivo digitale che li collega a una piattaforma, sono in termini di spazio, di distanza tecnologica, lontanissimi.
Questa mutazione profonda dell’idea di tempo e di spazio ci pone un problema che ora vorrei spostare dal mondo del lavoro a tutti i mondi, un aspetto che riguarda ciascuno di noi in termini molto concreti e pratici. Gli smartphone sono ormai diventati una tecnologia digitale che indossiamo, che ci portiamo in tasca, e dobbiamo capire come questo ragionamento si concretizza attraverso questa tecnologia con la quale abbiamo una maggiore famigliarità.
Innanzitutto, essa ci pone di fronte un primo problema fondamentale: funziona se si è connessi. Vale a dire che il nostro telefono, come il Gladiator di Filippo, funziona solo dentro un sistema di connessioni: il dispositivo di Filippo è connesso con la piattaforma, il nostro con internet. Già questo ci dice una cosa, ossia che non siamo noi, come persone, in connessione, ma lo sono gli strumenti, gli oggetti sono connessi tra di loro. Da questa connessione usciamo molto ridimensionati rispetto agli ultimi 30/40.000 anni di storia.
L’umanità ha impiegato decine di migliaia di anni per imparare a operare con delle tecnologie strumentali (il fuoco, la ruota, la scrittura ecc.). Sono strumenti che venivano manovrati da chi li utilizzava – il meccanico il cacciavite, il muratore la cazzuola, lo studente la penna. Lo strumento si qualificava dunque come una specie di protesi del corpo, e attraverso questo potenziamento strumentale venivano realizzate delle operazioni. Con Gladiator, con lo smartphone, succede esattamente l’opposto: il rapporto non è più tra corpo e strumento, unilaterale in questo senso, ma è rovesciato, perché è lo strumento che decide cosa fa, cosa può fare e cosa farà quel corpo. Gladiator dice a Filippo cosa fare, se lo ha fatto bene o male, se ci ha messo troppo tempo o poco, se gli mette punti o glieli toglie… vale a dire lo gestisce: lo strumento ha il comando di Filippo. Filippo lo indossa, ma paradossalmente è Filippo che è indossato dallo strumento.
Guardiamo ora la microfisica del potere di questa relazione con lo strumento. Che cosa succede quando utilizziamo lo smartphone? Prima operazione, lo connettiamo, ossia lo strumento si connette; seconda operazione, vogliamo mandare una email, un messaggino, una domanda su Google, facciamo dunque un’azione, un’operazione che in termini tecnici si chiama ‘produzione di un documento’. Nel momento in cui realizziamo questa operazione, lo strumento ne fa subito un’altra che dice: alle ore 22.30, nella città di Milano, dal dispositivo XY è stato prodotto il documento Z. Poi prende i due documenti e li mette in due armadi: in uno archivia la vostra domanda, nell’altro il metadocumento, cioè la possibilità di richiamarlo.
Moltiplicate queste operazioni per 50, 200 miliardi di produzioni di documenti in un giorno, ed è facile capire che siamo dentro una situazione in cui delle imprese, proprietarie dei brevetti e degli strumenti che utilizziamo, ricevono 30/40 miliardi di domande, quindi un patrimonio di informazioni che hanno la caratteristica di essere trasformazioni del vostro atto; in una parola, ‘dati’. Che non sono nostri.
Noi abbiamo fatto una produzione di un dato e l’abbiamo consegnata ai proprietari del dispositivo, i quali l’hanno inserita nei loro armadi e a questo punto hanno un patrimonio di migliaia di dati ogni giorno, su cui faranno operazioni di varia natura: di ricerca, commerciali, economiche, li venderanno ecc., e ci faranno grandi affari. Questa è la ragione per cui questi strumenti vengono dati gratuitamente, perché sul nostro lavoro produttivo le aziende fanno miliardi di profitti.
Se guardiamo questo meccanismo da un punto di vista di classe, la produzione di questi dati diventa produzione di plusvalore assoluto, vale a dire io produco un documento senza essere compensato che costituirà la base della ricchezza del padrone a cui lo consegno, quindi è una produzione di lavoro gratuito. Ci troviamo quindi improvvisamente all’interno di un panorama in cui oggi nel mondo miliardi di persone stanno producendo gratuitamente plusvalore per aziende capitalistiche, che sono proprietarie non solo delle tecnologie ma anche dei dispositivi tecnologi, perché ce li vendono, e noi ne siamo in possesso perché li abbiamo comprati e tutti i mesi paghiamo una quota per connetterci a internet.
