Federica Beretta
Il mutamento del ruolo femminile nell’organizzazione mafiosa e l’incapacità dei media di coglierlo
“Mi assumo la responsabilità dell’omicidio di Lea Garofalo […]. Per me è incomprensibile e inconcepibile che mia figlia Denise sia sotto protezione. Da chi deve essere protetta? Io do la mia vita per mia figlia, in qualsiasi momento, io adoro mia figlia, merito il suo odio perché ho ucciso sua madre. Io prego per ottenere un giorno il suo perdono”. Queste le dichiarazioni spontanee che Carlo Cosco ha rilasciato il 9 aprile scorso a Milano, durante la prima udienza del processo d’appello per l’omicidio della sua ex compagna, Lea Garofalo. Una dichiarazione inattesa perché l’uomo ha sempre respinto ogni accusa durante il dibattimento di primo grado, che si è concluso con una condanna all’ergastolo per lui e gli altri cinque imputati: i fratelli Vito e Giuseppe Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Carmine Venturino, quest’ultimo ex fidanzato di Denise Cosco, costituitasi parte civile nel processo contro il padre.
Lea Garofalo, figlia di un’importante famiglia di ‘ndrangheta del crotonese, custodiva i segreti del clan di Petilia Policastro, dislocato a Milano; nel 2002 diventa testimone di giustizia e inizia a vivere sotto protezione con la figlia Denise. Protezione che le viene revocata nel 2006, perché il suo apporto dato alle indagini viene considerato non significativo, e poi ripristinata nel dicembre 2007, su istanza del Consiglio di Stato a cui la Garofalo si era rivolta per riottenere l’inserimento nel programma.
Nell’aprile 2009 è la stessa donna a rinunciare volontariamente alla tutela e dopo pochi mesi, il 24 novembre, viene rapita e uccisa. Un omicidio rimasto impresso nella memoria dell’opinione pubblica per la sua brutalità. Carmine Venturino, oggi collaboratore di giustizia, racconta di averla strangolata con una corda da tenda e di aver bruciato il cadavere in un fusto, disintegrando le ossa con una pala. Il corpo – 2.812 frammenti ossei – è stato ritrovato solo nel novembre 2012 in un capannone industriale a San Fruttuoso, vicino a Monza.
La notizia della dichiarazione di autocolpevolezza rilasciata da Carlo Cosco viene riportata la sera stessa dai principali telegiornali. “‘Ndrangheta significa uomini forti, uomini coraggiosi. Non si collabora con i giudici e le donne non contano. Fanno i figli, li educano ai valori delle cosche e tramandano la vendetta delle faide”. Così apre il servizio del Tg La7, rivelando quanto la visione mainstream della figura della donna all’interno della ‘ndrangheta sia tuttora ancorata a stereotipi ormai superati. Emerge infatti, nei principali organi di informazione, una preoccupante cecità sull’argomento, o più semplicemente un’incapacità a saper leggere e interpretare il mutamento del ruolo femminile avvenuto all’interno dell’organizzazione mafiosa.
Perché non esiste più la sola contrapposizione tra chi sceglie di diventare testimone di giustizia e chi resta succube di un potere patriarcale: molte donne di ‘ndrangheta si sono ‘emancipate’ dal ruolo tradizionale, non senza ambiguità e contraddizioni, e da anni apportano il loro contributo attivo all’interno dei clan.
Il ruolo tradizionale
È certamente vero che all’interno dell’organizzazione criminale le donne hanno sempre svolto compiti tradizionali, relegati nella sfera privata. Compiti ritenuti di vitale importanza e oneri imprescindibili che spettano all’universo femminile, funzioni che possiamo distinguere tra attive e passive. Le prime riguardano la trasmissione del codice culturale mafioso ai figli e l’incoraggiamento alla vendetta. Spetta alla madre il dovere di inculcare nei figli e nelle figlie i ‘valori’ dell’omertà, la differenza di genere e il disprezzo per l’autorità pubblica, e di ricoprire il ruolo delle custodi dell’onore offeso degli uomini mantenendo vivo il fuoco della vendetta. All’interno della ‘ndrangheta si può parlare di una vera e propria ‘pedagogia della vendetta’, termine utilizzato dalla sociologa Renate Siebert per indicare il continuo incitamento nei confronti dei figli a vendicare l’onore del padre ucciso.
Le funzioni passive riservano alle donne il compito di essere garanti della reputazione maschile e merce di scambio nelle politiche matrimoniali. È la reputazione a garantire agli uomini di essere formalmente affiliati alla mafia, e la donna deve salvaguardarla attraverso la propria rispettabilità e onorabilità. Mentre con i matrimoni combinati, che con obiettivi strategici servono ad allargare alleanze o ad attuare pacificazioni dopo anni di faide tra clan, alla donna è ‘richiesto’ di essere succube del volere maschile e della propria famiglia.
