Julia Friedrichs*
Dalla working class ai working poor. La rottura della mobilità sociale: generazioni di lavoratori qualificati che hanno investito in formazione si ritrovano con redditi al limite della sopravvivenza, in una società dove la linea di demarcazione è divenuta quella del capitale familiare: ricchezza, scuole elitarie, contatti.
La Germania è in recessione. Ma non è questa crisi economica a causare la crisi sociale. Essa affonda le radici nell’epoca in cui il Paese era indicato come il motore d’Europa e il modello da seguire, con la sua ‘economia sociale di mercato’ (l’ordoliberismo) e il mercantilismo vincente. Uno sviluppo basato sulla sottaciuta graduale trasformazione della working class in working poor, una dinamica che abbiamo visto all’opera anche in Italia. Con uno sguardo dall’interno e ben lontano dalla narrazione positiva che normalmente circonda lo Stato tedesco, Julia Friedrichs, autrice di “Working Class: Warum wir Arbeit brauchen, von der wir leben können” (“Working class: perché abbiamo bisogno di un lavoro che ci consenta di vivere”) è giunta alla conclusione, tra dati e interviste, che oggi i lavoratori lottano per garantirsi la mera sopravvivenza. “I nati in Germania Ovest nell’immediato dopoguerra,” scrive in questo articolo, “ovvero i genitori dei quarantenni di oggi, sono riusciti ad avanzare in tutte le fasce di reddito; anche i lavoratori non qualificati sono riusciti a farlo. Il 90% dei nati negli anni del miracolo economico ha guadagnato più dei propri genitori”. Non è più così per le generazioni successive: “Solo uno su due dei nati nel 1980 riesce a superare il reddito disponibile dei genitori”. E non si tratta di formazione adeguata o di posto di lavoro: “Il mondo professionale moderno è troppo frammentato per poter semplicemente suddividere le persone in colletti bianchi e colletti blu. Gli operai non lavorano più sottoterra, solo raramente in fabbrica alla catena di montaggio. Oggi puliscono, insegnano, portano pacchi su per le scale e biancheria sporca giù per le scale, siedono alla cassa del supermercato o riempiono gli scaffali. Installano internet veloce e rispondono al numero verde. Si prendono cura del nonno o di noi quando siamo malati”. Per Julia Friedrichs, nelle società attuali la linea di demarcazione è il capitale. Quello di nascita, che proviene dalla famiglia: ricchezza, titoli di studio, contatti. I differenti tipi di capitale che indicava il sociologo Bourdieu: economico, culturale e sociale. Chi non li ha – la maggior parte – “sono persone che non detengono azioni di società, non possiedono condomini, non si aspettano eredità. Persone per le quali il motto è: reddito netto uguale budget mensile”. Corrono per stare fermi, come su una scala mobile nell’opposto senso di marcia. Running to stand still.
La generazione successiva a quella dei baby boomer, nella sua gran parte sarà la prima, dopo la seconda guerra mondiale, a non superare economicamente i propri genitori. Sebbene l’economia sia cresciuta per un decennio, la maggioranza delle persone di questo Paese ha poco capitale e nessuna ricchezza.
Creare ricchezza con i propri sforzi è diventato più difficile, soprattutto per le giovani generazioni. La metà di loro teme di diventare povera in età avanzata.
Siete mai saliti su una scala mobile contro il senso di marcia cercando di opporvi alla discesa dei gradini? È una brutta sensazione. Si calcia e si scalcia, ma non si riesce a fare progressi. Con un grande sforzo si riesce al massimo a resistere.
Oppure – altro esempio – vi è mai capitato di usare un ascensore che all’improvviso ha sobbalzato e si è bloccato, invece di portarvi ai piani superiori? Di colpo lo spazio appare angusto. Ad alcune persone sembra di essere a corto d’aria. Il tempo che manca alla liberazione si allunga. Non è un bel momento.
Naturalmente – e questo è il sollievo – entrambe le situazioni possono essere risolte rapidamente: si scivola finalmente giù per la scala mobile in segno di resa, e l’ascensore riparte dopo la riparazione. Fatto!
E se non fosse così?
Immaginate per un attimo di essere intrappolati per sempre in una delle due posizioni. Perché sono proprio quelle che gli economisti usano come metafora per caratterizzare la realtà di molti giovani: “Running to stand still”, correre per restare fermi, cioè per non scivolare; e “Broken Elevator”, un ascensore rotto che impedisce alle persone di salire ai piani sociali più alti.
