Da Formigoni a Maroni, il modello sanitario disegnato dalle riforme regionali che ha portato alla catastrofe
In un’epoca di dissoluzione politica, economica e sociale in cui l’incertezza regna sovrana a livello globale, i cittadini della regione Lombardia erano annoverati (e con tutti gli onori) fra i pochi privilegiati che potevano ancora contare su una ‘sanità come si deve’. Poi di colpo la Lombardia è stata travolta dalla tempesta Covid come nessun’altra regione italiana, e più di molte grandi nazioni. Secondo i dati ufficiali pubblicati da Lab24 (Il Sole 24 ore), costantemente aggiornati (1), e tenendo come riferimento il 31 maggio, data in cui la situazione è divenuta più stabile, in Lombardia sono stati accertati 88.758 casi (il 38% di tutti i contagiati in Italia), con una incidenza percentuale sulla popolazione pari allo 0,882% (più del doppio della media nazionale, che è lo 0,385). Per dare un’idea della gravità della situazione, in tutta la Cina si sono verificati ‘solo’ 84.123 casi, con un’incidenza dello 0,006% sulla popolazione (2).
Ma il dato più sconcertante è quello sulla mortalità: in Lombardia sono deceduti 16.079 individui, quasi la metà delle 33.340 vittime italiane, con un tasso di letalità (la percentuale dei morti sul totale dei contagiati) del 18% (contro il 12% del resto del Paese). Questo fenomeno, almeno inizialmente, è sembrato senza alcuna motivazione, anzi contrario a tutte le aspettative, anche quelle meno rosee. Le spiegazioni – scientifiche e non – che sono state date hanno rasentato l’incredibile. Si è chiamata in causa la densità abitativa, la presenza di tossine sconosciute nell’aria, una imprevedibile vulnerabilità genetica dei lombardi al coronavirus, le polveri sottili, per arrivare (ovviamente) al complotto cinese e agli untori. Tutto e il contrario di tutto, anche a dispetto della logica. Per esempio, le città lombarde più colpite in percentuale sulla popolazione, e cioè Cremona (1,79%), Lodi (1,5%), Bergamo (1,19%) e Brescia (1,16%), non sono certo le più inquinate d’Italia e non hanno nemmeno una densità abitativa paragonabile al comune di Milano dove il contagio, come è stato detto, non ha mai ‘sfondato’ (9.775 casi su 1.352.000 abitanti, pari allo 0,7%). Così, man mano che i giorni passavano e le voci grosse scemavano davanti al disastro, una ipotesi si è fatta strada e ha preso forza: la presunta sanità d’eccellenza lombarda ha fallito, e la carneficina poteva essere evitata.
Il modello sanitario lombardo
La sanità in Lombardia rappresenta una voce che assorbe 19 miliardi all’anno di risorse pubbliche (oltre l’80% dell’intero bilancio regionale). Questa enorme mole di denaro serve ad alimentare un modello sui generis, ibrido fra pubblico e privato, che fin dal momento della sua nascita ha ricevuto grande attenzione anche come caso di studio accademico. Regista di questa ‘svolta’ fu Roberto Formigoni, candidato del centro-destra ed esponente di prima fila del movimento di Comunione e Liberazione, eletto nel 1995 presidente della Regione Lombardia, cui si deve la celeberrima legge n. 31 dell’11/7/1997 dal titolo “Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività dei servizi sociali” (3), destinata a rivoluzionare la sanità lombarda (e tralasciamo in questa sede quanto Comunione e Liberazione abbia allungato i propri tentacoli nell’ambito sanitario lombardo proprio grazie a questa legge).
