Daniela Cuccu, Tania Righi, Chiara Vimercati
I meccanismi elettorali e il Consiglio costituente di Milano: il voto diviene concessione di una classe politica che elegge se stessa
Dal primo gennaio 2015 la Provincia di Milano si trasformerà in Città metropolitana. Poche cose hanno disinteressato i cittadini quanto le elezioni di secondo livello del Consiglio metropolitano svoltesi il 28 settembre scorso, eppure il nuovo ente gestirà questioni non secondarie come la tutela dell’ambiente, le reti di servizi e infrastrutture, la pianificazione dei trasporti (pubblici e privati, con i relativi appalti), l’edilizia scolastica e altre ulteriori funzioni – a oggi sconosciute – che le Regioni e lo Stato assegneranno alle Città metropolitane, in vista del riordino del Titolo V della Costituzione, relativo al cosiddetto ‘federalismo’.
È opinione diffusa – e da qui il disinteresse – che le elezioni di secondo livello rispettino i fondamenti democratici: se a eleggere il Consiglio metropolitano sono i sindaci e i consiglieri dei comuni della relativa provincia, a loro volta eletti direttamente dai cittadini, il principio della rappresentanza politica muta di modalità ma viene rispettato. Invece non è così, e vedremo perché.
Ma soprattutto, questa votazione ha eletto a Milano 24 consiglieri con un ruolo costituente, poiché dovranno stilare lo Statuto che fisserà non solo i princìpi e le funzioni del nuovo organismo, ma anche se alla prossima tornata elettorale, fra cinque anni, potranno essere i cittadini a scegliere direttamente i propri rappresentanti nel Consiglio metropolitano. Diventa quindi fondamentale capire come si sono svolte queste prime elezioni, per modalità e tempistica: i 24 consiglieri, che rappresentano oltre tre milioni di cittadini, sono stati eletti rispettando il principio democratico? Perché se la democrazia ci viene sfilata da sotto i piedi, il minimo è esserne almeno consapevoli.
La Città metropolitana
La legge 56 del 7 aprile 2014 (legge Delrio) ha istituito le nuove Province – di fatto identiche alle precedenti – le unioni e fusioni di Comuni e le Città metropolitane, identificando le prime nove in Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria (1). Ha inoltre definito gli organi di governo dei nuovi enti locali, attribuendo, in particolare per la Città metropolitana (2), funzioni di indirizzo e controllo al Consiglio, poteri propositivi e consultivi alla Conferenza – composta dai sindaci di tutti i comuni della provincia – e funzioni di rappresentanza e coordinamento al sindaco – carica ricoperta dal primo cittadino del capoluogo, per Milano, Giuliano Pisapia. Tutti gli incarichi – sindaco, consigliere e componente della Conferenza – sono esercitati a titolo gratuito (3).
Entro il 31 dicembre 2014 il Consiglio deve redigere e approvare lo Statuto, a maggioranza assoluta dei componenti (4); successivamente la Conferenza ha il compito di adottarlo (o respingerlo) con un numero di voti che rappresentino almeno un terzo dei comuni e la maggioranza della popolazione (5). In caso non siano rispettati i tempi, il termine è prorogato al 30 giugno 2015 e dal primo gennaio viene temporaneamente applicato lo Statuto della (vecchia) Provincia.
Il comma 22 (art. 1) della legge Delrio introduce la questione focale: “Lo Statuto della Città metropolitana può prevedere l’elezione diretta del sindaco e del Consiglio metropolitano”. Dunque, non più elezioni di secondo livello come stabilito ora. Per “[…] le sole Città metropolitane con popolazione superiore a tre milioni di abitanti [come Milano, n.d.a.], è condizione necessaria che lo Statuto della Città metropolitana preveda la costituzione di zone omogenee […] e che il Comune capoluogo abbia realizzato la ripartizione del proprio territorio in zone dotate di autonomia amministrativa”. Quindi, affinché gli abitanti della Città di Milano possano tornare a votare direttamente i propri rappresentanti politici, sono necessarie due condizioni: che il Consiglio comunale di Milano deliberi la suddivisione della città in zone con autonomia amministrativa, e che lo Statuto metropolitano preveda la possibilità di elezione diretta da parte dei cittadini. Statuto che, ricordiamolo, verrà redatto da sole 24 persone.
Milano: il meccanismo elettorale e i tre sbarramenti
Le elezioni di secondo livello, a differenza di quelle a suffragio universale, hanno, per definizione, un meccanismo complesso ed esclusivo, perché coinvolgono un ristretto numero di elettori e un ancor più ristretto numero di possibili candidati. Cerchiamo quindi di capire le modalità che hanno portato all’elezione dei 24 ‘padri costituenti’ della Città metropolitana di Milano.
