di Sabrina Campolongo |
Recensione de La cascata, Margaret Drabble
Non è facile immaginare in quali territori possa avventurarsi oggi la narrativa femminile, per poter essere considerata sovversiva. Specialmente per noi, lettori italiani sommersi da uno stuolo di lolite letterarie, sempre più giovani e sempre più ciniche, spogliate anche di quell’aura di grazia dolente che Nabokov regala alla sua bambina perversa, volgare e superficiale, ma anche fragile e sola.
Tra presunte confessioni di cubiste dodicenni e prose ‘realiste’ che narrano di adolescenti che usano il proprio corpo per sfuggire al grigio della periferia industriale, che cosa avrebbe l’energia ancora, oggigiorno, di épater la bourgeoisie?
Forse, a ben pensarci, le scrittrici contemporanee non sono andate molto avanti, se pensiamo che Erica Jong scriveva già di sesso ‘come un uomo’ all’inizio degli anni Settanta, che, anzi, faceva molto di più: scriveva di sesso come una donna, ma con la spregiudicatezza di un uomo. Osava dipingere la sua eroina, la memorabile Isadora Wing, con un vorace appetito sessuale, un sagace intelletto, un preciso rifiuto verso gli eccessi igienici e nessun imbarazzo a fare l’amore anche in pieno ciclo mestruale.
Eppure, nemmeno la scandalosa Jong osò infrangere apertamente il più granitico dei tabù riguardo il corpo femminile: la sacrosanta dicotomia madre/puttana.
Da qui la sorpresa scoprendo che, già nel 1969, Margaret Drabble, scrittrice inglese figlia di un giudice e di un’insegnante, aveva osato aprire il suo romanzo La cascata con l’immagine di una puerpera che, nel letto in cui ha appena partorito, ancora caldo e umido dei liquidi del parto, suscita una feroce attrazione erotica in un uomo quasi estraneo, più precisamente, il marito di sua cugina. Basterebbe questo a consigliarne la lettura.
Come se non bastasse, la passione è tutt’altro che univoca. Jane, questo il nome dell’eroina, dopo essere stata abbandonata dal marito (o dopo averlo spinto ad abdicare, più correttamente, dopo un matrimonio disastroso e quasi asessuato, nonostante la nascita di due figli) non teme di corrispondere con trasporto la passione di James, il marito di colei che potrebbe definirsi la sua sola amica: la risposta è un definitivo sì allorché, in una delle scene d’amore più originali che io abbia mai letto, James le chiede, con l’urgenza di chi non potrebbe sopportare un rifiuto, di potersi accoccolare nel tepore del suo letto, vicino al suo corpo ancora scosso dagli spasmi uterini del dopo-parto, alla ricerca di un contatto che più erotico non si può, nonostante, per ovvie ragioni, non osi fare di più che guardarla dormire respirando il suo umanissimo odore (la voce narrante non trascura di informarci, en passant, che Jane non ha ancora avuto modo di lavarsi i capelli, dopo il parto).
Ma ecco che un secondo colpo di scena ci attende subito dietro l’angolo, quando la solitaria eroina, fino a quel momento inquadrata dall’occhio benevolo di un narratore esterno, decide di prendere la parola, esordendo con un: “Naturalmente non andrà. Come resoconto, cioè, dei fatti”. Per poi informarci che la narrazione, per forza di cose, non potrà restituire un quadro veritiero della situazione e che lei stessa, narratrice/personaggio, pur alternando il punto di vista dall’interno all’esterno della storia, finirà per scodellarci un sacco di bugie.
La più importante di queste menzogne, scopriremo con il procedere del racconto, è indubbiamente quella di rappresentarsi come una donna patologicamente fragile, ammalata di passività, travolta e sommersa (la narrazione procede per una serie di metafore acquatiche) da questo amore e in generale dal suo destino, incapace di salvarsi, trasportata dalla corrente verso lo spaventoso abisso che l’attende alla fine del viaggio. Ma ci sarà davvero, laggiù, il precipizio?
Molti sono, in effetti, gli elementi che sembrano custodire cupi presagi, primo fra tutti la luce, quasi ultraterrena, che trafila dal rapporto tra i protagonisti: raramente storia d’amore in un romanzo fu meno affollata di ombre, soprattutto riflettendo sul fatto che entrambi i protagonisti sono sposati, che Jane è madre di due figli piccoli, che James viene descritto come un padre e un marito attento (ma questo non sembra vietargli di passare svariate notti fuori casa), che Jane descrive se stessa come estremamente problematica, inadatta alla vita… Eppure non c’è la minima tensione tra loro, tutto scorre placido, la delicatezza tra i due è commovente, il rapporto con i piccoli perfetto, troppo bello per durare, direbbe anche il lettore meno cinico.
