Recuperata ogni volta che un rappresentante di spicco del Pd viene indagato, la questione morale, trent’anni dopo Berlinguer, appare un consunto lavacro in cui un partito fuori controllo si monda dalle proprie colpe; ma le vere responsabilità morali di cui il Pd dovrebbe rispondere oggi sono altre, e sono politiche
“Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche – e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla Dc – non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, a fondo, la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?”
Enrico Berlinguer – La Repubblica, 28 luglio 1981
Com’è vero che la storiografia rientra nel campo dell’arte della guerra. Lo si è visto con cristallina evidenza questa estate, di fronte all’ennesimo recupero dell’intervista di Berlinguer sulla questione morale. Succede sempre nei momenti di crisi; ancor di più nel bel mezzo di una crisi che coinvolge contemporaneamente economia e politica, allorquando i direttori di coscienza – ergo, gli opinionisti di palazzo – trovano più conveniente, per non dispiacere i loro datori di lavoro, sostituire a un’analisi seria delle responsabilità del sistema economico capitalistico sulla macelleria sociale in atto, un sano, per quanto indignato, dibattito sul crollo morale del sistema politico.
Suscitare indignazione morale è la via più diretta per distrarre le menti e solleticare la pancia dei lettori. Si tratta di una strada già bella e pronta, già lastricata.
Altrimenti perché in Europa la gente va in piazza a protestare contro la perversità del sistema di produzione capace solo di creare povertà in ingenti fasce di popolazione, e qui da noi la piazza è sgombra, un desolante parcheggio per auto? L’unico scontro visibile è quello tra i poteri economici che si svolge sulla carta stampata: industriali e finanzieri che muovono i loro Atlantic della politica per sbarazzarsi di Berlusconi, e Berlusconi che usa la propria ricchezza e le sue corazzate per restare aggrappato a quel tappo di sughero che è lo Stato italiano, da lui utilizzato per salvarsi la ghirba.
L’asprezza dell’attuale scontro e i toni delle chiacchiere hanno convinto buona parte degli italiani che, via Berlusconi, i problemi saranno risolti, e gli inevitabili strascichi saranno ancora imputabili all’attuale governo. E che questo comporterà un monte di sacrifici. Una prima dimostrazione la si è avuta nella calura agostana quando in tutta fretta il Parlamento, frustato sulla schiena dal cocchiere Napolitano, compatto ha votato a favore di una manovra sanguinosa per salariati e pensionati. E non è ancora finita, visto che presto verrà strappato lo Statuto dei lavoratori davanti al tripudio di Confindustria (finalmente le riforme che volevamo!, finalmente riusciamo a sfruttare la crisi!).
Da qualche numero noi lo chiamiamo Unipolarismo, un mostro con due corpi e una testa, l’entità politica che verrà dopo la fine di Berlusconi – l’alleanza, mascherata da bipolarismo, di tutte le forze parlamentari. La sua caratteristica sarà l’assenza della questione del lavoro, e di un referente politico, tutela dei propri interessi, che i lavoratori possano votare senza turarsi il naso. L’Unipolarismo è il vero porcellum che nessuno denuncia, e sarebbe già in atto se non ci fosse l’anomalia Berlusconi. Tuttavia, sotto il profilo mediatico, la cancellazione o la riprovazione di e per chi abbia l’ardire di parlare o anche solo di ricordare con la sua stessa presenza il tema del lavoro e dello scontro tra padronato e lavoratori, è già stata realizzata da tempo. Ed è questa la sottile guerra combattuta nella storia del dopo Muro a cui faceva riferimento la prima riga di questo articolo. La storiografia, intesa come componente centrale, sovrastrutturale (nel significato marxiano del termine), dell’apparato bellico, si occupa a tempo pieno di provvedere a questo stralcio dello scontro sociale dalle pagine di storia, dalla toponomastica delle città, dalle ricostruzioni dei Minoli, degli Zavoli, della ditta Piero e Alberto Angela, dei Pansa, dei Mieli, dei Lucarelli, dai film, dalle nuove prefazioni scritte a introduzione dei romanzi classici e dagli spazi di tutti i giornali di Palazzo.