All’inizio di dicembre 2021 l’OCSE, insieme alla Fondazione Bertelsmann, ha pubblicato un importante studio sullo stato della classe media. Il report ha formulato una diagnosi che era già stata preannunciata in molti risultati individuali: per le giovani generazioni, la promessa di un avanzamento, fatta dall’economia sociale di mercato, non viene mantenuta. Secondo lo studio, infatti, “la classe media tedesca si è ristretta rispetto alla metà degli anni Novanta. Tra il 1995 e il 2018 si è ridotta”.
Per molti anni il reddito disponibile, e quindi il tenore di vita di molte famiglie della classe media, ha ristagnato. I giovani sono stati più colpiti rispetto agli anziani. Letteralmente, si legge: “Dall’epoca dei baby boomer in poi, è diventato più difficile per ogni generazione successiva passare alle classi di reddito del ceto medio”.
Nonostante il boom dell’economia avvenuto prima della pandemia sia stato costante e robusto e anche se la generazione più giovane ha investito più tempo e sforzi nella propria formazione rispetto a quelle precedenti; anche se molte aziende lamentano da tempo la mancanza di lavoratori qualificati e – se si crede alle leggi della domanda e dell’offerta – i pochi giovani potrebbero in realtà essere meglio retribuiti rispetto ai baby boomer, che abbondano in numero.
Le misurazioni dell’economista Timm Bönke confermano questa conclusione. Per gli studi sul reddito durante il ciclo di vita, lui e i suoi colleghi scavano tra i dati dei fondi pensione e del Socio-Economic Panel, provenienti dai micro-censimenti e dalle indagini sul reddito dei consumatori a partire dal 1962. Il team confronta e analizza: chi guadagna quanto nell’arco della propria vita? E come si rapporta il reddito dei genitori con quello dei figli?
I nati in Germania Ovest nell’immediato dopoguerra, ovvero i genitori dei quarantenni di oggi, sono riusciti ad avanzare in tutte le fasce di reddito; anche i lavoratori non qualificati sono riusciti a farlo. Il 90% dei nati negli anni del miracolo economico ha guadagnato più dei propri genitori. Timm Bönke: “Per i nati dopo, invece, questo non è più vero. Solo uno su due dei nati nel 1980 riesce a superare il reddito disponibile dei genitori”.
Eppure il reddito nazionale pro capite è cresciuto del 53% dal 1980. Quindi la torta è diventata molto più grande. Se fosse stata distribuita allo stesso modo, a un certo punto tutti i figli adulti avrebbero dovuto superare i loro genitori in termini di reddito disponibile. Ma non è così.
È come se una parte della generazione più giovane fosse stata indirizzata dalla scala mobile sicura che portava i genitori verso l’alto, a una scala mobile verso il basso. Ora stanno correndo per aggrapparsi in qualche modo. Running to stand still.
Ovviamente i giovani stanno ancora salendo le scale della vita. O probabilmente, è più esatto dire che iniziano il loro viaggio da un pianerottolo più alto. Ma questi sono i giovani dotati di capitale fin dalla nascita, grazie alle loro famiglie: ricchezza, titoli di studio, contatti. Coloro che invece sono in corsa contro la retrocessione possono essere delineati con precisione: sono quelli che appartengono alla schiera dei post-baby boomers, che non hanno beni, né capitali, che dipendono unicamente dal lavoro delle loro mani e delle loro teste. La nuova classe operaia.
Spesso si sostiene che in Germania sia scomparsa da tempo. Che possiamo solo essere suddivisi in gruppi di consumatori, distinti dal fatto che alcuni volano a Maiorca per i mandorli in fiore, altri a Ibiza per le feste. Una falsità che si basa anche sul fatto che ci aggrappiamo a immagini e definizioni superate.
Oggi gli operai non lavorano più sottoterra, solo raramente in fabbrica alla catena di montaggio. Oggi puliscono, insegnano, portano pacchi su per le scale e biancheria sporca giù per le scale, siedono alla cassa del supermercato o riempiono gli scaffali. Installano internet veloce e rispondono al numero verde. Si prendono cura del nonno o di noi quando siamo malati.