Ma c’è un’altra implicazione. Una volta che abbiamo prodotto dei dati, questi vengono registrati, vale a dire restano in quegli armadi insieme con i metadati che li identificano, sicché ogni ulteriore vostro dato consentirà, attraverso i metadati che lo riguardano, di specificarvi e tirarvi fuori come un pesce rosso dall’acquario nel momento cui qualcuno lo vorrà. Per cui se qualcuno vorrà sapere cosa avete fatto in un determinato giorno sarà sufficiente un algoritmo particolare per pescare in questi armadi e tirare fuori il vostro profilo, una traccia del vostro passaggio nel mondo. È chiaro quindi che non stiamo solo producendo ricchezza per altri, ma anche un controllo su noi stessi, esattamente come Filippo che con ogni operazione produce valore per l’azienda e traccia del suo operato.
Dopo sei mesi sarà possibile verificare tutte le sue tracce, e magari vedere che il suo rendimento è sostanzialmente costante ed è un profilo basso, per cui meglio licenziarlo che tenerlo. Attraverso le tracce che noi lasciamo esiste ormai la possibilità di documentare momento per momento la vita delle persone, e in questo senso l’idea di controllo sociale oggi si fonda intimamente e profondamente con l’idea di produzione del valore; non sono più due momenti legati a due istituzioni. Abbiamo quindi istituzioni nuove che hanno la caratteristica di sommare insieme questi due momenti, che storicamente erano assegnati a istituzioni diverse che operavano con strategie diverse.
Giusto per fare un’osservazione che andrebbe sviluppata, possiamo anche dire che chi produce plusvalore assoluto storicamente sono gli schiavi: veniva dato loro solo il sufficiente per mangiare, per rimanere in vita. Tutta la storia del movimento operaio si è sviluppata per appropriarsi di una parte, sempre maggiore, del valore prodotto. Stiamo quindi entrando in un’era in cui il capitalismo digitale recupera l’idea di schiavitù, e la ripropone sotto forma di un lavoro volontario e gratuito disseminato e suadente, per cui, in qualche misura, non lo percepiamo neppure come tale, perché attraverso ideologie come quella della trasparenza, del mettete tutti i vostri dati in rete, le fotografie, i viaggi, i selfie, stiamo entrando in un’idea nuova del controllo sociale, perché autogenerato dagli stessi controllati; e dovremmo capirne a fondo le implicazioni.
Facciamo un ulteriore passo: cosa succede in ciascuno di noi mentre produciamo un documento? Compiamo un atto, il dispositivo lo cattura, e in questa operazione cattura anche le operazioni mentali che abbiamo compiuto, perché possiamo compiere solo quelle operazioni che il dispositivo accetta. Questo è un passaggio importante, legato al titolo del libro, che recupera un’idea di Gramsci, quella di egemonia, in una maniera molto particolare. Il dispositivo produce le strategie mentali attraverso cui lo possiamo usare, perché se non lo utilizziamo secondo quelle strategie, obbligatorie per farlo operare, non funziona; se non ci adattiamo a digitare con il pollice, a richiamare le app in un certo modo, a fare quei passaggi da un simbolo a un altro, lo strumento non funziona; c’è, ha tutte le potenzialità, ma ha delle mappe concettuali implicite che si svelano solo nel momento in cui noi impariamo a utilizzarle, e quindi ci abituiamo a utilizzarle.
È un passaggio di una potenza trasformativa gigantesca, perché cambia completamente l’intera storia del Novecento dal punto di vista della colonizzazione dell’immaginario, vale a dire della costruzione dell’egemonia. E qui Gramsci ci viene in aiuto. Analizzando il problema del potere, Gramsci aveva proposto una sottilissima discussione tra quella che è la linea del dominio e l’opportunità, da parte dei dominatori, di metterla in secondo piano. Sottilmente aveva detto: è ovvio che il potere è dominio, altrimenti non sarebbe potere; ha il potere di fare qualcosa e anche di sottomettere qualcuno, ha la forza per farlo, quindi è dominio; ma è altrettanto ovvio che un potere che ha la forza del dominio ha più interesse a usarla il meno possibile, perché significa vivere in un territorio costantemente teso. Se dunque riesce a costruire delle rappresentazioni delle situazioni, tali che le persone dominate le facciano proprie, ecco che i dominati non confliggeranno più con il potere, ma utilizzeranno le sue stesse rappresentazioni per spiegarsi la propria situazione e accettarla.
