Oreste Dominioni
Giustizia penale: dalla mancanza di una visione organica che ha portato a una situazione contraria alla legalità processuale a procedure fantomatiche che negano il diritto costituzionale a un “giusto processo”
Il coronavirus ha insegnato a tutti (o almeno a quanti, forse molti, ne avessero bisogno) che una situazione di emergenza grave richiede che si stabilisca una priorità di interessi, o ‘valori’ come enfaticamente si dice, in base ai quali è da riorganizzare l’operatività delle istituzioni, la vita sociale e privata.
Si è così stabilito, dopo prime incertezze, che nella scala delle priorità il primo posto sia da assegnare alla salute e il secondo all’economia, pur facendo salva la necessità di spesa pubblica per salvaguardare le esigenze essenziali delle persone e sollecitando il ricorso al ‘lavoro agile’.
Ancora una volta è purtroppo da rilevare che il mondo giudiziario non è stato partecipe, con la necessaria determinazione e linearità, di questa laboriosa e sofferta riorganizzazione sociale.
Non è difficile cogliere come questo singolare fenomeno abbia le sue radici in una ancora imperante ideologia per cui la giustizia è valore che sovrasta ogni dinamica della società e le sue anche più drammatiche vicissitudini.
Da qui l’assenza del ministro della Giustizia, al quale sarebbe spettato assumere provvedimenti tempestivi e precisi, anziché delegare la gestione della situazione ai capi degli uffici giudiziari. E da qui, su questo versante, provvedimenti per così dire organizzativi emanati in ritardo, disancorati da una visione organica, unitaria e coerente per l’intero Paese.
Tutto ciò determinando per l’esercizio del diritto di difesa da parte degli avvocati gravi problemi e difficoltà, a fronte di sensibilità discrezionali tra le più diverse nei vari uffici, dall’inaccessibilità alle segreterie e alle cancellerie, della chiusura degli studi professionali con il divieto di ricevervi i propri assistiti.
Bastano pochi cenni di cronaca a rappresentare, nell’emergenza virale, il ‘decorso’ irragionevole e autoreferenziale dell’amministrazione della giustizia, guidata da scelte di mera opportunità.
Con un documento indirizzato ai Presidenti della Corte d’Appello e del Tribunale di Milano, il 26 febbraio 2020 la Camera penale di Milano ha rilevato che “si sono verificate numerose situazioni in cui la partecipazione alle udienze da parte di avvocati, imputati, persone offese e testimoni non si è potuta svolgere nel rispetto delle misure di sicurezza stabilite dai provvedimenti istituzionali”, invocando l’immediata sospensione dell’attività giudiziaria non urgente del Palazzo di Giustizia di Milano. Due giorni dopo viene comunicato che l’attività giudiziaria proseguirà come prima; il Decreto legge 2 marzo dispone il rinvio d’ufficio delle udienze non urgenti per le “zone rosse” di Lodi e Rovigo.
Si innesca così una situazione a macchia di leopardo, dominata dall’opportunità, contraria quindi alla legalità processuale. Massimo è il disorientamento.
I Tribunali di Lodi e Pavia celebrano le udienze. Avvocati del Foro di Milano fanno trasferte presso Tribunali di vari distretti del Paese, ma si vedono inibita la partecipazione alle udienze. Avvocati di altri Fori, non raggiungono Milano, ove hanno udienza, ritenendo pericoloso parteciparvi; sono nominati sostituti sul campo, che non si sa quanto conoscono della causa. Il 2 marzo l’Ordine degli Avvocati di Napoli delibera l’astensione dalle udienze.
Il 3 marzo a Milano si diffonde la notizia che due magistrati sono stati colpiti da Covid-19. La Camera penale proclama lo stato di agitazione e chiede di nuovo l’immediata sospensione delle udienze; uguale richiesta è fatta dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Sino a quel momento nei corridoi del Palazzo circolava la narrazione che la “cosiddetta epidemia” non era che un’influenza più grave e non giustificava la sospensione delle attività. Ciò, ovviamente, non da parte degli avvocati, costretti a partecipare alle udienze ammassati nei banchi e avvicendandosi nell’uso del medesimo microfono.
Quella notizia, tuttavia, non era da ignorare. La Giunta milanese dell’Associazione Nazionale Magistrati lancia, con toni di preoccupato sdegno, l’allarme e chiede la sospensione delle udienze non urgenti sino al 31 marzo. Lo stesso giorno il presidente del Tribunale dispone che si rinviino le udienze non urgenti. Il Presidente della Corte d’Appello non provvede e risulta irraggiungibile.
E dunque: i GUP rinviano, salvo le urgenze. In Tribunale alcune Sezioni tengono udienza. In Corte d’Appello solo una Sezione rinvia.
Una simile sconcertante disomogeneità è diffusa: a Monza come in altre sedi si tiene udienza, in altre si rinvia.