Secondo le disposizioni del Ministero dell’Interno (6), nella provincia milanese risiedono poco più di tre milioni di abitanti: il Consiglio deve dunque essere composto da 24 persone (7). L’elettorato attivo e passivo è rappresentato da ogni sindaco e consigliere dei 134 comuni che formano la provincia, quindi un totale di 2.079 persone, che sono allo stesso tempo elettori e possibili candidati. La restrizione della base elettorale ai soli consiglieri e sindaci in carica, di fatto impedisce a una formazione politica che non sia rappresentata negli organi comunali, per un precedente insuccesso elettorale o per essere nata successivamente, di poter prendere parte alla competizione e quindi avere la possibilità di dare il proprio contributo alla redazione dello Statuto. Le elezioni di secondo livello applicano dunque, di per sé, un meccanismo di sbarramento di ingresso.
La legge Delrio dà poi un ulteriore giro di vite alla pluralità, quando detta le disposizioni sulle modalità di presentazione delle liste: devono essere composte da un numero minimo di candidati pari alla metà dei consiglieri da eleggere, e sottoscritte da almeno il 5 per cento dei consiglieri e dei sindaci elettori. Per Milano, dodici nomi in lista e 104 firme da raccogliere. A essere penalizzate, in questo caso, sono le forze politiche minoritarie.
Esiste infatti una disparità oggettiva nella possibilità di presentare i propri candidati e, soprattutto, raccogliere le firme, tra i partiti maggiori, che hanno una struttura solida e capillare, e quelli più piccoli, che se anche riescono ad annoverare dodici rappresentanti eletti nei comuni, difficilmente ne hanno 104 che possono sottoscrivere la lista: per poter aspirare a entrare nel Consiglio, devono quindi necessariamente stringere alleanze politiche con altri partiti, perdendo di fatto la propria indipendenza. O restare fuori dai giochi.
A rafforzare quello che potremmo definire sbarramento di governabilità sono anche le tempistiche stabilite dalla Circolare del ministero dell’Interno, che ha fissato un lasso di tempo di soli dieci giorni tra la definizione del corpus elettorale (tra il 35° e il 30° giorno antecedente le votazioni: solo in quel momento le forze politiche sapevano esattamente quante firme dovevano raccogliere per arrivare al 5%) e la presentazione delle liste (data ultima: il 20° giorno prima della consultazione). È chiaro che a essere favoriti, una volta di più, sono i grandi partiti, dotati di un apparato strutturato e strumenti di coordinamento con i propri eletti nei comuni.
Ma c’è un ultimo ostacolo, che si potrebbe chiamare sbarramento di relazione, e che, assieme agli altri due, rende questo meccanismo elettorale antitetico rispetto ai principi democratici. Nell’elezione indiretta, a differenza di quella diretta – in cui a una testa corrisponde un voto – alla crocetta sulla scheda di ogni elettore è applicato un coefficiente di ponderazione (un moltiplicatore), basato sulla fascia demografica del comune rappresentato. In altre parole, più è popoloso il comune di cui si è rappresentanti, maggiore è il peso del proprio voto – quello dei consiglieri di Milano, per esempio, che ha una popolazione di 1,2 milioni di abitanti, è moltiplicato per 714, mentre il voto dei consiglieri di Vimodrone, che conta poco più di 17 mila persone, vale 36. Un meccanismo che, se da un lato persegue una logica corretta sul piano attivo del voto – se rappresento più persone il mio voto deve valere di più – dall’altro crea un discrimine sul piano passivo.
Due infatti le conseguenze: la prima, più ovvia, è che i piccoli centri – che hanno problematiche diverse dalla grande città – hanno minori possibilità di essere rappresentati nel Consiglio metropolitano. Sui loro candidati, infatti, devono convergere molti voti dato il poco peso ponderato di ciascuno di essi. La seconda, più sottile ma per questo più insidiosa, è l’enorme importanza strategica assunta dal voto dei consiglieri milanesi, che non solo si conoscono reciprocamente – e più ci si conosce più è facile votarsi – ma, visto l’alto indice di ponderazione, possono incidere significativamente nell’elezione di un candidato. I voti insomma si pesano, non si contano.
Milano: il Consiglio eletto
La composizione del Consiglio metropolitano eletto a settembre è lo specchio di questo meccanismo elettorale, e non poteva essere diversamente. Solo quattro le liste presentate: Centrosinistra per la città metropolitana (Pd, Sel, Prc), Insieme per la città metropolitana (Forza Italia, Ncd, Fratelli d’Italia), Lega Nord-Lega Lombarda-Padania e Lista Civica Costituente per la partecipazione-La città dei comuni (radicali, socialisti, verdi ed esponenti di liste civiche comunali). Assente il Movimento 5 stelle il quale, contando solo una cinquantina di consiglieri in tutta la provincia, non è riuscito a raccogliere le 104 firme necessarie per la presentazione della lista, e fedele al principio di non alleanza con altri gruppi politici è rimasto escluso dalla competizione elettorale, vittima illustre dello sbarramento di governabilità.