Da qui noi leggiamo la funzione della scuola, degli intellettuali, degli apparati culturali, dei giornali, dei catechismi, delle scuole di partito ecc., perché ogni gruppo di potere deve costruire delle rappresentazioni che in qualche misura facciano presa sulle persone; con McLuhan poi il ragionamento si è allargato ai media, come base della trasformazione dei modi di vedere e di concettualizzare la realtà.
Oggi questo discorso lo possiamo prendere e buttare alle ortiche, non ha più alcun significato. Benché ci siano ancora tutti questi strumenti, la dinamica di produzione dell’egemonia non funziona più così. Oggi ti viene venduto, e tu lo compri, un oggetto che ti è diventato indispensabile per sopravvivere in questo tipo di mondo, e vai a lavorare e hai delle tecnologie che operano nello stesso modo. L’intermediazione tecnologico-digitale sta diventando onnivora, mangia ogni aspetto della vita, e si attiva secondo mappe concettuali incorporate che funzionano nella misura in cui tu le metti in funzione, vale a dire produci strategie mentali per farlo, per adattartici, e queste mappe culturali diventano quelle con le quali vivi. È in atto una discussione, molto pericolosa, sulla servitù volontaria; molti filosofi, bravi e interessanti per diverse cose, ci inducono progressivamente a pensare che dato lo stato di passività che c’è in giro, le persone ormai si fanno volontariamente schiave.
Ma il problema qui non è la volontarietà. Filippo non ha alcuna volontarietà a usare il suo tablet, non può non usarlo, perché altrimenti viene socialmente escluso dal lavoro; gli studenti della seconda elementare di Biella o di Bari non possono non usare i tablet della Samsung, dati gratuitamente, perché un’idea nuova di scolarizzazione dice che occorre digitalizzare la scuola, e quindi elimino il cartaceo e ti do un tablet, e alla piccola età della tua prima socializzazione non ti dico più cosa devi pensare ma come devi usare uno strumento, che ti insegnerà le mappe concettuali con cui tu potrai stare al mondo.
Mappe concettuali volute, prodotte, costruite da aziende proprietarie capitalistiche, che oggi hanno in mano l’universo sociale dentro il quale ci muoviamo. Quindi la produzione di mappe culturali non passa più per una via ‘alta’, l’intellettuale che dice dovete pensare così, il prete ecc.; tutto ciò esiste tuttora e ci sarà ancora per un po’ di tempo, ma adesso abbiamo un ragazzo che a quattordici anni ha già lo strumento in tasca, e se si vuole procurare delle informazioni deve imparare le procedure per farlo.
Deve cioè imparare una mappa con cettuale che le precedenti generazioni non hanno mai appreso in giovane età, che è il sapere procedurale, che non è conquista di una conoscenza ma di una procedura con cui io conquisto una conoscenza. Se io conosco quella procedura mi procuro una app che mi dice come fare ad arrivare in un posto anche se non conosco la città, prendo il navigatore e gli dico: dimmi come fare ad arrivare là. E di questa strada, del percorso che ho fatto per arrivarci, non conoscerò mai nulla, non conoscerò la città, solo le procedure per procurarmi le conoscenze.
È una modalità completamente nuova perché queste conoscenze che andiamo a procurarci sono il famoso armadio secondo; quando pongo la domanda, infatti, i dispositivi che la analizzano sono in grado di leggere tutte le domande che ho fatto e di darmi la risposta più conveniente per le strutture produttive. Per esempio: se oggi negli Stati Uniti due persone chiedono a Google come andare da una via all’altra, hanno due soluzioni diverse; è un dispositivo già operante, in Italia non ancora ma arriverà, che prima di darti la risposta traccia il tuo profilo e vede, per esempio, che sei uno che legge libri, e allora ti dirotta su una via dove sono presenti delle librerie. Dà quindi una risposta rispetto a un’idea di consumo.