E la si è vista anche all’opera negli articoli di questi ultimi giorni proprio durante il dibattito sulla questione morale lanciata piangente in braccio al centro-sinistra. Era inevitabile che ciò accadesse, visto che si tratta di uno dei tanti fardelli storici che gravano sulle fragili spalle degli attuali dirigenti del Pd. Un’eredità di cui, vista la loro fallimentare gestione del patrimonio del pensiero di sinistra, farebbero volentieri a meno, e dello smaltimento delle cui scorie si stanno preoccupando da un paio di decenni.
L’intervista rilasciata da Berlinguer a La Repubblica è tornata in auge dopo i casi giudiziari che hanno coinvolto Tedesco e Penati. In quell’occasione, il segretario del Pci aveva parlato a lungo snodando in maniera articolata il proprio discorso, spaziando lungo vari temi come la passione politica, la degenerazione dei partiti degradati a macchine di potere e di clientela e in federazioni di correnti, la denuncia della loro occupazione dello Stato e della lottizzazione delle sue istituzioni; le tre ragioni della diversità comunista proposta dal Pci, la critica al sistema capitalistico, le preoccupazioni per l’enigmaticità politica del Psi di Craxi; la corruzione dei partiti e la metodologia con cui essa prolifera, la forte critica alla società dei consumi, l’inflazione, i diseredati della società gli ultimi gli operai le donne gli emarginati e i sottoproletari, il costo del lavoro, la credibilità della politica.
Uno spettro di argomenti piuttosto ricco che, anche se necessariamente sbrigativo, comunque dava l’idea che un’analisi della società da sinistra non può essere fatta compartimentando ogni argomento e isolandolo dal resto. Si tratta di un’abitudine ormai perduta. Oggi, anche nei movimenti che fanno opposizione – non solamente sulle labbra dei dirigenti del Pd, quindi – le forme di protesta si muovono separate, per argomenti, seguendo interessi immediati e particolari.
Gli studenti protestano per la riforma universitaria, le mamme per il maestro unico alle elementari, i No Tav contro l’alta velocità, grillini, travaglini e dipietristi contro la corruzione, La Repubblica contro Berlusconi, i giornalisti contro la censura berlusconiana, le donne per la loro dignità dopo il caso Ruby… Come se la società non avesse una propria coerenza interna, come se istruzione, politica, industria, burocrazia, giustizia, polizia, sport, religione, scienza, cultura e arte non rispondessero a una medesima logica di fondo.
Il quadro tratteggiato dal secondo Berlinguer non era solo l’analisi di una società alla deriva, bensì il manifesto di una svolta politica. Un’analisi che comprendeva tutto: dal problema culturale, di cui il Pci avrebbe dovuto farsi carico, a quello politico ed economico. Questo modo di interpretare la società appartiene alla cultura di sinistra ed è l’esatto contrario di slogan, fioriti anche sulle pavide labbra di politici di centro-sinistra, di cui il più noto e più sciorinato è: il problema della sicurezza non è né di destra né di sinistra. Frasi funzionali all’occultamento delle responsabilità del sistema di produzione capitalistico e ad attribuire al singolo individuo l’onere totale della propria azione e, con essa, della propria condizione. Lo slogan, di fatto, non significa granché. Di sinistra o di destra, infatti, è il modo con cui si analizza e si affronta un problema sociale, non il problema in sé.
C’è una disabitudine politica alle analisi più articolate e complesse. Per via di un corto circuito culturale causato proprio dall’aver buttato a mare il pensiero di sinistra. Ma non è per questa dimenticanza che ogni volta che il discorso di Berlinguer viene riesumato dagli archivi della storia, giornalisti e politici l’affrontano prendendone un solo unico blocco, isolato. Una selettività sospetta, dato che non si limita a ignorare il corpo completo dell’intervista, ma anche la nuova strategia politica che il segretario del Pci, dopo la deriva entrista degli anni Settanta, aveva da qualche mese messo in moto; quella specificità politica del partito comunista che nega, con tutte le sue forze, quello che invece sarà l’agire dei dirigenti che guideranno il centrosinistra dalla svolta della Bolognina in poi, fino a oggi. Non per dimenticanza, quindi, ma per perpetuare una cultura che non vuole criticare il sistema capitalistico. Nemmeno una volta ogni tanto.
