Collateral murder e il ‘caso svedese’, l’ambasciata ecuadoregna e il carcere britannico, le accuse USA e la sentenza di estradizione: a che punto siamo? Cosa è accaduto e cosa potrà accadere? Perché Assange riguarda il futuro del giornalismo e tutti noi?
WikiLeaks si basa su un modello semplice: chiunque sia in possesso di materiale riservato di “rilevanza politica, diplomatica o etica” può renderlo pubblico, in modo sicuro e rimanendo anonimo. In questo modo, a partire dal 2006 WikiLeaks ha cominciato a pubblicare milioni di documenti segretati su Stati, agenzie e aziende di mezzo mondo, senza rivelare una singola fonte.
Dopo i primi anni lontani dall’attenzione del grande pubblico, a segnare il punto di svolta tra il 2010 e il 2011 sono i più di 700.000 documenti classificati che svelano al mondo i crimini di guerra, le violazioni dei diritti umani e la storia segreta delle relazioni diplomatiche statunitensi. Il potere si sente vulnerabile. L’apparato di intelligence e politico USA – che ha nel mirino l’organizzazione dal 2008, come rivelerà la stessa WikiLeaks (1) – vede una minaccia nel potenziale che porta con sé, perché WikiLeaks diventa un modello. E Assange, il suo fondatore, ne diventa il simbolo. Per quasi nove anni gli Stati Uniti gli danno la caccia, affiancati da Svezia, Gran Bretagna ed Ecuador (perché a nessun potere può piacere WikiLeaks) finché nel 2019 viene arrestato, rinchiuso in un carcere di massima sicurezza e portato a processo in un tribunale inglese: gli americani vogliono che sia estradato, pretendono che gli venga consegnato.
Il 4 gennaio 2021 il giudice britannico nega l’estradizione. Il 10 dicembre la Corte di appello ribalta la sentenza. A fine gennaio 2022 la notizia che gli sarà permesso presentare ricorso presso la Corte Suprema inglese.
Più di dieci anni fa Assange ha iniziato a combattere per la sua libertà. Oggi lotta, letteralmente, per la sua vita.
Collateral murder
Baghdad, 12 luglio 2007. Saeed Chmagh è steso a terra, gravemente ferito. Sta provando a rialzarsi, a trascinarsi sulle braccia per trovare un riparo, ma stenta perfino a muoversi. «Forza bello! Tutto ciò che devi fare è raccogliere un’arma…» Saeed è un assistente operatore della Reuters che, insieme al collega e fotoreporter Namir Noor-Eldeen, quella mattina si trova nel distretto Est della capitale irachena. Con una fotocamera a tracolla, stanno camminando insieme a una decina di altri uomini – disarmati – in una zona scoperta, sorvolata da due elicotteri Apache dell’esercito USA. Appena i militari li avvistano chiedono al commando a terra il permesso di ingaggio: «Abbiamo cinque o sei individui con AK-47». I piloti girano intorno a un edificio fino ad avere la visuale libera. Saeed sta parlando al telefono, Namir si sta sistemando la fotocamera in spalla e insieme agli altri uomini si sono raggruppati vicino all’ingresso dell’edificio. «Falli fuori, forza spara!» Quattro raffiche in quindici secondi: muoiono tutti sul colpo, tranne Saeed. I militari lo tengono sotto mira, aspettano un pretesto per poter procedere. È a terra in mezzo alla polvere a pochi metri dai corpi dei suoi compagni, sparsi tra le macerie. Sul posto arriva un uomo a bordo di un furgone, seduti di fianco a lui ci sono due bambini, i suoi figli. Il padre, insieme a due passanti, ha avvistato Saeed e si è fermato a soccorrerlo: ciò che aspettavano i militari: «Dai! Lasciateci sparare!» Il van viene crivellato dai colpi. Saeed, il padre e gli altri due uomini vengono uccisi. I due bambini, gravemente feriti, vengono portati poco dopo in un ospedale locale dalle truppe USA giunte sul posto. «Beh, colpa loro se portano i bambini in battaglia.»
Le immagini, riprese dalla cabina di pilotaggio di un elicottero militare statunitense durante la guerra in Iraq e rimaste segrete – nonostante la richiesta di accesso della Reuters, che voleva far luce sulla morte dei suoi due reporter – vengono rese pubbliche il 5 aprile 2010, a conflitto in corso. Al National Press Club, di fronte ai giornalisti, Julian Assange, co-fondatore e caporedattore di WikiLeaks, sta mostrando passo dopo passo l’uccisione a sangue freddo di almeno diciotto civili iracheni da parte dell’esercito americano. Il video, spiega, è stato ottenuto da una fonte anonima interna all’apparato militare: “Questo manda un messaggio: ci sono persone tra i militari americani a cui non piace quello che sta accadendo” (2).
Leaks
“Sono verosimilmente tra i documenti più importanti del nostro tempo, alzano il velo sul conflitto e mostrano la vera natura delle guerre asimmetriche del ventunesimo secolo. Buona giornata” (3). È il febbraio 2010 quando Chelsea Manning (Bradley, ai tempi) contatta WikiLeaks. In quanto analista di intelligence dell’esercito statunitense coinvolto nei conflitti in Afghanistan e Iraq, ha accesso a migliaia di documenti classificati del settore militare. Nel 2009 le viene chiesto di creare i back up dei Significant Activity Reports, le informazioni raccolte e trasmesse durante la guerra dalle truppe americane. In un primo momento è previsto il dislocamento della sua unità in Afghanistan, ma successivamente viene ricollocata in Iraq, così Manning comincia a raccogliere documenti su entrambi i conflitti.