Dispositivi, app, smartphone, intermediazioni tecnologico-digitali filtrano dunque oggi la produzione delle nostre conoscenze e progressivamente generano mappe culturali, che già significa imporre, costruire egemonia, vale a dire il modo attraverso cui guardiamo il mondo e ce lo rappresentiamo. E se sono in grado di leggere il tuo profilo e di curvare la tua rappresentazione del mondo a una serie di seduzioni che colgono nel tuo vissuto, ho in mano una capacità non solo di controllo sociale di tipo poliziesco, ma una ben più interessante che è il controllo dei processi di consumo, oggi misura dell’esistenza. Non esiste più infatti un’idea di cittadinanza fuori da un’idea di consumo: se non siamo in grado di pagarci l’affitto, le cure, i tram, andiamo a piedi, ci sbattono fuori casa e dalla dimensione sociale, ci escludono digitalmente.
A tal punto tutto questo è oggi diventato una questione seria che nelle più grandi università americane, lo potete verificare facilmente, non si può più entrare soltanto sulla base del reddito e del merito, che erano i due criteri essenziali, ma ne è stato istituito un terzo: la reputazione digitale. Vale a dire che se tu, Filippo, chiedi di entrare nella mia università, io vado a vedere chi sei nel mondo, e scopro che non hai Linkedin, non sei su Facebook, non utilizzi Twitter e non metti le tue fotografie su Instagram, e mi chiedo: chi sei, un terrorista? Ti tieni fuori da ciò che a me consente di profilarti? E allora non ti prendo. L’assenza dai media, dalla produzione sistematica e continuativa di informazioni, quindi l’assenza di tracciabilità, è oggi diventata una penalizzazione sociale.
C’è quindi una pressione a essere sempre più presenti. Ma questo non vale solo per le grandi università americane, anche per le imprese che assumono. Esistono programmi che fanno la lettura del profilo digitale, e sono in vendita normalmente, quelli più economici non funzionano particolarmente bene ma già con un costo medio si può avere in mano qualcosa di buono, oltre a esserci intere agenzie che fanno questo lavoro per le aziende. E non filtrano le assunzioni nell’esercito o nei servizi segreti, ma per normali lavori.
Dunque sempre più il cerchio si stringe, sempre più diventa importante capire bene questa intermediazione, perché ne dipenderà il nostro futuro scolastico, sanitario, nel mondo dei trasporti – quello della reputazione digitale era un criterio molto importante imposto da Uber all’inizio, per esempio, non solo ai suoi autisti ma anche ai clienti che volevano salire sulle automobili, dunque siamo alla profilazione di chi viaggia.
Voglio chiudere il ragionamento ponendovi quattro grandi territori di riflessione che abbiamo in qualche misura assunto come territori di tendenza forte.
Il primo è di per sé ovvio, ma ha un’implicazione fortissima sul piano culturale, ed è il trionfo della ‘quantità’. Quando parliamo di tecnologie digitali parliamo di parti dell’esperienza umana che sono traducibili in dati, vale a dire in numeri. Tutta la tecnologia digitale funziona a base quantitativa, occorre trasformare delle conoscenze in numeri e dati, perché poi ci saranno altre modalità, gli algoritmi, che leggeranno questi numeri e creeranno i profili e tutto ciò cui abbiamo accennato. La trasformazione quantitativa del mondo, lo si coglie intuitivamente, è una delle caratteristiche costitutive del capitalismo, che trasforma in valore e in denaro l’attività umana. Facebook funziona con i ‘mi piace’, le visualizzazioni… numeri. La scuola sta cambiando, entra il registro elettronico e poi il metodo Invalsi, e io comincio a valutarti solamente in base a degli algoritmi che leggono la trasformazioni in numeri del tuo percorso scolastico.
Stessa cosa per le carriere dei docenti: quelle universitarie sono regolate dai numeri delle pubblicazioni annuali, dal numero di pubblicazioni su riviste particolarmente quotate, dal numero di citazioni che ricevono i libri pubblicati ecc. Tutto ciò dà origine a un numero finale, e il prof. Filippi avrà 184 e il prof. Rossi 122, e il numero più alto, ovviamente, vince. La trasformazione in quantità è un grande problema perché ci rende ciechi rispetto alla questione fondamentale dell’esistenza umana, che è sempre stata quella di generare qualcosa che prima non esisteva, e dunque la creatività e la capacità di creare una qualità diversa che non è certo numerabile. Se appiattiamo il mondo alla sua dimensione quantitativa uccidiamo una parte dell’anima della nostra specie, quella che ha sempre creato il futuro, la trasformazione, il cambiamento.