La normativa ha creato un sistema in cui soggetti pubblici e privati competono tra loro per l’erogazione dei servizi sanitari ai cittadini (principio di sussidiarietà), sulla base dell’assunto (culturale e politico) che un servizio non è pubblico perché erogato da un soggetto di natura giuridica pubblica, ma è pubblico perché destinato ai cittadini, e che proprio ai cittadini dovesse essere garantita la libera scelta della struttura dove farsi curare. Con la nuova legge, gli acquirenti-finanziatori (la Regione) e i produttori-ospedali (pubblici e privati) sono diventati due entità giuridiche distinte, che regolano i loro rapporti sulla base di un contratto, in cui si fissano quantità, tipologia e prezzi delle prestazioni. I ‘contratti’ sono standard, molto elementari, i prezzi sono fissi e non è ammessa la selezione dei produttori. In sostanza, la Regione da un lato continua a ‘produrre’ i servizi sanitari nelle realtà pubbliche, dall’altro seleziona, attraverso un sistema di accreditamento, le strutture sanitarie private che possono offrire al cittadino le medesime prestazioni e il cui costo viene sostenuto dalle casse regionali. Alle cosiddette ASL (Aziende Sanitarie Locali) veniva invece demandata la produzione dei servizi di sanità pubblica, la prevenzione, le cure primarie, l’assistenza domiciliare, i servizi sociali e i servizi veterinari.
Alla base della filosofia della riforma si annida un concetto, molto in voga dagli anni Ottanta in poi, secondo cui il privato è più efficiente del pubblico, cioè è in grado di offrire gli stessi servizi a un costo inferiore. Di conseguenza, aprire le porte della Lombardia alla sanità privata avrebbe permesso, a detta dei promulgatori, di contenere la spesa sanitaria (in un momento di forte tensione finanziaria) senza ridurre la qualità dell’offerta. Il claim ripetuto dalla politica era che, così facendo, il welfare regionale lombardo avrebbe “messo al centro la persona” (richiamando la libertà di scelta) quando, in realtà, la persona non veniva affatto messa al centro, ma ‘affidata’ a strutture ritenute altrettanto, se non più, qualificate ma meno costose.
Ovviamente nessuno voleva considerare il fatto che un servizio non è pubblico solo perché si rivolge ai cittadini, ma è pubblico soprattutto perché le logiche che ne governano la gestione sono quelle del pubblico interesse. Viceversa, i principi manageriali cui sono improntate le aziende private, anche quelle sanitarie, mettono al centro il profitto, dal momento che l’interesse perseguito non è quello dei clienti (i pazienti), ma degli azionisti. E in effetti, ciò che è successo da allora in poi è che il privato ha investito nei settori “più remunerativi della sanità e dell’assistenza, quali per esempio i reparti di alta specializzazione in cardiologia o le Residenze Socio Assistenziali, lasciando al pubblico la gestione dei settori meno redditizi quali per esempio i servizi di pronto soccorso e la psichiatria” (4).
Tra l’altro, l’agognato contenimento dei costi non si è mai verificato, in parte per fattori non controllabili (come l’aumento dell’aspettativa di vita della popolazione o il lievitare dei costi dei farmaci, primi fra tutti quelli oncologici), ma soprattutto perché la sanità privata non ha alcun interesse ad abbassare il prezzo delle prestazioni sanitarie (riducendo i profitti), che infatti ha continuato imperterrito a salire. Di conseguenza, per rimborsare i privati, la Regione ha iniziato a ridurre i costi relativi alle strutture pubbliche, le quali hanno cominciato a vedersi tagliare posti letto, numero e stipendio dei medici e del personale infermieristico, investimenti in tecnologia e ricerca, eccetera. Alle nuove condizioni, è diventato impossibile per le ormai usurate eccellenze pubbliche competere con i nuovi colossi della sanità privata, che negli anni hanno drenato dalle strutture regionali non solo le risorse, denaro pubblico finito nelle tasche delle imprese private, ma i professionisti migliori e i pazienti più remunerativi.
La riforma Maroni e il pubblico
Ed è in questo momento di declino della sanità pubblica e fioritura di quella privata che nel modello ibrido lombardo si innesca, dopo una lunga gestazione, una seconda riforma, voluta fortemente dal Presidente Roberto Maroni: la legge regionale n. 23 dell’11 agosto 2015 (“Evoluzione del sistema sociosanitario lombardo: modifiche al Titolo I e al Titolo II della legge regionale 30 dicembre 2009, n. 33”). La riforma ha dismesso le 15 ASL e le 30 AO (Aziende Ospedaliere pubbliche) e ha creato due nuove tipologie di enti: 27 ASST (Aziende Socio-Sanitarie Territoriali) e 8 ATS (Agenzie di Tutela della Salute). Le ASST hanno un bacino di circa 400.000 abitanti (chiamato Distretto) e coincidono con le vecchie AO, le Aziende Ospedaliere, che devono oggi erogare sul territorio anche i servizi prima di competenza delle ASL. Le ATS, che hanno un territorio di competenza pari a circa un milione di abitanti, si occupano invece delle funzioni di programmazione, acquisto e controllo, per “assicurare, con il concorso di tutti i soggetti erogatori, i LEA”, cioè i Livelli Essenziali di Assistenza, vale a dire le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini (5).