La classe operaia è diventata più variegata, più femminile, più migrante, più propensa a svolgere lavori di servizio, ma vale sempre lo stesso discorso: sono persone che lavorano per avere soldi per mantenersi. Persone che non detengono azioni di società, non possiedono condomini, non si aspettano eredità. Persone per le quali il motto è: reddito netto uguale budget mensile.
I due economisti Gabriel Zucman e Emmanuel Saez stratificano la popolazione degli Stati Uniti in base alla loro ricchezza. In fondo alla scala, l’ampia working class, le persone senza capitale, ben il 50%. Poi la classe media: il 40%. La classe medio-alta è il successivo 9%. E i ricchi sono l’1% superiore. Se si segue questa logica, anche in Germania la maggior parte delle persone sono lavoratori. Perché, nonostante l’economia sia in crescita da un decennio, la maggioranza di questo Paese non possiede quasi nessun capitale, nessun patrimonio.
Se si mettono in fila tutti i cittadini adulti, il patrimonio del tedesco medio è pari a circa 20.000 euro. Se si ripete la stessa cosa con le sole donne che in Germania pagano un affitto, la mediana equivale a 5.000 euro. Come si può vedere, nel nostro ricco Paese, troppa poca ricchezza arriva fino alla metà inferiore della piramide. E molti sulla scala mobile hanno l’impressione, giustamente, che tutti gli sforzi non siano sufficienti per uscire da questa situazione.
“La Germania ha un’uguaglianza insolitamente bassa di opportunità e mobilità tra le generazioni”, scrive Marcel Fratzscher, presidente del Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung (Istituto Tedesco per la Ricerca Economica). Il reddito dei figli è strettamente legato a quello dei genitori più di quanto accada in quasi tutti gli altri Paesi industrializzati, afferma. E prosegue: “Sta diminuendo drasticamente la percentuale di giovani con un livello di istruzione medio-basso che riesce a entrare nella classe media”. Dal 1995 le loro possibilità di avanzamento sono diminuite. La working class è bloccata nel broken elevatore corre per tenere il passo della scala mobile.
Questo per quanto riguarda i risultati astratti. Ma dietro a tutto questo ci sono molte vite individuali che non sono affatto astratte. Persone che avevano progetti che non si sono ancora realizzati. Speranze che non si sono ancora realizzate. Dietro ci sono le grandi domande, quasi filosofiche, come il valore del lavoro e chi lo misura. E quelle che ci poniamo ogni mattina: come fai a motivarti ad andare avanti quando sai che tutto il tuo sforzo probabilmente non ti porterà su per la scala mobile?
In un punto della rete che nel sottosuolo tiene insieme Berlino, Sait riempie il suo carrello delle pulizie con un litro di detergente, stracci, carta igienica, sacchi blu e cartone a mano dalle 6:30 di ogni giorno lavorativo. Quando l’ascensore si rompe di nuovo, come stamattina, Sait non ha altra scelta se non quella di tenere aggrappato al proprio corpo il carrello inclinato lungo la scala mobile. Così scende, sotto le strade della città.
Sait pulisce le stazioni della metropolitana di Berlino da 18 anni. In ognuna segue la stessa routine. Pulisce le banchine, le scale, l’area di uscita. Svuota i cestini della spazzatura, spazza, deterge se ci sono macchie: se qualcosa è stato versato, urina secca, resti di escrementi. Pulisce freneticamente anche le biglietterie automatiche. Il suo programma gli concede 40 minuti per stazione. Se impiega più tempo, ha un ‘meno’, e per recuperarlo deve lavorare ancora più velocemente alla stazione successiva.
Una volta terminata la pulizia, spinge il carrello nella metropolitana per andare alla stazione successiva. Questo è il momento che vive come il peggiore del turno, quando lui, che garantisce la pulizia, viene percepito dagli altri come sporco. I carrelli, dice Sait, vengono utilizzati in tre turni e i sacchi di raccolta vengono cambiati solo una volta alla settimana. Vorrebbe poter riporre i suoi materiali di pulizia dentro degli armadietti, in ogni stazione. Ma questo, sospetta, sarebbe probabilmente troppo costoso. Quindi non ha altra scelta che portarli da una stazione all’altra. “Ora immagina”, dice, “hai il tuo panino in mano, io sto salendo, ho appena pulito vomito e piscio e lo straccio puzza. È in quel momento che ti allontani da me, ovviamente!”