Il 4 marzo l’Organismo Congressuale Forense (il braccio politico del CNF) proclama l’astensione dalle attività giudiziarie dal 5 al 20 marzo. In tale stato di confusione l’UCPI in un comunicato non può che prenderne atto, sottolineando che “non ha indicazioni da fornire ai penalisti italiani, ciascuno dei quali agirà anche tenendo conto della effettiva situazione locale”. I giudici contestano la legittimità dell’astensione nonostante la Commissione di garanzia per l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali ne avesse preso atto. Il 5 marzo il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma proclama l’astensione.
In una situazione di tale marasma il Decreto legge 8 marzo si è limitato, per quel che più conta o che era più ovvio, a disporre la sospensione delle udienze sino al 22 marzo delegando ai capi degli uffici giudiziari l’organizzazione dell’attività giudiziaria per il tempo successivo sino al 31 maggio, nella previsione, ovviamente, della persistenza dell’emergenza virale: se questa cessasse (come d’incanto, contro ogni previsione dei virologi), non resterebbe che tornare, per l’appunto d’incanto, alla normalità anche nell’ambito giudiziario. Una delega di quel genere è nient’altro che disimpegno politico e causa di ulteriori disfunzioni.
Forse ancora più preoccupanti sono le anticipazioni trapelate circa provvedimenti legislativi che il governo intende promuovere, sulla scia inquietante di prospettazioni di conio giudiziario.
A dir poco sconcertante, come ha con forza denunciato l’UCPI, che sia alle viste una normazione secondo cui, sino al 30 giugno, tutte le udienze, anche per imputati liberi, si tengano da un “remoto” tutto virtuale: abolita l’aula, giudici, pubblici ministeri, avvocati e ogni altro soggetto del processo svolgeranno le loro funzioni ciascuno da un proprio luogo separato (abitazione, ufficio privato, un tavolo di fortuna?) comunicando per via telematica. Formare le prove, discuterle e prendere decisioni sono attività molto serie, che devono obbedire a regole rigorose e non soggiacere a mere finzioni. È semplicemente una questione epistemologica: le prove vanno assunte nel contraddittorio reale delle parti, davanti al giudice che dovrà usarle per decidere. Si tratta di assicurare che siano acquisite le migliori, cioè le più affidabili, premesse storiche e giuridiche per decidere circa la fondatezza dell’accusa, in modo che sulla loro base sia pronunciata la sentenza migliore e cioè, per l’appunto, più affidabile. La deliberazione della decisione deve avvenire in una camera di consiglio con la presenza fisica dei giudici, che discutono in modo serrato fra di loro avendo a disposizione tutta la documentazione probatoria: è la dialettica interna dell’organo giudicante che, solo nella sua autenticità, garantisce la bontà della decisione.
Procedure fantomatiche negano tutto ciò.
Si pensa, forse, che in una situazione di emergenza sociale, una simile sommarietà sia necessaria e giustificata per realizzare la ragionevole durata del processo. Senonché questo valore di efficienza giudiziaria va perseguito, secondo la Costituzione, con il “giusto processo” (si legga per intero l’art. 111 cost.), non con un’amministrazione della giustizia retaggio di concezioni autoritarie: ad ogni costo si eserciti il potere punitivo dello Stato; l’individuo-suddito, quando è imputato, nulla abbia da recriminare.
Neppure l’emergenza virale, della gravità che stiamo subendo, legittima una giustizia di guerra. Se ne sospenda l’attività sino a quando sia consentito giudicare le persone secondo normalità, che vuol dire legalità costituzionale.
Un altro dato non meno preoccupante è da evidenziare. Nel Decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020, che si occupa del problema dell’epidemia virale con riguardo alle carceri, nessuna disposizione è prevista per le persone che vi sono detenute non in base a una sentenza definitiva, ma perché sono imputati in un processo in corso e nei loro confronti si ritiene che vi siano ragioni cautelari: pericolo di inquinamento probatorio, di fuga o di commissione di reati. I cosiddetti detenuti “non definitivi”. È immediata la domanda del perché di tale noncuranza. La loro condizione in carcere è uguale a quella dei detenuti “definitivi” quanto a pericolo di contagio (passivo e attivo), mentre ne è diversa la condizione giuridica: assistiti dalla presunzione di innocenza (art. 27 cpv. cost.), la loro custodia in carcere per ragioni cautelari costituisce per legge la misura estrema rispetto a misure cautelari meno afflittive (arresti domiciliari, obbligo o divieto di dimora in un dato luogo e altre). L’inconcepibile lacuna non può non essere colmata. Solo un elevatissimo grado di pericolosità dell’imputato, dal quale si tema la commissione di reati gravi, può giustificare che la detenzione carceraria metta a repentaglio i beni della salute e della vita, suoi e della collettività, tutelati dalla Costituzione.
Anche la meno liberale concezione della giustizia penale non può pretendere di riportare in auge una sua amministrazione all’insegna del God save the King.