La riforma ha inoltre istituito l’Assessorato alla salute e politiche sociali Welfare, accorpando gli Assessorati “alla salute” e “alla famiglia, solidarietà sociale, volontariato e pari opportunità”; ha previsto quando e come definire i Piani Regionali “sociosanitario integrato” e “della prevenzione”; e ha creato l’Osservatorio epidemiologico regionale e le agenzie regionali, destinate ciascuna a una specifica area (controllo, formazione e ricerca, sistema informativo, acquisti, gestione emergenza-urgenza, promozione nazionale e internazionale del sistema lombardo).
Per comprendere l’impatto della seconda riforma lombarda, bisogna ricordare che il sistema dei servizi in Italia è organizzato tradizionalmente in due grandi sottosistemi: quello sanitario, che fa capo alle Regioni, e quello dei servizi sociali, che fa capo ai Comuni. La bipartizione dei compiti ha reso, e rende, sempre altamente problematica la connessione fra queste due istituzioni, e la nuova legge non ha migliorato il livello di integrazione. Nonostante sulla carta si volesse spostare l’attenzione dall’ospedale al territorio, infatti, la riforma non ha mai definito gli strumenti di governo “periferici”. Non solo, ha innescato una fase particolarmente critica e conflittuale dal punto di vista burocratico, risultato del riordino del personale e delle competenze fra ATS a ASST, che si è protratta a lungo ed è ben al di là dal potersi definire conclusa: così migliaia di operatori sono transitati da un ente all’altro secondo schemi complessi, mentre in contemporanea avvenivano accorpamenti o divisioni territoriali e una complessiva ristrutturazione delle funzioni che ha complicato la gestione operativa delle realtà pubbliche. Il risultato è che i distretti hanno perso la funzione di coordinamento della rete dei servizi e sono diventati molto grandi (troppo, per garantire una presenza capillare); la collaborazione con i Comuni e la valorizzazione delle comunità locali appare marginalizzata; e a colui che dovrebbe essere l’attore territoriale di cerniera, il medico di famiglia, non viene attribuito un ruolo preciso (6).
A questo proposito bisogna inoltre rimarcare che la Regione sta facendo i conti da anni con una carenza di medici di base, un’emergenza che riguarda tutta Italia, ma la Lombardia in modo particolare: come spiega il presidente dell’Ordine dei medici regionale Gianluigi Spata, “i posti in specialità non sono sufficienti a coprire il fabbisogno”. Così, anche se la maggior parte delle posizioni vacanti riguarda Milano città, le zone più colpite sono quelle di periferia – più isolate e meno collegate con i mezzi pubblici – dove capita che i cittadini debbano spostarsi anche di 15 km per farsi visitare.
Di conseguenza, invece di migliorare, il livello dei servizi sul territorio è peggiorato, anche perché non esiste a livello empirico nessuna prova che una maggiore integrazione istituzionale nelle strutture di governo rafforzi l’integrazione operativa nei territori. Anzi, gli esperti concordano nel ritenere che si debba privilegiare non l’accentramento delle responsabilità, ma gli strumenti e gli incentivi che permettano ai diversi servizi locali di lavorare insieme (7). Data la mancata integrazione fra enti erogatori e territorio, in Lombardia è il cittadino, sempre in nome del principio di libera scelta, a doversi spostare entro il comune e da un comune all’altro per esercitare il suo diritto alla salute, perdendo tempo e denaro. Deve recarsi dal medico di medicina generale per ottenere le impegnative per gli approfondimenti diagnostici, poi deve trovare una struttura pubblica o privata dove prenotare gli esami, deve effettuarli, ritirare gli esiti e infine tornare dal medico di base per comunicare i risultati, perché l’estremo frazionamento a livello informatico del sistema sanitario lombardo (costituito da numerosi database separati pubblici e privati che funzionano sulla base di software a volte incompatibili l’uno con l’altro) non permette al medico curante di accedere alle informazioni che riguardano i suoi assistiti.