Nell’autunno 2019 Sait guadagnava 10,56 euro lordi all’ora. Adesso sono diventati poco più di 12 euro l’ora. Ma in cambio deve fare più stazioni in meno ore. Il suo turno è stato accorciato. Sait guadagna circa 1.700 euro netti al mese. Ha due figli. Quello maggiore ora sta facendo un apprendistato e guadagna soldi extra. Per fortuna. Perché prima Sait si recava al Sozialamt (ufficio per l’assistenza sociale, n.d.a.) mese dopo mese e si faceva dare un’integrazione dello stipendio. Gli piacerebbe poter sfamare la sua famiglia con il suo lavoro. Ma non è sufficiente. Anche sua moglie guadagna facendo la sarta in una piccola sartoria. Perché molte cose che deve pagare sono diventate più costose. L’affitto: 500 marchi per tre stanze, è quanto costava il suo appartamento negli anni ‘90, ora però sono 700 euro. L’elettricità: raddoppiata. I contributi sociali: aumentati. Il fatto che uno come lui possa permettersi una buona vita non è più possibile, dice Sait, e in questo modo riassume sobriamente tutte le statistiche e gli studi apparsi sulla situazione dei lavoratori come lui.
Naturalmente, Sait è quello che i sociologi chiamano un “non qualificato”. Si può raccontare la sua vita lavorativa come lui stesso fa in maniera autocritica: come conseguenza del suo fallimento nel sistema educativo. Un apprendistato, o addirittura una laurea, avrebbero aumentato le sue possibilità. Ma la vita di Sait non potrebbe essere raccontata anche in un modo completamente diverso?
David Graeber, l’etnologo della London School of Economics, morto troppo presto nel 2020, ha scritto nel suo libro Bullshit Jobs: “Supponiamo di svegliarci tutti una mattina per scoprire che non solo gli infermieri, gli addetti alla raccolta di spazzatura e i meccanici sono scomparsi, ma che anche gli autisti di autobus, i venditori di cibo, i vigili del fuoco e i cuochi di fast food sono stati trasportati in un’altra dimensione: le conseguenze sarebbero catastrofiche”. Non è del tutto chiaro, invece, se il mondo soffrirebbe se sparissero tutti i gestori di private equity, gli esperti di marketing, gli specialisti delle assicurazioni o gli addetti al telemarketing. “Ma è proprio lì che lavorano molte delle persone che percepiscono stipendi particolarmente alti”.
E alcuni di loro guardano anche dall’alto in basso coloro che si occupano di loro in vari modi. Che il lavoro di Sait sia necessario e significativo è indiscutibile. Che lo faccia in modo corretto e affidabile, anche senza una laurea, è altrettanto indiscutibile. Quindi perché una persona come Sait non dovrebbe avere il diritto di sperare di poter costruire, su questo lavoro, una vita sicura e buona?
Una generazione prima, era ancora possibile. Anche per i non qualificati. Anche il padre di Sait era un operaio a Berlino. Lavorava come autista al mercato all’ingrosso. Sua madre era una casalinga. La famiglia aveva tre figli. A quel tempo, racconta Sait, era possibile vivere bene con un solo reddito. La famiglia poteva affittare un appartamento spazioso, andare al ristorante, in vacanza, suo padre poteva persino risparmiare. È perché erano più frugali, come sostengono alcuni anziani? In ogni caso, il fatto è che, al netto dell’inflazione, il padre di Sait guadagnava più di quanto guadagna oggi suo figlio.
Nelle parole del grande economista Marcel Fratzscher suona più o meno in questo modo: “La percentuale di giovani con un livello di istruzione medio-basso che riesce a entrare nella classe media, sta diminuendo drasticamente”.
Oppure, come dice Bettina Kohlrausch, direttrice scientifica dell’Istituto di ricerca della Fondazione Hans Böckler: “Un’occupazione lavorativa remunerata non è più una promessa di sicurezza”, soprattutto per i più giovani. E questo considerando che la loro preparazione, prima di entrare nel mercato del lavoro, è significativa.
A conti fatti, nessuna generazione è stata più istruita di quella attuale. All’inizio degli anni Cinquanta, il 15% di ogni coorte in Germania Ovest frequentava il ginnasio, oggi quasi il 50%. Nel 1950, 100.000 giovani andavano all’università, oggi oltre due milioni. Certo, l’Abitur (esame di maturità, n.d.a.) non è più così impegnativo come poteva esserlo quando solo una classe ristretta ed elitaria lo sosteneva. Ma è ancora più impegnativo del Volksschulabschluss (certificato di scuola elementare, n.d.a.), che era il titolo di studio più comune nella generazione degli over 65.
