Felice Bonalumi
Il cinismo dall’antica Grecia a oggi
“L’abilità cinica procede di trionfo in trionfo, fino al trionfo finale che l’annienta.”
Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito
Dal latino cynicus, a sua volta dal greco kynikos da kyôn = cane, quindi alla maniera, al modo dei cani. Non è chiaro se l’appellativo sia nato come dispregiativo o derivi dal fatto che i cinici frequentassero il Cinosarge che si trovava appena fuori Atene e dove c’era un ginnasio. Il dubbio riguarda Antistene come fondatore della scuola cinica: il suo pensiero intende contrapporsi all’oggettività del concetto socratico-platonico per una sorta di nominalismo che limita la conoscenza della realtà ai puri nomi in quanto, essendo questi ultimi propri di ogni oggetto, non è possibile giungere a formulare giudizi. È celebre il suo: vedo il cavallo ma non la cavallinità.
In effetti sembra più probabile che sia stato Diogene di Sinope il primo cinico e, soprattutto, quello a cui fu affibbiato per primo l’appellativo. Secondo Diogene Laerzio in lui fu particolarmente accentuato il momento di critica sociale, contro la famiglia, contro la politica e la proprietà privata. Fu lui a usare per primo il termine cosmopolita e a dichiararsi cittadino del mondo, fatto semplicemente inaudito in un’epoca in cui l’appartenenza a una città e a un gruppo erano l’identità stessa di una persona.
Una cosa è certa: nel corso della storia il termine ha assunto solo significati negativi. Il cinico antico, infatti, era colui che cercava l’uomo vero, l’uomo di natura e per questo riduceva all’essenziale i suoi bisogni seguendo una morale rigorosissima. L’immagine della lanterna con cui Diogene in pieno giorno cerca l’uomo è emblematica, ma fra le leggende tramandate c’è anche quella che vede come protagonisti lo stesso Diogene e Alessandro Magno. A Corinto l’imperatore voleva incontrare il filosofo e lo trovò che stava prendendo il sole: per sua sfortuna, dell’imperatore, gli si mise davanti e alla sua domanda di chiedergli tutto quello che voleva, Diogene rispose che si spostasse perché gli levava il sole.
In termini strettamente filosofici non esiste un canone con cui caratterizzare la scuola cinica antica in modo univoco e senza incertezze. Più genericamente si intende per cinico colui che non partecipa a quelle che sono le illusioni dell’uomo come la ricerca del potere, della ricchezza, della gloria, del piacere e colui che a tutto questo contrappone la ricerca concreta della felicità che è vivere in sintonia con la natura. La felicità così intesa implica una sorta di riduzione dei propri bisogni al minimo indispensabile, bisogni materiali innanzitutto, ma anche emozionali, affettivi, e ciò si raggiungere con una rigida disciplina morale, tanto che si potrebbe parlare anche di ascesi.
Tuttavia sarebbe un errore relegare i cinici antichi all’ambito morale, perché la felicità si può raggiungere solo con la lucidità mentale, il che significa liberarsi dell’ignoranza, dei falsi giudizi. È chiaro che la polemica è contro i socratici, ma occorre tenere presente che il punto di partenza dell’intera scuola cinica è la distinzione socratica fra natura e legge, quest’ultima da rispettare sempre e comunque, e si intendono ovviamente le leggi della polis: la soluzione cinica è opposta, come difesa dell’individuo, al pari del nominalismo in campo gnoseologico.
Lo si può dire in altro modo: i cinici sono i primi critici della civilizzazione di cui vedono con lucidità i lati negativi e assumono un atteggiamento di non partecipazione. Socrate senza Atene non ha senso esattamente come un cinico non ha senso se gli accollassimo una città. Più in generale la civilizzazione come allontanamento da una vita naturale e per questo origine di corruzione: un concetto che ripetutamente ritornerà nella cultura occidentale.
La storia della scuola cinica antica è complessa e si parla infatti di un primo e di un secondo cinismo inoltrandosi fino al quarto-quinto secolo d.C. Non va dimenticato, inoltre, che il pensiero cinico ebbe influenza sul primo cristianesimo e, da parte loro, i primi cristiani non nascosero il giudizio positivo sulla povertà come modo di vita dei cinici. Non solo, il modello dei monaci mendicanti, presente all’inizio del cristianesimo, si può far risalire ai cinici. Le molte leggende e citazioni dei tanti filosofi cinici hanno creato, per così dire, il ponte con il cinismo moderno. La cui definizione è, se possibile, ancora più vaga e incerta rispetto alla scuola cinica antica. Cosa si intende oggi con questo termine?