Ecco perché le uniche parole dell’intervista cui viene dato fiato sono quelle riguardanti la corruzione della politica e la brutale occupazione dello Stato e delle sue istituzioni, da parte dei partiti. Pane per i denti dell’unica forma di opposizione giornalistica rimasta in Italia: il giustizialismo, la corrente dell’antipolitica che ha sostituito una ricchezza incommensurabile come il pensiero e l’analisi sociale di sinistra, a partire da quella marxiana.
Il brutale taglio operato basterebbe a dimostrare lo spirito gossipparo di coloro che hanno sollevato la questione, nonché il loro desiderio di soffiare solo fumo; lo spirito da sigaretta post coito.
In particolare, Eugenio Scalfari, autore all’epoca dell’intervista, ne prende spunto per arrivare a ripetere, sulle pagine de La Repubblica il 28 luglio scorso, il mantra della Bolognina: riformismo a ogni costo. Riformismo è diventato il termine chiave della sinistra progressista, senza che nessuno mai spieghi né per come né per dove. Come accadeva per il confetto Falqui, per il quale bastava la parola.
Scalfari si veste da Zorro e propone la strada per la libertà: un vero “riformismo di alto livello che cominci appunto con il ritiro dei partiti dalle istituzioni a cominciare dalla Rai”, come aveva chiesto Veltroni (ma non doveva andarsene in Africa?), precisa il giornalista prima di aggiungere: “Questo è l’inizio del riformismo, il quadro entro il quale le forze politiche possono e debbono operare per modernizzare il Paese, affrontare la crisi economica, preservare l’equanimità. La legge elettorale completa il quadro perché, se ben fatta, restituisce al Parlamento la sua funzione di rappresentanza della sovranità popolare riscattandolo dalla soggezione in cui l’ha relegato la legge attuale”. Perfetto, così finalmente il lavoratore potrà tornare a votare come si deve e serenamente scegliere tra due candidati, entrambi convinti che il precariato lavorativo sia la forma più moderna di società, e che la privatizzazione delle risorse pubbliche e sociali sia il toccasana per una società civile. Anche se nemmeno la piena realizzazione di tutto ciò deve illudere. Infatti, in piena coerenza, Scalfari ammette che ormai è troppo tardi per salvare quella diversità comunista cui faceva cenno Berlinguer. Senza ricordare quanto, gente come lui e tutti i miglioristi di sinistra alla Napolitano, si siano ammazzati di lavoro per riuscire a scaricarla nei condotti fognari della storia.
Anche Luciano Violante, storico rottamatore politico delle differenze tra destra e sinistra e tra padroni e lavoratori, è stato chiamato a esprimersi sull’argomento. La sua intervista, pubblicata lo stesso giorno, il 28 luglio, su L’Unità, verte naturalmente sulla corruzione, sui casi Tedesco e Penati.
A onore di Violante va riconosciuto un centimetro di verità in più, nell’analisi, rispetto a quella assolutamente inutile di Scalfari. Dalle sue parole appare evidente una preoccupazione riguardo al futuro del suo partito sotto l’aspetto della morale. Innanzitutto certifica che le parole di Berlinguer andavano sì, bene, ma all’epoca. E ricorda che il Pd non è il Pci del XXI secolo e che “il nostro è un partito nuovo, nato in una società aperta” e che “rapportarlo a modelli del passato è sbagliato”.