La riforma Maroni e i privati
Tutt’altra la situazione che la riforma Maroni ha creato sul fronte degli erogatori privati: la nuova legge ha riconfermato la loro importanza irrinunciabile e determinante nel contesto lombardo, non ha posto nuovi vincoli né ha variato i criteri di riferimento, e così all’interno delle strutture private le attività sono continuate come prima, anzi, meglio di prima. Come spesso accade, il privato ha visto nelle mancanze del servizio pubblico una nuova opportunità, e i gruppi più lungimiranti, nel pieno rispetto della legge di riordino, hanno cominciato a costruire le proprie reti sul territorio: ospedali con consultori o strutture riabilitative, poliambulatori con gruppi di medici di medicina generale per la gestione dei pazienti con malattie croniche, enti erogatori di prestazioni in assistenza domiciliare integrati con le strutture residenziali per anziani, e così via (8).
Maria Elisa Sartor, professoressa a contratto di Organizzazione sanitaria dell’Università degli Studi di Milano (9), ha calcolato che, mentre i posti letto nelle strutture pubbliche dal 1997 a oggi si sono dimezzati, la percentuale di quelli di competenza delle strutture private è raddoppiata, passando dal 19% al 40%. Non solo: gli IRCCS (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) privati, che ricevono fondi di ricerca pubblici dallo Stato e dalla Regione e che godono dal 2010 di una sovra-tariffazione per i servizi che erogano, sono diventati circa quattro volte quelli pubblici (14 IRCCS privati a fronte dei 4 pubblici) aumentando anche il numero delle sedi (21 contro le 13 iniziali). Inoltre dal 2003 è cambiata la natura delle strutture di assistenza a lungo termine, con la scomparsa degli IPAB (Istituti di Pubblica Assistenza e Beneficenza), che sono stati sostituiti dalle RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) private (oggi circa 675) e altre strutture.
I dati mostrano poi un ulteriore effetto di questo processo: nel 2017, a fronte di un numero di ricoveri pari al 35% del totale, gli erogatori privati hanno incassato il 40% dei fondi pagati dalla Regione per queste attività, senza contare la sovra-tariffazione per poli universitari e IRCCS. Questo, spiega la prof.ssa Sartor, perché “i servizi a maggior contenuto tecnologico e altamente specialistico migrano dal pubblico al privato. In molti ambiti di servizio, il sorpasso è già avvenuto da un certo numero di anni”.
Coronavirus e territorio
Ed è in questa situazione che la sanità pubblica lombarda si è trovata a fronteggiare l’epidemia Covid. Come molti osservatori hanno notato (tra cui Giovanna Cracco sul numero scorso), nessuna epidemia si controlla con gli ospedali: si controlla sui territori. E, per dirla con le parole della Federazione Regionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Lombardia, in una lettera indirizzata ai vertiti della sanità lombarda (10), in regione “è risultata evidente l’assenza di strategie relative alla gestione del territorio”, come testimoniano la mancanza di dati sull’esatta diffusione dell’epidemia (i tamponi sono stati fatti solo ai pazienti ricoverati e la diagnosi di morte per Covid è stata attribuita solo ai deceduti in ospedale); l’incertezza nella chiusura di alcune aree a rischio; la gestione confusa della realtà delle RSA e dei centri diurni per anziani, che ha prodotto diffusione del contagio e un terribile bilancio in termini di vite umane (nella sola provincia di Bergamo 600 morti su 6.000 ospiti in un mese); la mancata fornitura di protezioni individuali ai medici del territorio e al personale sanitario delle strutture pubbliche, che ha determinato la morte di numerosi clinici e la probabile e involontaria diffusione del contagio, specie nelle prime fasi dell’epidemia; la pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica (isolamenti dei contatti, tamponi sul territorio a malati, familiari e colleghi, eccetera); la mancata esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari del territorio e in alcune realtà delle strutture ospedaliere pubbliche e private, con ulteriore rischio di diffusione del contagio. Infine il mancato governo del territorio ha determinato la saturazione dei posti letto ospedalieri con la necessità di confinare nella propria abitazione malati che, in altre circostanze, avrebbero dovuto essere ricoverati. “La Regione Lombardia ha pensato di potenziare l’intensivologia, gli ospedali e le terapie intensive. Quindi tutto quello che riguarda il paziente una volta ospedalizzato” commenta Gianluigi Spata, presidente della FROMCeO Lombardia, “quello che non ha fatto è stato potenziare la medicina sul territorio, cioè i medici di base, i pediatri, la continuità assistenziale e anche le RSA. Questo è stato il problema principale, non aver pensato che il territorio poteva avere un ruolo importante, perché è il primo punto di riferimento per il paziente” (11).