Certamente un individuo mosso da una totale sfiducia nei confronti degli altri che affronta spesso con ironia, se non sarcasmo, come difesa. La motivazione è che ogni uomo è per natura egoista e lucidamente persegue i propri interessi. Tuttavia non bisogna confondere questa posizione con quella della scuola liberale nel suo fondatore di fatto, Thomas Hobbes. L’homo homini lupus è, nella condizione di civilizzazione, la base teorica del concetto di concorrenza, mentre un cinico è indifferente, non partecipa alla messinscena che si chiama società.
Quanto si dà al singolo individuo vale anche per l’intero genere umano, nel senso che il cinico non ha fiducia nell’umanità intera la cui natura è ab aeterno materialista e utilitarista. Il che pone un problema non risolto: il materialismo e l’utilitarismo si danno di tutti i membri dell’umanità come condizione sine qua non dell’umanità stessa con l’eccezione del cinico. La domanda ovvia diventa: il cinico non è dunque parte dell’umanità? O, eventualmente, da cosa deriva il suo essere fuori da ciò che è umanità?
Altrettanto sicuramente per cinico oggi si intende un critico a 360 gradi di tutto ciò in cui gli altri credono, cioè dei valori di una società: non solo, dunque, sfiducia negli uomini, ma soprattutto sfiducia nei confronti di tutta la realtà. Il cinico non crede in niente e, in fondo, le icone del cinismo moderno, da Lord Byron al Dottor House della omonima serie televisiva, appartengono a questo gruppo.
Tutto ciò implica una non meglio chiarita posizione gnoseologica: con questo atteggiamento il cinico non vedrebbe la realtà attraverso le lenti di un’ideologia o comunque un pensiero pre-costituito, pre-definito, ma la vedrebbe così com’è. Tale posizione viene tuttavia sviluppata solo in termini negativi, di contrapposizione, di critica e non, come nel cinismo antico, di ricerca della virtù. In pratica il cinico odierno afferma che la vera realtà è quanto rimane dopo avere tolto quelle che sono le idealità, positive e negative, che fanno interpretare e agire nella realtà stessa gli altri uomini.
Critica che, come è facile intuire, trova il proprio apogeo nella sfiducia verso la politica e non semplicemente verso le istituzioni sociali. Il politico non merita fiducia perché non solo agisce per il proprio interesse personale ma lo fa creando aspettative e illusioni: questo pensa il cinico.
Per altro, anche in sede storica la parola cinismo è ampiamente usata e allora c’è stata una diplomazia del cinismo (per esempio, classica è considerata quella di Talleyrand) e cinici sono stati considerati, almeno per qualche evento della loro vita pubblica e/o privata, più o meno tutti gli uomini politici che hanno fatto la storia degli ultimi due secoli.
Esiste ovviamente anche un cinismo intellettuale ed è facilmente comprensibile considerando la quantità di battute attribuite ai cinici antichi. Come esempio ne riporto qualcuna da Diogene Laerzio (1): “Se hai già dato [l’elemosina] ad un altro, dà anche a me; altrimenti comincia da me”, “La gabbia non è adatta alla selvaggina [vedendo una donna in lettiga]”, “Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone”.
Si può ritrovare Woody Allen in queste frasi, ma non è difficile rintracciare passaggi cinici in tanti autori. Un esempio da Charles Bukowski (2): “Le due più grandi invenzioni dell’uomo sono il letto e la bomba atomica: il primo ti tiene lontano dalle noie, la seconda le elimina.
Tuttavia non si deve confondere cinismo e arguzia. Non ogni uomo arguto è cinico, mentre ogni cinico dovrebbe e comunque può usare l’arguzia per demolire il sentire e gli ideali comuni. Semmai vale la pena porre l’attenzione su un fatto che avrebbe fatto inorridire un cinico antico: il cinismo intellettuale è una moda e il cinico colto è ricercato. Con le sue battute, dette elegantemente e con grazia, assicura l’attenzione intorno a un tavolo o in un salotto e la conclusione amara di ogni sua analisi ha l’effetto di rassicurarci: nulla di nuovo sotto il sole, il mondo va avanti ancora!
Ma perché ciò avvenga è necessaria una condizione: la battuta deve essere generalizzante e poggiare saldamente su luoghi comuni. In altre parole: nelle battute del cinico intellettuale, che si considera unico, l’individuo è scomparso, rimane l’anonimato della massa.