La seconda direttrice è ciò che abbiamo chiamato ‘autismo digitale’, ovvero la morte del noi. È una terribile esperienza umana che vediamo tutti i giorni in metropolitana, nei treni, perfino in casa, in teatro, in chiesa… persone che ormai sono connesse, transitano da un posto all’altro senza guardare nessuno e niente, non conoscono più l’ambiente, il territorio, la faccia delle persone che gli sono intorno, guardano nello schermo. È una chiusura non nel proprio corpo, come l’autismo dei detenuti nei campi di concentramento, persone che non ce la facevano più a sopportare la realtà che stavano vivendo e si chiudevano in loro stesse; l’autismo digitale è entrare nel dispositivo, esservi risucchiati come corpi, vite, storie.
È un’esperienza che dal Giappone agli Stati Uniti alla Svezia oggi viene studiata con enorme preoccupazione, in Giappone c’è un’enormità di giovani che non esce più dal virtuale, dalla connessione, di casa, che entra in relazioni soltanto per queste vie. Gli psichiatri li hanno chiamati hikikomori, ma persino a Milano e a Roma c’è un gruppo di medici e psichiatri che si stanno interessando a questa situazione. E non è una patologia che riguarda delle persone, è una tendenza sociale che dobbiamo imparare a guardare, a conoscere e ad affrontare tutti insieme, perché è un problema che riguarda il nostro modo di vivere e non il modo di vivere di qualcuno che è diventato una vittima predestinata, quasi ci fossero persone più deboli che non ce la fanno.
Il terzo territorio è quello che abbiamo definito ‘obesità tecnologica’. È quel rimpinzamento di tecnologia creato da una dinamica di dipendenza. Quando voi avete un dispositivo tecnologico, da quel momento dipendete dagli aggiornamenti continui, di cui lo strumento non vi chiede minimamente notizia perché già assumendolo li avete autorizzati, sono fatti in vostro nome. Ma gli aggiornamenti sono anche predisposizioni del dispositivo per nuove app, oppure per portarvi via quello che ci mettete dentro. Quindi si entra in una dipendenza tecnologica che è obbligatoria, ed è un problema serio perché questo ci metterà di fronte a una trasformazione profondissima del rapporto di proprietà. È ciò di cui si sente parlare in merito alle automobili automatiche, che andranno senza autista: saranno pochissime aziende ad averle, tu potrai usarle, ci sali sopra, paghi con la carta di credito, la utilizzi, ma il parco macchine non sarà più gestibile da te ma nelle tecnologie e nelle forme che loro decideranno.
Esistono tre implicazioni dell’obesità tecnologica: l’esternalizzazione delle conoscenze, della memoria e dell’intelligenza. Tre operazioni che cambiano la nostra antropologia. Ho già fatto accenno al sapere procedurale: non serve che tu sappia delle cose, le conoscenze ci sono, c’è bisogno che tu impari a prenderle. Questo significa che le conoscenze le hanno altri, tu puoi avere le procedure per procurartele. La tua memoria poi, non è più tua. Nel momento in cui l’hai scritta sul digitale, hai caricato le tue fotografie, i ricordi del giorno in cui ti sei innamorato, hai fatto un viaggio ecc., tutto finisce negli armadi di queste strutture, e se vorrai recidere il rapporto con quel social network non ti verranno più restituite. Ma anche se è la posta elettronica, è la stessa cosa, come ha mostrato lo scandalo di Yahoo, tutte le mail consegnate ai servizi di sicurezza. Il punto non è se abbiamo qualcosa da temere, ma che non abbiamo più controllo sulle cose che facciamo, non c’è più intimità con le nostre produzioni.