In conclusione, “la situazione disastrosa in cui si è venuta a trovare la nostra Regione, anche rispetto a realtà regionali viciniori, può essere in larga parte attribuita all’interpretazione della situazione solo nel senso di un’emergenza intensivologica, quando in realtà si trattava di un’emergenza di sanità pubblica. La sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate nella nostra Regione” (12).
Inoltre, e questo aspetto non è stato sottolineato abbastanza, all’inizio dell’epidemia i privati, che tanto stanno beneficiando del sistema misto lombardo, si sono chiamati fuori, da un lato perché i loro contratti non prevedono la gestione delle emergenze sanitarie, formalmente di competenza pubblica, dall’altro perché infettivologia e terapia intensiva non sono settori ad alto profitto, e pertanto non sono destinatari di investimenti privati. Gli ‘aiuti’ sono arrivati solamente dal primo di marzo, rappresentati inizialmente da un misero contingente di 14 medici per cui il presidente Fontana si è pure sentito in dovere di ringraziare. Bisogna inoltre sottolineare che questi ‘aiuti’ sono stati pagati dalla Regione a prezzo maggiorato, perché si trattava di servizi non previsti dagli accordi standard.
In sintesi, la pessima prestazione della giunta Fontana nella gestione dell’epidemia non è stata solo un problema di incompetenza politica, ma la conseguenza logica del modello di sanità implementato da Formigoni in poi. A dispetto dell’evidenza dei fatti Fontana e Gallera, assessore regionale alla Sanità, continuano a negarlo; qualcuno come Angelo Capelli, tra i relatori della riforma Maroni, ha almeno più onestà intellettuale: “È mancato un filtro da parte della sanità territoriale” ha dichiarato, “perché la parte della riforma del 2015 che prevedeva l’integrazione delle a-ziende ospedaliere con i servizi sociali è rimasta lettera morta”; una conseguenza della scelta fatta nel 2017 “di abbandonare del tutto il modello delle cure territoriali previsto nella riforma”; a causa di questa decisione “il territorio lombardo è rimasto completamente scoperto e gli ospedali lombardi hanno fronteggiato da soli l’epidemia” (13).
La catastrofe
I risultati non si sono fatti attendere, come testimonia una lettera di tredici medici dell’ASST Papa Giovanni XXIII, la più importante struttura ospedaliera di Bergamo, pubblicata il 21 marzo sul New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery, dal titolo “At the Epicenter of the Covid-19 Pandemic and Humanitarian Crises in Italy: Changing Perspectives on Preparation and Mitigation”: “Il nostro ospedale è altamente contaminato e siamo ben oltre il punto di svolta: 300 letti su 900 sono occupati da pazienti Covid-19. Il 70% dei posti letto in terapia intensiva del nostro ospedale è riservato a pazienti Covid-19 gravemente malati che hanno una ragionevole possibilità di sopravvivenza. La situazione è dolorosa perché operiamo ben al di sotto del nostro normale standard di cura. I tempi di attesa per un letto in terapia intensiva sono di ore. I pazienti più anziani non vengono rianimati e muoiono da soli senza adeguate cure palliative, mentre la famiglia viene informata per telefono, spesso da un medico ben intenzionato, ma fisicamente stremato ed emotivamente esausto, con cui non avevano avuto nessun contatto precedente. Ma la situazione nell’area circostante è ancora peggiore. La maggior parte degli ospedali è sovraffollata e sta per crollare sotto la pressione, mentre non sono disponibili farmaci, ventilatori meccanici, ossigeno e dispositivi di protezione individuale. I pazienti giacciono sui materassi a terra. Il sistema sanitario fatica a fornire servizi regolari – anche per la cura della gravidanza e il parto – mentre i cimiteri non riescono a smaltire i cadaveri, il che creerà un altro problema di salute pubblica. Negli ospedali, gli operatori sanitari e il personale ausiliario sono soli e cercano di mantenere attiva l’operatività. Fuori dagli ospedali, le comunità sono trascurate, i programmi di vaccinazione sono in stand-by, e la situazione nelle carceri sta diventando esplosiva, in mancanza di alcuna distanziazione sociale. […] I sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di assistenza incentrata sul paziente, ma un’epidemia richiede un cambiamento di prospettiva verso un concetto di assistenza incentrata sulla comunità […].