Certo, l’espansione dell’istruzione ha cancellato alcune disuguaglianze che ancora caratterizzavano la generazione dei nostri genitori e nonni: quelle tra ragazzi e ragazze e tra aree urbane e rurali. Ma non quella tra i figli degli accademici e quelli della working class. Questo divario invece è cresciuto.
Per capirlo, facciamo un breve esempio aritmetico: immaginiamo che un medico donna guadagni 3.000 euro e un infermiere uomo 1.500; e che entrambi raddoppino il loro stipendio. La dottoressa ne prende 6.000, l’infermiere 3.000. In termini percentuali, tutti e due ricevono la stessa cifra in più, ma il divario tra loro aumenta. È esattamente ciò che è accaduto nelle scuole e nelle università. Se si osserva il background sociale degli studenti prima e dopo l’espansione dell’istruzione, si noterà che un numero maggiore di diplomati di tutte le classi va all’università. Ma è proprio questo che ha aumentato il vantaggio dei figli degli accademici.
Un esempio: nel 1969, il 3% dei figli di operai iniziava l’università, nel 2000 era il 7%, più del doppio. Tra i figli dei dipendenti pubblici, la quota è passata dal 27% nel 1969 al 53% nel 2000. In seguito, il metodo di conteggio è stato modificato, quindi le statistiche non sono più confrontabili. Il risultato, tuttavia, rimane: la percentuale di coloro che studiano è aumentata in tutti gli strati sociali. Allo stesso tempo, però, il divario è cresciuto a svantaggio dei figli della classe operaia.
Inoltre, se l’Abitur è il new normal, ha perso decisamente valore, come tutti gli altri certificati. Il sociologo Aladin El-Mafaalani scrive: “Laddove una volta nessun titolo di studio o titoli di base sarebbero stati sufficienti per iniziare una carriera, ora sono necessari titoli di studio medi e superiori”.
Secondo un paragone popolare, è come essere in uno stadio. Se un solo tifoso si alza in piedi, vede meglio. Ma se uno alla volta si alzano tutti, il vantaggio viene meno. Nello stadio delle generazioni successive a quella del baby boom, chi è rimasto seduto ha una visuale molto scarsa. Ma anche chi si è alzato, cioè chi si è diplomato – studiando – allungandosi fino alla punta dei piedi, non ha più la garanzia di vedere ciò che accade, e non ha più la garanzia della sicurezza economica.
Al telefono, Alexandra ha detto che la sua vita è governata da un grande senso di insicurezza. Né lei né suo marito Richard se lo aspettavano all’inizio della loro carriera. Come avrebbero potuto? Due laureati con lode. Alexandra si è diplomata al conservatorio con ‘ottimo’ e poi ha aggiunto l’esame di concertista e la tesi di dottorato. Non si può investire di più nella propria formazione. Anche la sua professione, insegnante di pianoforte, è molto richiesta. Le liste d’attesa sono lunghe.
Alexandra e Richard vivono molto appartati. Ma in qualsiasi altro posto, anche una casa piccola come la loro sarebbe inaccessibile. Il bungalow è stato costruito nel 1977 e ha il riscaldamento a gasolio nel seminterrato. Per la ristrutturazione è stato utilizzato un Bausparsvertrag (contratto di risparmio edilizio, una sorta di mutuo, n.d.a.) e hanno dovuto finanziare interamente il prezzo di acquisto. Oggi pagano 1.300 euro al mese per interessi, rimborso, elettricità, acqua e riscaldamento a gasolio. Fortunatamente non si è rotto nulla per molto tempo. Perché Alexandra e suo marito Richard sono insegnanti di musica a contratto. I loro datori di lavoro – sei scuole di musica – hanno esternalizzato i rischi della vita a loro due.
Alexandra e Richard sono assunti per 21-27 euro lordi all’ora. Alcuni compensi non vengono aumentati da dieci anni. Durante le vacanze o quando sono malati, non guadagnano nulla.
Sul tavolo del soggiorno c’è un foglio di carta sul quale hanno disegnato il loro programma settimanale. Un capolavoro di logistica, che conduce due attivissimi micro imprenditori ai loro 110 allievi. Sarebbe opportuno avere una seconda auto. Ma è fuori discussione.
