di Luciana Viarengo |
Recensione de L’eleganza del riccio, Muriel Barbery
“«Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge la parola. Antoine Pallières, prospero erede di un’antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell’alta borghesia degli affari – la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi – era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualcosa. […]Una portinaia non legge L’Ideologia Tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l’undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un’assurdità che nessun borghese può concepire. «Mi saluti tanto la sua mamma» borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari»”.
Fin dall’incipit si scopre la prosa diverte e arguta, colta senza essere elitaria, in grado di creare l’atmosfera delle migliori commedie francesi. Proseguendo nella lettura si apprezza la costruzione dei monologhi, autentici gioiellini di humour e disincanto.
Che si tratti di un concetto filosofico o di uno scorcio repentino sulla realtà sociale o culturale non fa differenza alcuna. Muriel Barbery ha la rara dote di suggerire argomenti seri con leggerezza, sollecitando al contempo riflessione e sorriso, che si parli di banlieu o di fenomenologia husserliana, di università o di Bellezza, di disparità sociali o di potere dell’arte.
Narrare la trama di un romanzo è riduttivo, costretti come si è a fornire una mera sequenza di fatti, e lo diviene a maggior ragione nel caso specifico, nel quale una semplice sinossi non può rendere giustizia alla ricchezza linguistica e alla vivacità de L’Eleganza del Riccio, storia narrata a due voci.
La prima è Renée Michel, vedova ultracinquantenne, per sua stessa definizione, bassa, brutta, grassottella e con i calli ai piedi, custode del palazzo signorile, al numero 7 di rue de Grenelle, a Parigi.
Come ogni portinaia che si rispetti, pur essendo educata, raramente è gentile. E, come ogni portinaia francese che si rispetti, ha un gatto grassissimo e accidioso, nonché una televisione perennemente accesa. Insomma, Mme Michel risponde fedelmente al paradigma della portinaia ‘forgiato nel comune sentire’. Manca giusto l’effluvio di cavolo bollito o di cassoulet, ma solo perché il palazzo è il lussuoso scrigno in cui risplende un microcosmo dell’alta borghesia parigina, notoriamente poco incline a tollerare i miasmi della cucina plebea.
Umile per nome, posizione e aspetto – sempre per sua stessa definizione – nell’intelletto, però, Renée è una ‘dea invitta’: il nome del suo gatto, Lev, tradisce la passione per Tolstoj e la televisione in guardiola bercia quel tanto che basta a coprire i rumori della stanza accanto, nella quale Renée, da un apparecchio gemello si gode in dvd film come Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu, ascolta Didone ed Enea di Henry Purcell mentre riflette (e si entusiasma) su Kant o cogita (e non concorda) sulle tesi di Husserl.
Nulla trapela oltre la tendina di mussola bianca della guardiola, tant’è che da ventisette anni – ovvero da quando Renée lavora nel palazzo – nessuno pare essersi reso conto di quale ricchezza intellettuale possieda la grigia e autodidatta portinaia, capace di individuare nell’hybris del desiderio la causa dei guasti della nostra organizzazione sociale, e nella soddisfazione dei semplici bisogni la sua salvezza. O di comprendere per questo il valore dell’Arte, un piacere privo di bramosia, una condizione felice dove la bellezza non è finalità né progetto, ma “certezza stessa della nostra natura”.
Questa sorta di clandestinità intellettuale sopravvive grazie alle sue indubbie capacità mimetiche ma anche, e soprattutto, “all’incapacità del genere umano di credere a ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine”.
Così, giorno per giorno, i ricchi proprietari degli otto appartamenti sfilano sotto il naso di Mme Michel, lungo “un solco celeste scavato naturalmente per loro dal potere del denaro” di cui si sentono investiti per diritto di nascita, attenti solo alle proprie sciocche e nevrotiche vicissitudini.