Significativa anche la distribuzione ‘territoriale’ dei 24 eletti: nove sono consiglieri comunali di Milano; quattordici sono sindaci e consiglieri di comuni di fascia demografica E e D (tra quelli più popolosi dopo il capoluogo: da 10 mila a 100 mila abitanti); uno è consigliere di un comune di fascia C (tra 5.000 e 10.000 abitanti). Dimostrazione sia del discrimine sul piano passivo del voto ponderato, che ha fatto piazza pulita delle piccole realtà, sia della concretezza dello sbarramento di relazione: la Lista Civica Costituente – che nel proprio programma elettorale promuove l’elezione diretta del sindaco e dei consiglieri della Città metropolitana, e l’inserimento nello Statuto dei referendum propositivi, di indirizzo, consultivi e abrogativi – è riuscita a eleggere due esponenti, Roberto Biscardini e Marco Cappato, entrambi del consiglio di Milano: se fossero stati consiglieri in un comune della provincia, difficilmente la lista avrebbe ottenuto quei cinque voti milanesi che hanno fatto la differenza e grazie ai quali, conteggi alla mano, sono riusciti a essere eletti entrambi (8).
Degna di nota, infine, anche la composizione politica del Consiglio: quattordici eletti per il centrosinistra, sei per il centrodestra, due per la Lega Nord e due, come abbiamo visto, per la Lista Civica Costituente. Appare chiaro come i 24 consiglieri, che in quanto costituenti dovrebbero essere la massima espressione del principio democratico e garantire la maggiore rappresentatività possibile delle diverse forze politiche, in realtà si riducano a essere manifestazione esclusiva dei partiti maggioritari. Un risultato su cui ha inciso principalmente il meccanismo elettorale: un’elezione di secondo livello, strutturata in modo da porre tre diversi tipi di sbarramento: di ingresso, di governabilità, di relazione.
In aggiunta, così formulata la legge Delrio solleva anche qualche dubbio rispetto al principio di uguaglianza dei cittadini. Sancisce infatti un diritto di voto a seconda del luogo di residenza: se si abita in una città metropolitana o in una provincia, se lo Statuto della Città lo prevede oppure no. Lo si potrebbe avere nel milanese e non nel napoletano, o viceversa. Da diritto dei cittadini, il voto diventa concessione della classe politica.
Una classe politica che vota se stessa
Quanto succede a livello locale replica, anticipandolo, quanto accade sul piano nazionale. Il Patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, suggellato il 18 gennaio e confermato il 12 novembre con un comunicato congiunto, sta producendo una riforma del Senato che prevede meccanismi elettivi di secondo livello – un’altra classe politica in carica, questa volta regionale, che vota se stessa – la riforma del titolo V della Costituzione, relativo proprio alla regolamentazione dei rapporti tra Stato ed enti locali, e una riforma elettorale che, ancora una volta, ambisce all’estromissione delle minoranze politiche e a occupare di prepotenza la sede legislativa con un premio di maggioranza.
Il principio democratico della rappresentanza dei cittadini si va sempre più scontrando con la logica della ‘governabilità’, diventata ancora più stringente in questa fase di crisi economica e riforme neoliberiste. Dietro un bipolarismo di facciata si cela un Unipolarismo che mira a escludere dal dibattito politico ogni voce di opposizione. Sia essa in piazza o in Parlamento.
1) Legge 56 del 7 aprile 2014, art. 1, comma 5
2) Ivi, commi 7, 8
3) Ivi, comma 24
4) Cfr. Regolamento provvisorio del Consiglio della Città metropolitana di Milano approvato nella seduta del 29 ottobre, art. 7
5) Legge 56 cit., comma 9
6) Cfr. ministero dell’Interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, circolare n. 32/2014, allegato B, 1° luglio 2014. I dati provvisori sono stati successivamente aggiornati con quelli definitivi, tenuto anche conto del commissariamento del comune di Sedriano; per i dati definitivi cfr. Lista degli aventi diritto al voto sul sito della Provincia di Milano http://www.provincia.milano.it/export/sites/default/news/citta_metropolitana/doc/LISTA_GENERALE.pdf
7) Legge 56 cit., comma 20
8) Cfr. Prospetti voti ponderati di lista e preferenze individuali per candidato http://www.provincia.milano.it/news/citta_metropolitana/elezione.html