- (pubblicato online il 3 dicembre 2020)
Milano, Covid-19, parla un medico: “Non c’è più l’energia della prima ondata”. E (paradossalmente) neanche l’organizzazione
Se a marzo ci si è trovati impreparati davanti a un’epidemia di cui forse nessuno aveva compreso caratteristiche e portata – soprattutto in termini di peso sul sistema sanitario pubblico, smantellato dai tagli al welfare degli ultimi anni – di ‘seconda ondata’ si è iniziato a parlare fin da inizio estate. Mesi nei quali, a chiunque, era divenuto ben chiaro un aspetto su ogni altro: un’epidemia si cura sul territorio. Accanto, per gli abitanti in Lombardia, un’altra certezza: il sistema misto pubblico/privato disegnato dalle giunte Formigoni e Maroni, aveva eliminato la medicina territoriale. Ora ci risiamo con zone rosse, arancioni e gialle, con scuole aperte e chiuse e con coprifuoco e lockdown ‘morbido’, e ogni cittadino, lombardo e non, si chiede: governo e Regioni, cosa hanno fatto in questi mesi? Covid hotel in ritardo, assistenza domiciliare inesistente, difficoltà a fare tamponi, posti letto negli ospedali già vicini alla soglia critica. La situazione cambia di giorno in giorno e i numeri sono pane per la cronaca. Ora il punto centrale è: alla seconda ondata, almeno i presidi ospedalieri sono arrivati preparati? Lo abbiamo chiesto a un dirigente medico (a cui abbiamo garantito l’anonimato) di un ospedale pubblico milanese.
Lei ha vissuto la prima ondata e ora sta vivendo la seconda: oggi la sanità pubblica è più preparata rispetto a marzo?
Io posso parlare per quello che conosco nella mia realtà – che comunque è simile a ciò che mi hanno raccontato colleghi di altri presidi ospedalieri, sempre pubblici. A marzo, quando iniziava a partire l’ondata da Bergamo e Brescia, Milano viveva una situazione un po’ di stallo, ossia ci si chiedeva se si sarebbe riusciti a contenere la diffusione in quelle zone. Sembrava si potesse seguire la cosa a distanza, dal punto di vista logistico, dell’organizzazione del personale e dei reparti. Poi nell’arco di pochissimi giorni c’è stato il bisogno di ripensare completamente la struttura dell’ospedale – perché tanto si è parlato e si parla delle terapie intensive, ma quello che effettivamente, anche adesso, subisce l’impatto maggiore, è il Pronto Soccorso. A marzo, da un giorno all’altro il PS è stato inondato da persone con sintomi compatibili con Covid (Coronavirus disease), e in qualche modo si sperava che non fossero tutti positivi al virus, il Sars-Cov2, tanto che venivano testati anche per H1N1. Poi, facendo i tamponi, era inevitabile che fossero praticamente tutti malati Covid. Quindi hanno iniziato a mobilitarsi prima le malattie infettive, perché trattasi di una malattia infettiva, poi le pneumologie e ovviamente, poiché si è visto subito che la sintomatologia può essere rapidamente ingravescente, c’è stata la necessità di riorganizzare le terapie intensive. Non dimentichiamo che ci volevano dotazioni strumentali nuove, a diversi livelli, dai DPI pronti all’uso in corsia ai caschi, alle maschere, ai monitor per regolare i parametri di ventilazione, invasiva e non invasiva. Ed è stato tutto veramente molto veloce, con le email dalla direzione sanitaria che comunicavano i reparti che dovevano essere convertiti rispetto alle loro funzioni originarie, a partire da quelli che avevano meno senso di esistere in quel momento, come alcune chirurgie specialistiche. A farla breve, tutto l’ospedale è stato riorganizzato, in termini di reparti, divenuti Covid, e di personale, medici ma soprattutto infermieri e OSS.
Il personale sanitario era sufficiente?
Più o meno credo bastasse, in quanto a numero, avendo chiuso dei reparti il relativo personale veniva destinato al Covid. C’era tra l’altro un grande supporto di medici e infermieri in formazione, che magari hanno un’autonomia decisionale limitata ma in quanto a manovalanza si sono spesi parecchio, anche manovalanza cartacea e burocratica, e ce n’era molta all’inizio. Poi si è un po’ si è snellita, o forse ci siamo abituati.