E su questo ha ragione. Infatti adesso i partiti si sono evoluti fino a diventare, Pd compreso, comitati d’affari imbottiti al proprio interno di figli di vecchi capitani d’industria. Sa bene, quindi, Violante, che è giunto il momento di prendere le distanze dalla magistratura, denunciando l’eccesso di subordinazione della politica alla giurisdizione. In questo l’uomo, l’ex magistrato, si dimostra molto più avanti dei suoi colleghi di partito, e pensa già al dopo Berlusconi, al momento in cui sarà sempre più difficile per il Pd fare opposizione contro i partiti di centrodestra dei quali condivide appieno la linea di politica economica. Evidentemente, Violante teme l’effetto boomerang dell’antiberlusconismo legalitario espresso dal suo partito in questi anni. Un domani, come reagirà l’elettorato di sinistra quando si accorgerà, grazie alle inchieste della magistratura, del livello di collusione dei politici del Pd (o quale sarà diventato allora il suo nome) con il malaffare capitalistico? Soprattutto memore delle campagne di moralizzazione contro la politica berlusconiana? Violante sa bene che l’elettorato di sinistra, a differenza di quello di destra, ha buona memoria e tende a perdonare poco. Quindi, avvisa che “ci vuole un luogo in cui si accertino le responsabilità politiche che prescinda dall’accertamento giudiziario. Altrimenti diventa inevitabile la presenza della giurisdizione nella politica”.
Una frase che porta l’intervistatore a incalzarlo e a chiedergli di applicare il ragionamento al Pd e a Penati. Violante così risponde: “È apprezzabile il gesto di dimettersi dagli incarichi. Mentre per Tedesco si è potuto leggere i documenti giudiziari, per Penati non c’è stata ancora la possibilità. Se dovessero venire fuori fatti rilevanti bisognerebbe chiedergli un passo ulteriore. Chi svolge funzioni politiche lo fa sulla base di due principi, la fiducia e il consenso. Ogni volta che fiducia e consenso sono messi in discussione deve scattare un principio di cautela e a volte di responsabilità che fa compiere un passo indietro”.
Il giornalista allora chiede cosa accadrebbe nel caso si scoprisse la sua innocenza, e si sente rispondere: “Sarà tanto più qualificato per riaccedere autorevolmente all’incarico che ha lasciato”.
C’è in atto, qui, un equilibrismo sospeso sull’equivoco. Mentre Violante, senza avvisare, si è già seduto nel luogo preposto ad accertare le responsabilità politiche a prescindere dell’ambito giudiziario, il giornalista è ancora parte della realtà odierna in cui quel luogo non esiste. Per questo, senza saperlo, cade nell’equivoco e domanda se questo non significhi accettare una subalternità al potere giudiziario.
La risposta di Violante è un capolavoro di arte politica, ovvero dell’arte del parlare senza dire: “No, io parlo di responsabilità politica accertata in modo trasparente da organismi autorevoli e credibili”. Che evidentemente poco hanno a che vedere con la magistratura, e così il giochino si chiude. Infatti, così sballottato tra uno spazio che ancora non esiste e la realtà di oggi, il giornalista sembra perdere il filo e buca l’unica domanda che avrebbe fatto chiarezza su cosa significhi concretamente, per Violante, evitare la subalternità al potere giudiziario, e quindi cosa intenda oggi il Pd, questo nuovo partito moderno, per questione morale. E se, prendendo il caso di Penati, contro il parere degli “organismi autorevoli e credibili”, la magistratura lo giudicasse colpevole?
Questi sono solo due esempi tra i tanti a dimostrazione di quanto, mai come in quest’ultima tornata, la questione morale, ridotta a un problema di ethos politico e di corruzione, si sia dimostrata tanto speciosa. D’altro canto è sempre stata fuorviante questa nuova cultura sbandierata (con successo anche tra gli elettori di sinistra, occorre ammetterlo) dai Saviano, dai Travaglio, dai Grillo, dal papa, e costruita per indurre i cittadini a credere all’esistenza possibile di un capitalismo onesto. Come se le leggi insite nei suoi meccanismi non tendessero inesorabilmente al monopolio e all’esproprio degli stessi proprietari, e a costruire forme politiche di potere atte a preservarne l’esistenza e la continuità. La corruzione, per quanto diffusa possa essere, è sempre e solo un sintomo della sua essenza criminale più recondita. Basti pensare che l’attuale crisi è stata creata da banche e finanza agendo in perfetta legalità.