Il ruolo criminale
Il ruolo criminale delle donne all’interno della ‘ndrangheta è un ruolo ambiguo e contraddittorio in cui si mescolano compiti tradizionali e criminali. Emerge nel corso degli anni Settanta/Ottanta, attraverso due importanti processi di cambiamento: uno endogeno all’associazione mafiosa – nuove tipologie di affari illeciti e mutamenti in seno all’organizzazione – l’altro esogeno – le trasformazioni avvenute nella società in riferimento alle condizioni della donna rispetto all’educazione, al mondo del lavoro, ai costumi sociali. Quando l’organizzazione criminale entra nel mercato del narcotraffico, una nuova generazione di donne, più giovani e istruite, si adegua alla domanda mafiosa in nome dell’offerta e inizia a partecipare attivamente ai traffici illeciti. Tre sono i settori chiave in cui le donne si inseriscono: il traffico di droga, il settore economicofinanziario e le attività di collegamento e gestione del potere.
Nel settore del narcotraffico le donne vengono arruolate come corrieri e spacciatrici. Trasportare droga è un compito particolarmente adatto a una donna, che può facilmente nascondere quantitativi di droga simulando gravidanze o arrotondando fianchi e seni. Il fattore dell’insospettabilità risulta infatti preminente nella decisione di assoldare figure di sesso femminile. Le donne coinvolte nel narcotraffico provengono spesso da contesti di marginalizzazione sociale, hanno un elevato numero di figli da mantenere e accettano di entrare nei traffici illeciti sia per provvedere alla propria famiglia che per soddisfare il desiderio consumistico proposto dalla società.
Un esempio sono le donne che negli anni Ottanta collaboravano con il clan Serraino-Di Giovine, attivo a Milano nel settore del narcotraffico internazionale: Angela Russo, detta “nonna eroina”, venne arrestata nel 1982 con l’accusa di essere l’organizzatrice dell’ingente narcotraffico; Maria Serraino esercitava un controllo capillare e militare nell’area circostante Piazza Prealpi, impartendo ordini sui quantitativi di droga senza mai muoversi dalla sua cucina.
Il settore economico-finanziario è quello in cui si registra il coinvolgimento del maggior numero di figure femminili, un ambito che risulta particolarmente adatto perché non richiede forza e violenza fisica. Le donne vengono utilizzate come la ‘faccia pulita’ dell’organizzazione, servono come prestanome ma amministrano anche società e investono denaro. Grazie alla preparazione e agli studi riescono a entrare nel vivo nei traffici dell’organizzazione e a ritagliarsi ampi spazi di manovra, risultando spesso più affidabili e preparate della controparte maschile.
Infine, anche se solo in determinate circostanze, le donne vengono coinvolte direttamente nella gestione del potere mafioso, ricoprendo posizioni di comando nella struttura dell’organizzazione. Questo si verifica soprattutto quando la figura maschile è assente, perché in carcere o latitante. Quando ciò avviene, nelle vesti di messaggere le donne trasportano, per conto dei membri del clan, le cosiddette ambasciate, messaggi scritti o orali, dal carcere all’esterno, oppure da un luogo di latitanza all’altro. Si tratta quindi, sempre e in ogni caso, di un potere temporaneo e delegato, in sostituzione di quello maschile, che viene concesso alla donna dagli uomini del clan.
Donne di ‘ndrangheta in Lombardia
Negli ultimi anni, le indagini della magistratura hanno portato alla luce i ruoli determinanti di alcune giovani donne di ‘ndrangheta: Angelica Riggio, Luana Paparo, Maria Valle. Occorre sottolineare che si tratta di sentenze in primo e secondo grado, e dunque non definitive.
Angelica Riggio, nata e vissuta a Monza al di fuori del contesto mafioso, è una giovane ragazza madre (classe 1981) che diventa amante e poi convivente di Pio Domenico. L’uomo (classe 1946) è accusato dalla procura di essere il responsabile delle estorsioni della locale di Desio; quando viene arrestato il 13 luglio 2010 nell’ambito dell’operazione Infinito, il ramo milanese dell’operazione Crimine-Infinito coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria e Milano (oltre 170 arresti nella sola Lombardia, tra gli imputati anche Carlo Chiriaco, ex direttore della Asl di Pavia), la Riggio prende il suo posto nella gestione del racket: da tenutaria della contabilità dei crediti passa all’azione diretta, si fa chiamare “Vanessa” e va a riscuotere i soldi che il compagno vanta nei confronti delle vittime, con una tenacia e un’aggressività dimostrata, a detta degli inquirenti, in più occasioni. Arrestata nell’ottobre 2010, Angelica Riggio si trova così a rispondere dell’accusa di usura. Durante le perquisizioni la magistratura trova un numero elevato di titoli di credito, molti dei quali intestati alla Riggio, titolare anche di alcuni immobili di provenienza incerta. Nel dicembre 2012 viene condannata in primo grado a 6 anni e 6 mesi di carcere.
Luana Paparo (classe 1988) è figlia di Marcello Paparo, che la procura considera il capo della ‘ndrina di Isola di Capo Rizzuto che segue gli affari della cosca Arena-Nicoscia a Cologno Monzese. Il suo nome compare nell’inchiesta Isola, un’operazione che nel marzo 2009 manda in carcere più di venti elementi considerati organici alle ‘ndrine Arena e Nicoscia.