Quindi a marzo l’ospedale si è riorganizzato molto velocemente…
Esatto. Non sta a me dire sulla efficienza della riorganizzazione, però è stata rapida, convulsa. Siamo stati tutti colpiti alla sprovvista – un po’ che non ci si voleva credere, un po’ che doveva passare veloce, un po’ che c’era quella sorta di entusiasmo nervoso di dire: «Dai, ce la mettiamo tutta, ci impegniamo per il tempo che serve, tappiamo il naso, chiudiamo gli occhi e via.»
Gli ospedali di Milano sono riusciti a far fronte alla prima ondata?
La città di Milano si era organizzata mantenendo il sistema che si usa per tante patologie: hub and spoke. Alcuni ospedali diventavano hub, quindi punto di accentramento per i pazienti ‘sporchi’, ossia Covid – è nata questa rapida terminologia, a inizio epidemia, sporchi e puliti – di modo che altri nosocomi potessero rimanere ‘puliti’. Poi non c’è stata alcuna struttura che sia riuscita a restare del tutto pulita, come non c’è stato alcun ospedale che sia divenuto interamente sporco. Questa organizzazione, unita a spostamento di pazienti tra un presidio ospedaliero e l’altro, è stata funzionale, e da quel che ho visto e dalle informazioni che mi sono arrivate – quindi la mia è una visione per forza soggettiva – Milano è riuscita ad assorbire la prima ondata.
Veniamo alla seconda ondata…
Prima occorre parlare di quel che c’è stato in mezzo: l’estate. È fondamentale. Durante l’estate c’è stato un grandissimo smantellamento dei reparti Covid, che sono stati riconvertiti alle loro funzioni originarie. Da una parte iniziava a diventare necessario ripristinare, perché c’era un problema di degenze ordinarie, ricoveri, tutta la parte ambulatoriale che doveva essere rimessa in piedi perché era stata chiusa nella prima ondata, quindi c’era tutto quel rebound di persone che accedevano. Dall’altra c’è stato un momento in cui i Covid si contavano sulla punta delle dita, e forse tutti volevamo illuderci che fosse stata solo un’ondata. Qualche reparto Covid era rimasto ma ospitava giusto pazienti tutto sommato non gravi, persone che non riuscivano mai a negativizzarsi o che magari avevano problemi di dimora, domiciliazione… Credo, ma è giusto un’opinione, che non ci fosse nemmeno pressione per dimetterli, perché giustificavano il fatto di tenere ancora in piedi qualche reparto Covid. Ma al di là della voglia di illudersi, tra i sanitari non c’è mai stata la sensazione che l’epidemia non ripartisse. E poi, l’aspetto che secondo me si doveva prevedere, è che in Italia il Covid è esploso in un momento in cui stava defervescendo l’ondata simil-influenzale, para-influenzale, delle polmoniti: eravamo in primavera. Da che mondo e mondo, qualsiasi patologia delle alte vie aeree riparte con l’autunno. E ora abbiamo tutto l’inverno davanti.
Sta dicendo che alla seconda ondata, potenzialmente peggiore della prima e prevedibilmente peggiore della prima, per le concause stagionali, diciamo così, l’ospedale è arrivato impreparato, con la gran parte dei reparti Covid smantellati?
È arrivato con pochi reparti, ed è la prima questione. I casi sono iniziati a settembre, ma è stata una marea montante, più snocciolata rispetto alla prima, e paradossalmente questa situazione è stata negativa e non positiva. Ci abbiamo messo due mesi per arrivare alla stessa situazione di marzo – perché oggi siamo nella stessa situazione di marzo – ma con tutte le incertezze strutturali dell’incompiuto o dell’incompleto: il ripristino dei reparti durante l’estate non è stato né completo né definitivo, e in autunno ci siamo ritrovati a dover ri-riconvertire per l’urgenza. C’è stata una sorta di tira e molla e di commistione di esigenze del tutto contrastanti. Con il carico degli ambulatori: a marzo, molto rapidamente a un certo punto si è detto: gli ambulatori li chiudiamo. Oggi non è così. Gli ambulatori sono aperti.