Non sono poveri, sottolinea Alexandra. Entrambi guadagnano circa 1.600 euro netti al mese, e lei gestisce il denaro in modo disciplinato: tiene un libro dei conti, cerca offerte per il cibo e per i vestiti.
Il budget è un problema risolvibile nella maggior parte dei mesi. Come musicista, si impara presto che non si ottiene nulla senza disciplina. E così questa virtù è diventata il loro strumento di gestione della vita. L’insicurezza pesa di più. Alexandra, Richard e i due bambini devono sempre restare in funzione. A nessuno è permesso ammalarsi per un periodo di tempo prolungato. Ogni evento imprevisto fa vacillare la struttura della loro vita, che hanno costruito con molto lavoro.
Alexandra e Richard appartengono al tipo di persone che molti di coloro che hanno ancora in testa le vecchie immagini e definizioni della classe operaia, non assocerebbero certo al termine working class. Ma il mondo professionale moderno è troppo frammentato per poter semplicemente suddividere le persone in colletti bianchi e colletti blu in base ai titoli di studio, ai posti di lavoro. No. La linea di demarcazione decisiva nelle società attuali è il capitale.
E proprio come Sait, Alexandra e Richard vivono di mese in mese. Anche loro non hanno beni. Nessuna riserva per i momenti difficili. E non ci sono solo loro. Ad esserne altrettanto colpiti sono make-up artist, insegnanti dei centri di formazione per adulti, assistenti sociali, giornalisti, fisioterapisti.
Se si va a trovare Alexandra in uno dei suoi luoghi di lavoro – un’aula di musica in una scuola elementare, carta da parati in truciolato alle pareti, moquette di velluto blu sul pavimento – è facile tornare indietro agli anni Ottanta della Germania Ovest. In un’epoca in cui il lavoro di Sait non era ancora affidato a subappaltatori e gli insegnanti di scuola di musica come Alexandra erano ancora assunti a tempo indeterminato, con tutte le benedizioni del welfare state – contributi previdenziali, indennità di malattia, ferie.
Gli anni Ottanta hanno segnato la fine dell’era del capitalismo più addomesticato che i Paesi industrializzati occidentali abbiano mai sperimentato. Il normale rapporto di lavoro era la norma, almeno per la metà maschile della popolazione, il tasso di retribuzione era elevato, il divario tra gli stipendi più alti e i redditi medi era ridotto. All’epoca, un membro del consiglio di amministrazione riceveva in media 14 volte il salario dei suoi dipendenti, oggi 50 volte. I patrimoni non erano così distanti. Le possibilità di promozione erano maggiori. Chi era povero negli anni ‘80 aveva solo il 40% di probabilità di rimanere tale cinque anni dopo. Oggi questo rischio è salito al 70%.
Per questo molti economisti considerano gli anni ‘80 come un punto di svolta per la classe operaia. Nei Paesi occidentali, che in termini di reddito erano diventati sempre più uguali nei decenni del dopoguerra, la tendenza si è invertita: le disuguaglianze di ricchezza e di reddito sono aumentate.
Le cause sono numerose. Non c’è una sola ragione. Ma piuttosto, fatalmente, c’è tutta una serie di ostacoli accumulati sulla strada dei membri più giovani della working class, mentre tentavano la loro scalata. Alcuni si possono rapidamente etichettare qui con una parola chiave: globalizzazione, deregolamentazione, ascesa del capitalismo finanziario. Tutto questo è stato avvertito anche dalla classe operaia. Parti di aziende sono state delocalizzate, la forza lavoro nel Paese è stata messa sotto pressione. I salari del 40% più povero – adeguati all’inflazione – sono cresciuti a malapena per più di due decenni.
I sindacati si sono indeboliti. Anche i partiti socialdemocratici. E gli economisti promettevano che la ricchezza si sarebbe più o meno automaticamente riversata verso il basso se si fossero concessi sgravi fiscali solo a chi già possedeva molto.