Al quarto piano del palazzo vive Paloma Josse, figlia dodicenne di un deputato socialista, appassionata di manga e cultura giapponese, proprietaria di un Q.I. spropositato (accuratamente nascosto perché “nelle famiglie dove l’intelligenza è un valore supremo, una bambina superdotata non avrebbe mai pace”) e di un’altrettanto imponente dose di disincantato realismo, che sparge a piene mani nei resoconti e nelle riflessioni pungenti affidati alle pagine del suo diario, seconda voce del romanzo.
In virtù di questa intelligenza fuori dal comune, Paloma ha scoperto da tempo l’inganno in cui i genitori crescono i propri figli, ai quali nascondono il destino ultimo di ogni essere umano adulto: la boccia dei pesci rossi. “«La vita ha un senso e sono gli adulti a custodirlo» è la bugia universale cui tutti sono costretti a credere. Da adulti, quando capiamo che non è vero, ormai è troppo tardi. […]Non resta che cercare di anestetizzarsi, nascondendo il fatto che non riusciamo a dare un senso alla nostra vita e ingannando i nostri figli per cercare di convincere meglio noi stessi”.
Nella boccia dei pesci rossi, Paloma non vuole finire, quindi ha deciso di suicidarsi alla fine dell’anno scolastico, al compimento del suo tredicesimo anno di età, non senza aver prima bruciato l’appartamento di quattrocento metri quadri, così da dotare di una coscienza la sua distratta, ricchissima e stolida famiglia di radical chic la quale, ritrovandosi senza casa e senza figlia, forse comprenderà come debbano sentirsi gli africani delle banlieu, ai quali è bruciata la casa.
È lei la sola a intuire la naturale ‘eleganza’ di Renée sotto gli aculei, e questa sua intuizione è più che comprensibile: Renée e Paloma sono due ricci, entrambe si difendono grazie agli aculei dello stereotipo pur di non – è il caso di dirlo – épater le bourgeois.
È dunque scritto nel loro destino, prima che nel libro, che le loro strade si incrocino. L’evento catalizzatore sarà l’arrivo di un nuovo proprietario, il ricco e colto signor Ozu, il quale con grazia e tenacia scombinerà i piani, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze.
A questo punto, sul finale, la storia sembra perdere forza. Il segreto di Renée, il fantasma che condiziona le sue scelte di vita, si rivela piuttosto debole. Gli assalti del signor Ozu, infatti, hanno rapidamente la meglio su di lui. E quando la maschera sotto la quale Renée si è nascosta per metà della propria vita cade, con essa si perde un po’ del fascino del personaggio.
Tutto sembra improvvisamente andare nel modo più prevedibile e si inala con orrore un profumo di lieto fine – il colpo di grazia è dato dal breve episodio del ritorno di Jean Arthens, con le sue camelie-feticcio – la prima reazione è di incredulità di fronte a quello che appare come un eccesso di sentimentalismo. Viene da chiedersi perché ciò che di Mme Michel sembrava tanto prezioso attraverso la maschera, debba sfumare nel sentimentale a metamorfosi avvenuta. Forse la superiorità dell’animo e dell’intelletto sono più preziosi se repressi, pena la loro banalizzazione? Tuttavia, l’autrice ci risparmia la catastrofe dell’happy end, almeno per ciò che strettamente attiene alla trama.
Sono certa che molti lettori apprezzeranno, nel finale scelto da Muriel Barbery, il tono intimo e toccante, delicato come un origami, che trasfigura i monologhi ed esalta il lascito prezioso che le belle anime consegnano a chi ha la fortuna di incontrarle.
In realtà, il potenziale che la prima parte lasciava intuire finisce per essere disatteso, gli aculei del riccio sarebbero potuti, a mio avviso, affondare un po’ di più anziché limitarsi a punzecchiare: la forza del romanzo sta infatti nella parte che precede la ‘rinascita’ delle due protagoniste, maîtresses de vie più convincenti e divertenti quanto più aliene dall’intento pedagogico-riformista che il finale rivela e con il quale l’autrice sottolinea a tutta forza il messaggio ultimo di questo romanzo: cultura e valori umani contro l’ottusità di una gauche caviar dipinta in modo esilarante e senza sorprese.
L’eleganza del riccio, Muriel Barbery, Edizioni e/o, 2007