Dunque a marzo l’urgenza e la drammaticità di avere davanti qualcosa di sconosciuto hanno fatto sì che la riconversione fosse rapida anche se problematica, mentre ora che si dovrebbe avere l’esperienza, la riorganizzazione è meno efficiente? Significa che gli ospedali rischiano di essere più impreparati alla seconda ondata che alla prima?
Questa è la mia sensazione, ma è più una questione psicologica che di volontà, però l’aspetto psicologico, l’umore, l’energia, fanno tanto. A marzo a un certo punto tutto era Covid. Si è detto: pneumologi, internisti sono alla canna del gas, noi, ossia altri specialisti, e tutti quanti, ci si mette e si dà tutto. Da un giorno all’altro si sono addirittura cambiati i centro di costo dei reparti… aspetti tecnici, ma comunque il senso è che quel tipo di medico non aveva più il primario tal dei tali ma era sotto le direttive del primario talaltro. Una intera riorganizzazione che è risultata veloce ed efficace.
Oggi non è così?
Oggi non sai dove ti trovi. Magari ti ritrovi dentro i turni Covid e dentro i turni non Covid, nella stessa giornata. Non sai qual è il primario tuo referente. La mattina sei in un reparto Covid e fai il tuo giro, e dalle 14 alle 20 sei lo specialista X di guardia per tutto l’ospedale. A marzo non era così. Quando ho iniziato il reparto Covid, ero di guardia in servizio ai Covid, e per due mesi non ho fatto lo specialista che sono. Secondo me questa organizzazione era funzionale anche perché si acquisiva una certa esperienza, e quindi si diventava maggiormente autonomi, anche se non era la propria specialità. Poi avevano creato i ‘Covid team’ e sono indispensabili nelle urgenze, perché serve un team leader che impedisca il caos, che organizzi le persone, che abbia un’idea generale della situazione. Questo sistema ora non c’è, ed è tutto molto più dispersivo, con un montare di casi, tra ottobre e novembre, decisamente alto. Soprattutto in PS, ci sono anche 70/80 persone tutte insieme in attesa di essere assegnate a un reparto, o di essere dimesse, o che aspettano l’esito del tampone. Una quantità di persone impressionante, difficile da gestire.
Crede che l’ospedale tornerà all’organizzazione della prima ondata?
Ce lo stiamo chiedendo, e aspettiamo risposte di settimana in settimana. È una situazione che crea malessere tra tutti noi, perché i colleghi coinvolti nel Covid stanno già andando in fatica, due mesi già se li sono fatti, da settembre a oggi, e quindi vorrebbero un po’ di turnover e di supporto, ma non sanno su chi potranno contare. Oltretutto la conversione dei reparti è stata diversa, alcuni che erano rimasti puliti nella prima ondata oggi sono diventati Covid. Non è un aspetto di poco conto, si parla di spostamenti di piani, di spostamenti di letti, di spostamenti di pazienti. E alcuni reparti che erano stati Covid, e che ora sono tornati a esserlo, hanno una diversa intensità di cura – perché a parte la rianimazione, che va da sé, ci sono differenti gradi di trattamento, dall’ossigeno fino alla maschera, dal casco alle cosiddette cPAP o ventilazioni non invasive continue, che necessitano di una competenza maggiore. Questo significa anche che le camere che richiedono la ventilazione devono avere caratteristiche strutturali particolari; a marzo, in pochissimi giorni, sono stati messi gli attacchi per l’ossigeno e i sistemi di negativizzazione della pressione dell’aria. Quindi quel che dico è: da maggio in poi si poteva decidere, con calma, di strutturare bene i reparti, quanti e come, invece di smantellarli…
Durante la prima ondata la sanità ‘ordinaria’ si è bloccata, ed è indubbiamente stato un problema e un aspetto messo sotto accusa, sul piano politico e sociale. È per questo che ora si cerca di tenere insieme tutto, normalità ed emergenza Covid?