Per cui, limitare la questione morale – ogniqualvolta un politico di spicco in forza al centro-sinistra viene indagato – alla corruzione, non ha alcun senso, se non per la salvaguardia della menzogna più grande. È la domanda con cui la Sfinge costringe i tebani a confrontarsi sul nulla e a distogliere lo sguardo dalle cose importanti.
Non è sensata nel momento in cui non la si inserisce in un campo visivo più ampio. E visto che non si può più sperare in una rivoluzione che faccia piazza pulita, come si augurava Monicelli (e con lui chissà quanti altri infuriati, scontenti, orfani culturali, stufi di vivere in un sistema che perpetua l’oppressione esistenziale ed economica), si può almeno lavorare sulla cultura e sulla memoria.
Non c’è alcun interesse a sinistra nel ricordare che il Berlinguer uscito con le ossa rotte dall’esperienza dell’entrismo – tanto cara ai miglioristi esponenti della destra Pci – si era impegnato in una svolta politica che aveva cominciato a dare i suoi frutti almeno da un punto di vista elettorale.
Un programma che prevedeva il recupero del conflitto di classe, di cui l’appoggio garantito agli operai della Fiat durante la dura lotta del 1980 e le lotte per la questione salariale e contro lo smantellamento della scala mobile, sono un’importante testimonianza di sincerità; la denuncia della corruzione del sistema, la questione morale, per la quale Berlinguer aveva ottenuto in cambio l’ostilità degli infaticabili miglioristi alla Napolitano; il recupero dell’ideale pacifista, in un momento in cui Reagan faceva della corsa al riarmo l’ariete per costringere l’Unione sovietica, già in declino, ad aumentare le spese militari e così condurla al collasso: la linea, proposta ai leader di sinistra del Terzo mondo, mirava a un disarmo bilaterale.
Berlinguer ottenne un enorme successo. Nel 1983 prese il 30%, mentre la Dc scendeva al 33%, e nel 1984, dopo la sua morte, il Pci divenne il primo partito italiano con il 33,3%.
Confrontando il riassunto di questo programma con l’operato del centro-sinistra di questi ultimi anni, non si riesce a non constatare l’ignavia di Bersani durante le ultime consultazioni referendarie a cui sono stati chiamati gli operai della Fiat, nella sua scelta di non indicare un indirizzo di voto. A Torino, nei giorni della occupazione del 1980 da parte degli operai della Fiat, Berlinguer era stato molto più chiaro: “Spetta a voi decidere sulla forma della vostra lotta, a voi e ai vostri sindacati giudicare gli accordi accettabili. Ma sappiate comunque che il Partito comunista sarà al vostro fianco, nei momenti buoni e nei momenti non buoni”.
Riguardo alla questione morale, basta leggere la cronaca giudiziaria, e nel merito del pacifismo parla il voto ogni anno espresso dal Pd a favore dei rifinanziamenti alle varie missioni di guerra italiane.
In questa impietosa comparazione, e nel non avere mai espresso una critica all’industria culturale, nell’avere abdicato alla cultura, nell’aver rottamato in blocco il pensiero di sinistra, nell’aver abbracciato i poteri forti e nell’avere abbandonato i lavoratori nelle grinfie degli Shylock italiani; nell’avere accettato e appoggiato lo smantellamento dei servizi pubblici, nel non essersi opposto all’introduzione del federalismo, nell’avere fatto tutto questo non per incapacità o stupidità ma per scelta deliberata e opportunismo; in questo calderone di gravi responsabilità e nell’avere accettato il neoliberismo e il dogma della mano invisibile del mercato, nel non avere mai alzato la voce contro il sistema finanziario che oggi conduce l’Occidente al collasso e alle manovre lacrime e sangue per pensionati e lavoratori, in questo e in molto altro sarà il caso di rintracciare la vera questione morale da sbattere in faccia ai dirigenti dell’attuale Pd. E non un volta ogni tanto, quando arrestano un loro politico. Tutti i giorni.