L’esternalizzazione dell’intelligenza è infine la cosa più grave che sta succedendo, e va sotto la voce di intelligenza artificiale. Significa che se oggi un medico deve preparare una terapia per la cura di un cancro, per esempio, benché brillante, studioso, il migliore, può avere accesso a 3.000 diagnosi, avrà studiato 5.000 casi… ma io, IBM – che si installerà a Milano nella zona dell’ex Expo con i soldi del governo italiano – se mi dai i dati di un determinato caso lo comparo con otto miliardi di casi che esistono nel mondo, perché prendo i dati di tutto il pianeta, dunque i miei algoritmi fanno diagnosi migliori. E i medici dovranno prenderne atto, dice IBM, quindi tanto vale che si convenzionino con noi e ci diano tutte le loro informazioni. Ma IBM è un’azienda privata, ha degli algoritmi proprietari e brevettati, nessuno sa quali siano: quali operazioni fa sulla salute dei cittadini di tutto il mondo?
La quarta tendenza, infine, non vorrei venisse letta in una sfumatura un po’ moralistica: è lo smarrimento del limite. La questione dei limiti è molto importante nella storia dell’umanità, che l’ha sempre regolata con dei tabù culturali, non uccidere i tuoi figli, per esempio, perché c’è stato un periodo in cui i figli venivano sacrificati agli dei. La discussione dei limiti ha dunque una natura etica ma nello stesso tempo un’implicazione politica, e stabilire dei limiti è molto importante.
Per esempio: nella seconda guerra mondiale non sono stati stabiliti molti limiti rispetto al rastrellamento delle persone di un orientamento politico o di un’appartenenza supposta etnica, per cui i nazisti in Germania e i fascisti in Italia hanno pensato di prendere delle persone – omosessuali, comunisti, zingari, anarchici, ebrei… – e chiuderle in campi di concentramento e ucciderle; oppure gli americani non hanno stabilito molti limiti quando, finita la guerra, senza averne alcun bisogno, hanno sganciato due bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki, 200.000 morti subito e altri 300.000 dopo.
È stata la tecnologia a generare questo superamento dei limiti? La tecnologia c’era. O è stato Truman? O sono stati Hitler e Mussolini? O è stato un governo? O è stato l’esercito americano, o il pilota che ha sganciato la bomba? Ecco, questo è un problema di limiti. Dobbiamo sapere che a volte delle capacità umane possono compiere atti, gesti, pratiche, che in quanto umani riteniamo di non volere e non potere compiere. Oggi esiste una discussione filosofica molto importante nelle comunità scientifiche che lavorano sulla tecnologia, in particolare in un filone che si chiama transumanesimo, al quale afferiscono e aderiscono tutte le grandi figure dell’oligarchia tecnologica digitale; essi dicono che la tecnologia non si deve porre dei limiti, come affermava il capitalismo, l’importante è andare avanti, l’innovazione tecnologica è di per sé un valore positivo.
Io dico invece che a questo punto ci viene posta una domanda politica serissima e veramente importante, perché riguarda la filosofia, l’etica, la responsabilità che ognuno di noi si prende nel mondo: qual è il significato che vogliamo dare alla parola ‘progresso’? È una discussione difficilissima da fare. Che significato vogliamo dare a questa parola che ci ha riempito di scritti, giornali, libri, riviste per gli ultimi due secoli? Il progresso tecnologico visto come una possibilità di emancipazione e di crescita, una possibilità di migliorare le umane sorti… chi non si è collocato nel campo del progresso e del progressismo? Tutti gli scritti di Marx vanno in questa direzione, tutta una serie di orientamenti nei territori ci hanno sempre visto, come sinistra, porci su questo terreno, dove la parola progresso era abbinata comunque allo sviluppo delle tecnologie – poi certo se ne faceva la critica dicendo, con Marx, che nelle tecnologie si interiorizzano i rapporti di produzione, dei valori impliciti, e dunque dobbiamo fare differenziazioni.
Io oggi invece pongo una questione di fondo: se non sia giunto il momento in cui l’idea di progresso sociale prenda le distanze dall’idea di innovazione tecnologica. Perché siamo forse arrivati su una frontiera in cui ci dobbiamo porre dei limiti molto precisi per quello che riguarda l’implementazione tecnologica, e dobbiamo metterci in grado di misurarla rispetto alle implicazioni sociali che comporta. È una discussione che bisognerà aprire ed è molto articolata, e va ben oltre una stupida separazione tra chi è pro e chi è contro. Si tratta di comprendere quale destino vogliamo, se quello di Google, dei big data, o quello di un’umanità consapevole delle sue capacità, e della possibilità di orientarle in una direzione piuttosto che un’altra.