Un altro ostacolo che blocca le scale alle giovani generazioni viene raramente menzionato. Probabilmente anche perché non è stato messo lì da potenze lontane come i super-ricchi del mondo o i politici di spicco, ma da chi ti è molto più vicino: le colleghe più anziane, il consiglio di fabbrica, i tuoi stessi genitori. Alcuni chiamano la generazione di coloro che oggi hanno circa settant’anni, la ‘generazione d’oro’. Da un punto di vista economico, i nati nella Germania Ovest del dopoguerra si sono sempre trovati nella fase di vita giusta al momento giusto. In età avanzata, questa generazione è più prospera di qualsiasi altra coorte che l’ha preceduta – e presumibilmente anche di quelle che le succederanno.
Il giornalista televisivo Sven Kuntze, un tempo corrispondente della ARD a Bonn, New York e Washington, scrive in un libro sulla sua generazione che sono cresciuti come “figli del miracolo economico”, in un’atmosfera di sconfinata fiducia. Le cose andavano sempre meglio. Chi andava in bicicletta presto si poteva comprare la moto e poi la prima auto, e i viaggi per le vacanze si spostavano inesorabilmente verso sud. Si aprivano piscine ovunque, si costruivano scuole. Lo Stato era quasi privo di debiti. Kuntze ricorda che “ovunque l’occhio dell’adolescente guardasse, c’erano nuovi inizi e ottimismo”.
Chi era giovane a quel tempo “doveva solo afferrare” le opportunità. È così che un’ex redattrice, appena andata in pensione, descrive la situazione nell’intervista. Ha iniziato la sua carriera sapendo che tutto era possibile. Quando fu promossa a capo redazione, tutto questo non sarebbe stato più vero per chi l’avrebbe seguita. Le posizioni fisse erano state tagliate. Nelle riunioni del personale, ha dovuto togliere ai suoi freelance la speranza della sicurezza che lei stessa aveva sperimentato fin dall’inizio. Ed è anche consapevole del fatto che coloro che verranno dopo di lei, non avranno in alcun modo la stessa sicurezza di cui lei oggi gode, in vecchiaia. Fino all’inizio degli anni ‘90, le emittenti hanno fatto costose promesse pensionistiche ai loro redattori, che ora, ohimè, stanno intaccando i bilanci attuali. Uno dei negoziatori di allora afferma adesso che l’intera faccenda “probabilmente non era stata calcolata in questo modo sulla tabella di marcia”. Sembra che questa fosse una specialità della generazione del dopoguerra. Fondo pensione? Clima? Opportunità di avanzamento? “Probabilmente non era stato calcolato in questo modo sulla linea del tempo”.
Fra molti lavoratori dipendenti ci sono quindi diverse generazioni di pensionati: quelli che “hanno una buona pensione”, quelli che “hanno ancora una buona pensione” e poi i più giovani, le cui pensioni aziendali sono spesso inferiori o sono state limitate e che – ovviamente – dovranno anche cavarsela con una pensione statale più bassa. Dovrebbero quindi provvedere privatamente alla loro vecchiaia, come si dice sempre. Cosa che – come possono spiegare in dettaglio non solo Sait e Alexandra – è difficilmente possibile quando i salari non aumentano, ma le spese sì. Running to stand still. Correre per restare fermi.
Nella prima primavera durante la pandemia, la working class ha vissuto una breve stagione di rispetto, persino di riverenza. Improvvisamente, tutti coloro che – come Sait – sarebbero altrimenti passati inosservati, pulendo o curando o raccogliendo, sono stati visti come eroi della crisi. Al Bundestag tedesco, i deputati si sono alzati in piedi – standing ovation per tutti coloro che, con il loro lavoro, “fanno letteralmente funzionare il Paese”, come li ha ringraziati la cancelliera Angela Merkel. E Herbert Grönemeyer ha cantato: “Sono gli eroi di questi tempi / Le nostre spine dorsali / La nostra posizione / Osano attraversare i loro confini lontani / Per voi e per me / Prendono il Paese nelle loro mani”.
Quando si è bloccati in un ascensore rotto, questa attenzione può sembrare inizialmente confortante. Ma per le persone in quella situazione, sarebbe più importante che l’ascensore ripartisse rapidamente. Sappiamo cosa aiuterebbe la riparazione: salari più alti, una ridistribuzione del carico fiscale dal lavoro alla ricchezza, alloggi che anche la classe operaia possa permettersi, scuole che istruiscano tutti, sicurezza sociale che sostenga tutte le generazioni. Chi si impegna deve poter ottenere qualcosa.
*Articolo pubblicato sul blog VocidallaGermania, 24 agosto 2023, sotto diritti Creative Commons