“Per esempio, stiamo imparando che gli ospedali potrebbero essere i principali vettori del Covid-19, poiché si popolano rapidamente di pazienti infetti, facilitando la trasmissione ai pazienti non infetti. […] Gli operatori sanitari sono portatori asintomatici o malati senza sorveglianza; alcuni potrebbero morire, compresi i giovani, il che aumenta lo stress di chi è in prima linea. Questo disastro avrebbe potuto essere evitato solo con un massiccio dispiegamento di servizi di assistenza. Le soluzioni pandemiche sono necessarie per l’intera popolazione, non solo per gli ospedali. L’assistenza domiciliare e le cliniche mobili avrebbero evitato movimenti inutili e liberato gli ospedali dalla pressione. L’ossigenoterapia precoce, i pulsossimetri e i pasti avrebbero potuto essere forniti alle case dei pazienti lievemente malati e convalescenti, creando un ampio sistema di sorveglianza con un adeguato isolamento e facendo leva su strumenti innovativi di telemedicina. Questo approccio avrebbe limitato il ricovero ospedaliero a un obiettivo mirato di gravità della malattia, riducendo così il contagio, proteggendo i pazienti e gli operatori sanitari e riducendo al minimo il consumo di dispositivi di protezione. Negli ospedali, la protezione del personale medico avrebbe dovuto essere prioritaria […] Il coronavirus è l’Ebola dei ricchi e richiede uno sforzo transnazionale coordinato. Non è particolarmente letale, ma è molto contagioso. Più la società è medicalizzata e centralizzata, più il virus si diffonde”.
Per contenere la prossima pandemia, o semplicemente per difendersi dalla prossima eventuale ondata del Covid, il sistema pubblico deve ricominciare a investire subito su territorio e servizi. Il problema – o meglio uno dei problemi – è che una giunta regionale che ha il solo obiettivo di difendere se stessa dalle sacrosante richieste di dimissioni provenienti da sempre più cittadini lombardi, continuando imperterrita ad affermare che il sistema sanitario regionale ha risposto al meglio all’epidemia, non può certo farlo.
1) Cfr. https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/?utm_source=fasciahp
2) È stato ripetutamente affermato che i dati ufficiali cinesi sottostimano la dimensione reale dell’epidemia, ma lo stesso si può dire di quelli italiani, e lombardi in particolare
3) Cfr. https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1997/11/29/097R0637/s3
4) Cfr. https://www.vittorioagnoletto.it/2019/02/24/il-modello-formigoni-ha-spalancato-le-porte-ai-privati/
6) Cfr. https://www.saluteinternazionale. info/2017/02/la-nuova-sanita-lombarda/
7) Si veda per esempio Goodwin, N., Dixon, A., Anderson, G. & Wodchis, W. (2014). Providing integrated care for older people with complex needs: Lessons from seven international case studies. London: The King’s Fund. Disponibile su http://cdn.basw.co.uk/upload/basw_102418-7.pdf
8) Cfr. https://www.saluteinternazionale.info/2017/02/la-nuova-sanita-lombarda/
9) Cfr. https://www.dire.it/22-04-2020/450468-sanita-privato-territorio-modello-lombardia