A mio avviso ci sono due ragioni. Da una parte le esigenze economiche, nel senso che di fatto è un sistema che si regge sulle prestazioni che eroga e quindi deve erogarle, dall’altra c’è un’esigenza sanitaria, di salute pubblica, perché le persone lo chiedono. Perché è vero che ci sono le patologie acute e hanno bisogno dell’ospedale, ma c’è anche tanta cronicità. C’è stato un momento in cui le persone, per paura, hanno smesso di avere alcune esigenze; ora quelle esigenze sono tornate. Che siano reali, psicologiche… ci sono. E se c’è l’offerta, ossia l’ambulatorio aperto, le persone ci vanno. C’è una dinamica di normalizzazione, che è umana: tutti quanti ci stiamo un po’ abituando all’esistenza del Covid, e quindi si cerca di gestirlo insieme a tutto il resto della vita. Ma su questo si carica l’altro aspetto problematico, il territorio.
Ossia l’assenza in Lombardia della medicina di territorio. La Regione è riuscita, tra la prima e la seconda ondata, a organizzare un minimo di gestione territoriale per alleggerire il peso sui Pronto Soccorso?
Direi proprio di no. Le informazioni che ho, sia direttamente da pazienti che incontro nell’ambulatorio, sia da colleghi che lavorano nel PS, parlano di difficoltà ad avere accesso al centralino telefonico, di problemi coi medici di base, di informazioni incerte. Ed è un grosso problema perché in questa situazione tutto arriva sugli ospedali. Resta quindi l’accesso al PS, per coloro che temono di avere o hanno sintomi Covid; resta il ricovero, anche per coloro che potrebbero essere seguiti al domicilio; resta l’esigenza dell’ambulatorio, un ambulatorio che è dentro l’ospedale potenzialmente sporco, proprio perché non c’è niente al di fuori in cui andare. Tu puoi cercare di dire, soprattutto alle persone più anziane: “Guardi, è meglio se non viene”, ma poi devi fare i conti con la direzione che ti dice che le prestazioni le devi fare, in termini di ricavato, altrimenti l’ambulatorio aperto ha dei buchi. E quindi l’approccio è: intanto fate, finché non ci sono indicazioni diverse, finché c’è gente che viene, fate, offrite. Si accenna alla telemedicina, ma è una scelta soggettiva del medico – che magari deve anche procurarsi da solo le casse e il microfono – per non parlare delle infrastrutture digitali abbozzate, e sempre che da casa tutte le persone possano interagire digitalmente senza aver bisogno di un supporto, un familiare o qualcuno capace di usare i dispositivi digitali, e allora addio alla privacy e alla riservatezza tra medico e paziente…
Spostandoci su un altro aspetto – comunque collegato ai tempi di ricovero e quindi anche alla saturazione dei posti letto – l’approccio terapeutico? È cambiato da marzo a oggi?
Tante delle patologie più importanti dell’umanità sono dovute a virus. Il problema di questo, a parte l’essere respiratorio, quindi la facilità di diffusione, sembra che il danno grave non sia dovuto all’effetto citopatico, ossia l’effetto diretto che il virus ha sulle cellule, ma alla reazione infiammatoria che l’organismo mette in atto per difendersi. Il nostro sistema immunitario è affascinante e molto complesso, per cui le risposte possono variare da persona a persona e nelle diverse età. Perché poi ci siano persone asintomatiche che non si ammalano, credo che lo sapremo tra tantissimo tempo. I virus sono scomodi: ebola, HIV, epatite C, polio… sono virus. Si fanno tentativi, si sta studiando tanto, in maniera propositiva in alcuni casi, speculativa in altri. Diverse unità scientifiche, delle diverse discipline, hanno stilato dei documenti di buona pratica, che non sono linee guida ufficiali per standardizzare un certo trattamento. A marzo, che io sappia, hanno fatto affidamento sull’esperienza cinese, si leggeva tantissima letteratura scientifica di provenienza cinese, sulle riviste internazionali. Oggi il protocollo è cambiato, si provano altre molecole. Solo il dopo ci dice se funzionerà, nel complesso dei casi trattati o meno, sopravvissuti o meno, e cosa è stato efficace. Siamo di fronte a un problema giovanissimo, nuovo, e per avere una ricerca scientifica onesta e di qualità serve un’organizzazione e la possibilità di fare prelievi, somministrare terapie, guardare la persona come respira in un certo modo: non aiuta che una volta si adoperi il personale di un certo reparto, e poi gli si cambi destinazione. Poi certamente, rispetto alla prima ondata c’è più esperienza, ci si approccia con meno insicurezza.