È altrettanto facile avvicinare cinismo e individualismo. Tuttavia anche in questo caso una differenza c’è ed è fondamentale: l’individualista si ritira nel suo mondo privato in cui edonisticamente dice di trovare tutte le soddisfazioni e tutto ciò che ricerca e di cui ha bisogno. Decide, cioè, di non partecipare, di non impegnarsi nella società. Il cinico, per così dire, viene prima: sa che i valori della società, qualunque essi siano, sono non affidabili.
Uguale distanza fra cinismo e relativismo. Per quest’ultimo ogni teoria, ogni visione del reale è necessaria ma inevitabilmente nessuna può assurgere alla verità, per il cinico ogni teoria porta lontano dalla realtà e in questo senso è inutile e dannosa.
Tuttavia la differenza abissale tra cinismo antico e moderno è relativa a un altro aspetto o, meglio, fenomeno: oggi il cinismo riguarda molte persone, si può parlare di un vero e proprio fenomeno di massa. Il cinico contemporaneo fa parte della società, non si pone ai margini e, da questo punto di vista, non è riconoscibile o non lo è immediatamente. Con una battuta, il cinico è il nostro vicino di casa, l’amico con il quale abbiamo cenato ieri sera al ristorante. Ne fa parte adattandosi alla situazione, accettandola come il male minore e, sicuramente, senza farsi coinvolgere, men che meno in progetti che nascano da qualche idealità. Accetto i meccanismi della società, non chiedetemi di parteciparvi, da parte mia è sufficiente il fatto che li sopporto: questo potrebbe sottoscrivere un cinico oggi.
E si potrebbe arrivare anche a questa conclusione: il cinico desidera che i meccanismi sociali funzionino, perché il cambiamento impone una rilettura della società stessa, dunque un impegno, e non è detto che poi il suo distacco possa rimanere immutato. Per altro è opportuno sottolineare come le parole cinismo, cinico e simili siano state sdoganate nell’uso quotidiano e, se è rimasta la connotazione negativa, oggi il versante da cui si interpretano è quello della razionalità.
Quante volte i media hanno riportato il freddo cinismo con cui un assassino ha compiuto il suo delitto? Lo stesso vale per la cinica indifferenza con cui non viene soccorso qualcuno o il calcolo cinico che ha portato a un reato: tutte azioni che presuppongono un progetto.
Perentorio è il giudizio di Nietzsche: “Il cinismo è l’unica forma nella quale anime volgari sfiorano quel che è onestà […]” (3). Anche la psicologia ha qualche difficoltà nell’inquadrare con precisione la figura del cinico. Lo si può considerare un tipo prudente capace di fare la battuta che in quanto tale non impegna, ma se non altro mette in primo piano l’intelligenza, l’arguzia, la simpatia dell’attore-cinico. Oppure si può sottolineare come l’insistenza contro istituzioni e autorità possa nascere da una frustrazione.
In questo caso si critica perché ci si è creduto molto e ora si è disillusi, in altre parole si è stati traditi e gli unici modi di prendere le distanze sono l’indifferenza pratica e il disprezzo ironico o, al limite, sarcastico. Dalla sconfitta il cinico non trae alcuna lezione, semplicemente accetta la delusione come dato ineludibile.
Si arriva anche a parlare di disturbo antisociale di personalità quando non c’è la minima valutazione di quanto il proprio comportamento cinico possa danneggiare gli altri. Comunque sia, un tratto caratteristico, presente in tutti i gradi di cinismo c’è, ed è la rinuncia a vivere ma, e questo è il dato importante, all’interno di una sorta di delirio della logica per cui la fredda razionalità fa da schermo, da barriera e da protezione nei confronti degli altri e della società. D’altra parte anche la battuta, per essere tale, deve rispondere a criteri razionali e allora una domanda, che potrà trovare la risposta in altra sede, diventa: quanto il cinismo è una manifestazione del disagio della civiltà, visto che con i cinici si parla sempre di valori o, meglio, di negazione/rinuncia ai valori?
1) Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, Vita di Diogene, rispettivamente 50, 51, 74
2) Charles Bukowski, Rosso come un giaggiolo, in Storie di ordinaria follia
3) Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, vol. VI, tomo II, frammento 26, p. 34. Tuttavia la progettualità del cinico rimane anche nel filosofo tedesco. Sempre nello stesso frammento: “[…] i cosiddetti cinici, quei tali appunto che semplicemente riconoscono in sé la bestia, la generalità, la ‘regola’ e possiedono, nello stesso tempo, anche quel grado di spiritualità e di pruriginosa sensibilità necessario per parlare di sé e dei propri simili dinanzi a testimoni – talvolta si crogiolano persino nei libri come nei loro stessi escrementi.”