Ci si aspetterebbe la tragedia alla fine della corsa anche se la narratrice/protagonista non ci informasse delle abitudini estremamente pericolose di James, della sua guida spericolata, del fatto che non si presenti al lavoro e dei suoi debiti, anche se non facesse continui riferimenti a eroine tragiche come Maggie Tulliver di The mill on the floss di George Eliot, che finisce con il morire annegata, dopo essere stata accusata di avere rubato l’uomo all’adorata cugina (Lucy, non a caso lo stesso nome della cugina di Jane). Il presentimento funesto si fa più concreto quando James propone all’agorafobica Jane un viaggio in macchina fino in Norvegia, viaggio che, pur con prevedibili riserve, la sventurata accetta. Ed eccoli, i due amanti, correre, felici e inconsapevoli, verso l’incidente che il lettore si attende con pragmatica certezza.
La prosa si fa elegiaca, quasi che Jane stesse preparando il suo commiato, quando un nuovo ribaltamento dei canoni – quelli del romanzo sentimentale romantico, preso a modello e deformato abilmente lungo tutta la narrazione – porterà la storia fuori dai binari del prevedibile. Proprio la non-spettacolarità del finale, la sua apparente piattezza, le parole di ridimensionamento che la narratrice/protagonista dedica alla sua esperienza, ne fanno una storia “quietamente sovversiva” come la definisce Eleanor Honig Skoller.
Ed è con un sorriso compiaciuto che dobbiamo accettare che l’autrice ci abbia ingannato, che il tono della narrazione si sia rivelato tanto più fuorviante quanto più appariva realistico, che raramente o mai sia stato conforme a quello che stava esprimendo.
Rimuginando sulla propria educazione, per esempio, Jane si attribuisce la colpa di non aver mai imparato a distinguere “tra la falsità resa vera dalla passione e la verità resa falsa dalla doppiezza”.
A titolo di esempio, continua: “Non è quello che indossi che conta, è quello che sei, diceva virtuosa mia madre, valutando con gli occhi il tessuto e il taglio dell’abito delle sue amicizie, e soavemente basando le sue pretese sociali e la voglia di inviti su queste conclusioni”. Soavemente, proprio come la narratrice smaschera, con chiarezza e senza indulgenza alcuna, l’ipocrisia materna e la meschinità del milieu borghese nel quale è stata cresciuta.
Per contro, quel destino in agguato a cui Jane dichiara di non potersi ribellare “se sola, anche da sola, andando sotto, sprofondando, in silenzio, lei avrebbe rifiutato il ramo provvidenziale e non avrebbe cercato di raggiungere la salvezza della riva”, si manterrà a distanza di sicurezza sia dal tragico che dal meraviglioso. Nessun dramma e l’ennesimo inganno, invece.
Perché Jane si salva eccome, e, a ben pensarci, in ogni momento della storia compie esattamente le scelte che la porteranno o la tratterranno in salvo; il suo essere “inadatta alla vita” si concretizza, in pratica, con una scarsa propensione verso le faccende domestiche, una sorta di passività – che in verità più che intralciarla le viene spesso comoda – e una moderata agorafobia. Se Jane dipinge se stessa come un essere così fragile è forse, allora, semplicemente perché vuole farci intendere che una donna con una sensibilità artistica, una donna sola con due bambini piccoli, una donna abbandonata dal marito con cui non ha mai avuto una vera intesa emotiva e sessuale, una donna cresciuta nell’algido tempio dell’ipocrisia borghese, abbeverandosi per tutta al vita alla fonte di Shelley, Wordsworth e Keats, di Jane Austen, delle sorelle Bronte e di George Eliot, non possa che essere un’eroina fragile, tragica, sballottata dalla corrente. I fatti invece raccontano una storia ben diversa.
L’incontro con James ‘salverà’ Jane, non per via delle particolari doti del suo amante, quanto grazie alla determinazione con cui deciderà di averlo, alla forza con cui vorrà prenderselo, passando soavemente sopra ogni genere di scrupolo morale. Mentre ci dice di non poter fare a meno di lui, di essere dipendente in modo ossessivo da questo amore, Jane sta tessendo, imperturbabile, con ogni mezzo a sua disposizione, un bozzolo d’acciaio attorno a James. Il quale, non dimentichiamolo, non sembra avere alcuna intenzione di lasciarla.
In fin dei conti, Jane potrebbe tranquillamente dirsi perfettamente felice: è amata, accudita, coccolata, rassicurata, non deve pensare a quasi nulla, ha trovato un nuovo padre part-time per i suoi figli, e, quel che è interessante, non esprime mai il desiderio che diventi full-time.
Come si dimostrerà nel finale, la condizione di amante, con la libertà relativa, calza a Jane a pennello. Il sogno romantico non è il suo.
Non si immagini però La cascata come una parodia del manicheismo romantico. Se lo è, almeno in parte, l’ironia è così sottile, il confine tra quello che è e quello che si vorrebbe far credere, tra realismo e mistificazione, è così mobile, che si potrebbe leggerlo tutto senza porsi il problema, accettando l’incongruenza come l’essenza stessa della storia, prendendo Jane sul serio. Non sorprende, infatti, che l’ultima frase del romanzo – “Preferisco soffrire, credo” – abbia fatto infuriare alcune femministe, quando quell’ultima parola dopo la virgola, credo, (detto da una che si è appena salvata la vita) avrebbe dovuto farle sorridere.
La cascata, Margaret Drabble, Luciana Tufani editrice, 2000