Si riesce a curare tutti, come si dovrebbe, o si devono fare delle scelte, anche drammatiche?
Si devono fare delle scelte. Sono scelte cliniche, in cui si considera il paziente per età, vissuto patologico, storia di altre malattie, fattori prognostici. Lo si sente dire spesso dai colleghi, soprattutto per i supporti alla ventilazione invasiva o più spesso non invasiva: quanto vale la pena combattere, insistere, quando accompagnare a una fine della vita – diciamolo, alla morte – che sia più dignitosa e meno sofferta possibile. Non è per chiunque, credo, accettabile, pensare a una morte dopo aver annaspato per ore. Per essere concreti. Dover scegliere per le persone non è facile. C’è molta etica personale, anche sul fine vita, riemergono tanti concetti da questo punto di vista. Sono aspetti che potrebbero essere affrontati anche in maniera produttiva, formativa, di confronto, però manca la possibilità di organizzare queste stesse esigenze in modo più definito, e restano psicologicamente a carico del singolo. Adesso poi, è un continuo Segui il webinar formativo, per guadagnare i crediti della formazione continua, obbligatoria, ed è tutto un webinar Covid: “Impara a gestire il Covid”, “Impara come ci si disinfetta”, “Impara come ci si protegge”, ma non è così che ci si forma. Non è così che si pongono le domande, non è così che si può cercare insieme di avere risposte che possono scaturire da culture ed esperienze diverse.
Tanto personale medico si è ammalato nella prima ondata, qual è la situazione oggi? Siete controllati, da un punto di vista sanitario?
Tasto dolente. No, non siamo monitorati. I tamponi vengono effettuati solo se abbiamo dei sintomi. Io da marzo ho fatto un solo tampone, per esempio, ma giusto nelle prime settimane. Era sfuggito un caso risultato positivo, reparto ancora normale (pulito), la struttura ha dato la possibilità di fare il tampone a chi era stato a stretto contatto con quel paziente. Ad aprile poi sono state offerte le IGG a chi era stato nei reparti Covid: è stata una rincorsa, a un certo punto hanno chiuso l’offerta, erano finiti i kit.
Come si lavora? Immagino sia tutto più pesante…
Il problema è che non c’è rotazione del personale, quindi gli operatori che devono occuparsene saranno sempre quelli. E si lavora in modo più rigido, rispetto a come siamo abituati a interagire. Nel reparto si va a coppie. Uno è bardato da capo a piedi dentro la tuta ed entra nelle camere, resta sporco, stando attento, non toccando le maniglie, usando sacchetti di plastica per ogni cosa. All’esterno delle camere c’è l’altra persona con il computer, pulito. Devi urlare, “Devo fare questo esame”, prendi la provetta, il sacchettino, allunga la provetta a chi fa il prelievo, che poi te la restituisce inserendola in un sacchetto pulito, e il consenso, il tablet per chiamare i parenti in video, sacchettino del reparto sporco contro sacchettino pulito… Con la pratica non è complicato, ma i tempi si allungano moltissimo. Sembrano e sono sciocchezze di per sé, ma sono tanti i minuti che scorrono per queste cose. E ci vuole una certa attenzione. Magari lavori sette giorni filati, poi prima o poi riposi, e anche su questo l’umore incide tanto, la carica di energia, che c’era nella prima ondata e che oggi non c’è più. Anche per questo, e per tutto quello che non è stato fatto in questi mesi sul piano organizzativo, diventano inaccettabili parole come “cura”, “umanità”, “solidarietà” pronunciate da Fontana, governatore della Lombardia, a inizio novembre, in una lettera aperta destinata ai medici e agli operatori sanitari: non c’è niente di solidaristico nel vedere una persona che può tentare una cura, e un’altra no. Ed è anche inaccettabile che dica che ha lavorato per “alleviare le nostre difficoltà”, di noi sanitari in “prima linea”: le difficoltà devono essere affrontate, e non accettate, incluse, alleviate.