I Paparo operano nel settore del facchinaggio e del movimento terra, e secondo l’accusa mirano a insinuarsi nei grossi appalti di facchinaggio e trasporto in catene di supermercati con il Consorzio di cooperative Ytaka di Brugherio, e nei grossi subappalti di movimento terra nei cantieri del quadruplicamento della linea Milano-Venezia delle Ferrovie dello Stato con la P&P di Cernusco sul Naviglio. È la stessa Luana Paparo a gestire il consorzio Ytaka, ma i magistrati le imputano un’accusa ben più grave: quella di essere la custode dell’arsenale del clan. Come emerge dalle numerose intercettazioni telefoniche e ambientali, la donna è perfettamente a conoscenza degli affari delittuosi che coinvolgono la sua famiglia e si mette al servizio del clan con forte determinazione, fino a diventare fidata consigliera del padre.
La sentenza di primo grado non ha riconosciuto l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, non individuando un elemento di ‘mafiosità’ nell’agire criminale (condannando gli imputati a vario titolo per detenzione illegale di armi, lesioni aggravate e violenza privata): nell’ottobre scorso, il processo di appello ha invece accolto la tesi della procura, condannando Luana (4 anni e 8 mesi) e Marcello Paparo (12 anni e 7 mesi) e altri imputati legati alla famiglia, anche per il reato associativo.
Maria Valle, nata nel 1986 e cresciuta a Bareggio, è la figlia di Fortunato Valle. I Valle, capeggiati dal nonno don Ciccio Valle, sono un clan della ‘ndrangheta insediatosi a Vigevano e originari del quartiere Archi di Reggio Calabria. Nel luglio 2006 sposa Francesco Lampada, suggellando l’unione di due importanti famiglie ‘ndranghetiste: un matrimonio celebrato in grande stile all’Hotel Villa D’Este sul lago di Como – lo stesso che ogni anno ospita il forum Ambrosetti – che testimonia come le ragazze di ‘ndrangheta siano tutt’oggi merce di scambio nelle politiche matrimoniali dei clan. Secondo la procura, la donna contribuisce al rafforzamento economico delle attività criminose – soprattutto usura ed estorsione – rendendosi intestataria fittizia delle quote di una immobiliare riconducibile alla famiglia Valle, affinché gli altri componenti dell’associazione mafiosa possano eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale; numerose intercettazioni telefoniche dimostrano che ha una conoscenza completa degli affari del clan e la consapevolezza dell’importanza delle trame societarie indispensabili per mettere al sicuro il patrimonio familiare. Portata via in manette nel luglio 2010 nell’ambito di un altro filone dell’operazione Infinito della Dda di Milano, nel luglio 2012 è stata condannata in primo grado a 7 anni di carcere.
Emancipazione femminile e paradossi della questione di genere
È bene sottolineare che le donne, fino a oggi, non hanno ricavato particolari vantaggi dal proprio ruolo criminale all’interno della ‘ndrangheta, né tanto meno sono riuscite a guadagnarsi un’indipendenza economica dagli uomini della propria famiglia. Non si può quindi parlare di un reale percorso di emancipazione femminile all’interno dell’organizzazione mafiosa, perché in realtà si tratta sempre di una pseudo emancipazione: il potere affidato alle donne è delegato e temporaneo, come abbiamo detto, e non ha nulla a che vedere con quella piena emancipazione che si concretizza nel disporre liberamente della propria esistenza. Ed è proprio attraverso questa lettura che è possibile cogliere tutte le ambiguità della condizione femminile nell’organizzazione criminale: la delega temporanea del potere avviene in assenza dell’uomo ma permane sempre il sistema patriarcale, e le donne continuano a subire violenze fisiche e psicologiche e a essere dipendenti economicamente dagli uomini.
Si assiste, in un certo senso, allo stesso sfruttamento del processo di ‘emancipazione’ femminile in corso nella società legale. Anche esternamente alla ‘ndrangheta, infatti, le donne devono faticare per vedere riconosciuti i propri meriti e per ambire a ricoprire ruoli di prestigio, e il loro lavoro è ampiamente sfruttato dal sistema economico.
In aggiunta, se pensiamo che le donne di ‘ndrangheta hanno beneficiato fino agli Novanta di una sorta di paternalismo giudiziario che, riconoscendole solo il ruolo tradizionale, non le considerava a priori coinvolte personalmente nella gestione criminale del clan, e dunque non le imputava di reati di tipo associativo, è evidente il paradosso creato da un pregiudizio di genere esistente sia nella società criminale che in quella legale. Solo attraverso la raccolta di testimonianze femminili i magistrati si sono pian piano allontanati dalla valutazione stereotipata del ruolo della donna all’interno dell’organizzazione mafiosa, per identificarne invece la soggettività. Un percorso di liberazione, questa volta non della donna ma del pensiero maschile, non ancora avvenuto nel mondo dell’informazione, come abbiamo visto, che quando parla di donne di ‘ndrangheta è ancora influenzato da scontati stereotipi e pregiudizi maschilisti; gli stessi ampiamente in uso nei diversi ambiti della società legale.