Benessere animale, sicurezza alimentare e ridotto impatto ambientale sono i temi con cui viene promossa la carne coltivata: non è così. Quali sono i reali interessi, quale l’approccio tecnologico e chi finanzia la ricerca di un cibo destinato ai ricchi e ai viaggi spaziali
“La macchina ha trasformato ciò che c’è di più immediato per l’uomo, la sua casa, il suo mobilio, il suo nutrimento.”
Jacques Ellul, La tecnica rischio del secolo
I numeri della carne
Nella città-prefettura di Ezhou in Cina svetta un grattacielo di 26 piani conosciuto come “pig palace” (1). Si tratta del più grande allevamento di maiali al mondo che, al pieno della sua capacità, può mandare al macello fino a 1,2 milioni di suini l’anno. Questi maiali occupano le fila degli oltre 80 miliardi di animali uccisi annualmente per la produzione di carne, escludendo quelli morti durante il processo di allevamento (2). Tali numeri sono presto spiegati dai dati circa il consumo di carne pro capite pari, nel 2022, a 70,57 kg in Cina, 122,8 kg negli Stati Uniti, 73,58 kg in Italia (3); quantità destinate a crescere. Secondo la FAO (4), infatti, in vista dell’aumento della popolazione mondiale (5), la produzione annuale di carne dovrà crescere di oltre 200 milioni di tonnellate, per raggiungere i 470 milioni di tonnellate.
Tutto ciò si traduce anche in consumo di suolo e inquinamento. Il 70% del terreno agricolo è occupato da animali da allevamento o da colture destinate a foraggiare gli animali, come quelle del mais e della soia, i principali ingredienti dei mangimi. A livello mondiale, il Brasile rappresenta uno dei massimi fornitori di soia, un primato che ha fatto sì che per favorire la monocoltura del legume sia stato devastato il Cerrado (situato nell’altopiano del Brasile), considerato la savana con la più alta biodiversità al mondo (6). Spostando lo sguardo sul nostro territorio, è l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) a dichiarare che gli allevamenti intensivi sono la causa del 75% di tutte le emissioni di ammoniaca in Italia e la seconda fonte di polveri sottili nel Paese (7).
Questo scenario ci mette davanti al rischio reale di non poter più seguire gli attuali standard di produzione e consumo di prodotti di origine animale, possibilità rispetto alla quale è stata presentata una soluzione: la carne coltivata in laboratorio.
Dove il piatto è servito
È il 1931 quando Winston Churchill in un saggio breve intitolato Fifty Years Hence, pubblicato sulla rivista Strand Magazine, immagina un mondo in cui si faranno crescere solo le parti commestibili di un animale in ambienti speciali e paventa l’idea di nuovi cibi: “Sfuggiremo all’assurdità di far crescere un pollo intero per mangiare il petto o l’ala, coltivando queste parti separatamente in un mezzo adatto. In futuro, naturalmente, useremo anche cibo sintetico. […] I nuovi cibi saranno fin dall’inizio praticamente indistinguibili dai prodotti naturali e qualsiasi cambiamento sarà così graduale da sfuggire all’osservazione” (8). Le parole di Churchill sembrano anticipare quello che avviene nel 2013 quando Mark Post, ingegnere olandese dell’Università di Maastricht, presenta alla stampa il primo hamburger ottenuto dalle cellule staminali di una mucca: 250.000 euro il prezzo stimato, cifra che teneva conto dei costi degli esperimenti e dell’uso delle strumentazioni (9).
Ma cosa s’intende per carne coltivata?…
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