Ben presto, però, si rende conto della portata storica delle informazioni che contengono e dell’impatto che possono avere sulle guerre in corso: migliaia di uccisioni di civili da parte delle forze della coalizione USA non riportate nelle statistiche ufficiali; tortura dei detenuti; violazione del codice di condotta; crimini di guerra. “Credo che se l’opinione pubblica, specialmente quella americana, avesse avuto accesso a quelle informazioni si sarebbe potuto instaurare un dibattito interno sul ruolo dei militari e della nostra politica estera”, dichiarerà in seguito (4). Decide perciò di rendere pubblici i file e prova a contattare Washington Post e New York Times, senza ricevere risposta. A quel punto si rivolge a WikiLeaks: attraverso un canale criptato, invia circa 91.000 documenti relativi ai diari di guerra dei soldati americani in Afghanistan e 390.000 sui diari di guerra in Iraq negli anni tra il 2004 e il 2009. Ma non solo: il video conosciuto poi come Collateral Murder, le regole di ingaggio dei militari statunitensi nel conflitto iracheno, 250.000 cablo della diplomazia statunitense del periodo 1966-2010 (il cosiddetto Cablegate) e i report interni sui detenuti della prigione USA di Guantanamo.
Manning trasmette i file in via anonima, ma commette un errore. In una chat con un ex hacker, Adrian Lamo, confida di essere la fonte delle rivelazioni e Lamo denuncia tutto alle autorità USA. Manning viene arrestata, in Kuwait, a maggio 2010. Nel 2013 viene condannata a 35 anni di carcere – la condanna più severa nella storia americana per un caso di rivelazione ai media di informazioni riservate – poi commutati da Obama nel 2017 e ridotti a 7 anni di detenzione.
Nonostante l’arresto di Manning, tra il 2010 e il 2011 WikiLeaks pubblica tutto, e tutto il mondo comincia a parlare di WikiLeaks. Ma soprattutto, WikiLeaks e il suo fondatore Assange attirano l’attenzione della prima potenza globale. “Condanniamo WikiLeaks per indurre gli individui a infrangere la legge, rivelare documenti classificati e condividere quelle informazioni segrete col mondo, inclusi i nostri nemici, come se niente fosse” è la dichiarazione del Pentagono (5); “Queste rivelazioni non sono solo un attacco agli interessi di politica estera americani, sono un attacco alla comunità internazionale” sono le parole di Hillary Clinton, Segretario di Stato dell’amministrazione Obama, in seguito al Cablegate (6); “Mettono a rischio la vita delle persone, minacciano la nostra sicurezza nazionale e indeboliscono i nostri sforzi di lavorare insieme agli altri Paesi per risolvere problemi condivisi”.
Sistemata Manning con una pena esemplare, agli Stati Uniti rimane da risolvere il problema Assange.
Origini australiane
Julian Assange nasce nel 1971 a Townsville, Australia. I primi anni di vita li trascorre spostandosi di città in città insieme ai genitori, due artisti di teatro anticonformisti, immerso nella controcultura australiana degli anni ’70. Cresce con una spiccata formazione antiautoritaria, frequenta più di trenta scuole diverse e si appassiona ben presto di informatica e programmazione, diventando uno dei più abili hacker del Paese. A sedici anni, con lo pseudonimo Mendax, costituisce insieme ad altri due hacker il gruppo “International Subversives” e i tre riescono a intromettersi – tra gli altri – nel sistema informatico della US Airforce, della NASA e in quello del Dipartimento della Difesa statunitense, grazie a una backdoor di accesso al centro di coordinamento per la sicurezza di MILNET, il network dell’esercito USA. “Ne abbiamo avuto il totale controllo per più di due anni”, racconterà all’emittente svedese SVT Play (7). Nel 1991, all’età di vent’anni, viene incriminato dalla polizia federale australiana per aver hackerato Nortel, compagnia di telecomunicazioni canadese, ma viene condannato solo a pagare duemila dollari di multa. “Non ci sono prove che si sia trattato di nient’altro che di una sorta di intelligente curiosità” afferma il giudice (8).
L’attivismo politico comincia a prendere forma negli anni successivi. Tra il 1993 e il 1994 dà vita a un’organizzazione per i diritti civili contro la corruzione del governo dello Stato di Victoria e – come racconta il libro Underground, di cui è co-autore – assume il ruolo di “canalizzatore di documenti riservati”, facilitando le indagini. Negli stessi anni diventa anche amministratore di Suburbia, uno dei primi fornitori australiani di servizi internet che ospita numerose mailing list (create dallo stesso Assange) e svariati forum di discussione per gruppi di artisti e attivisti. In quel periodo, un utente di Suburbia pubblica alcuni documenti riservati della Chiesa di Scientology e l’organizzazione reagisce minacciando azioni legali: in risposta, Assange si unisce alla mailing list Cypherpunks – comunità di attivisti che considerano l’uso della crittografia e delle tecnologie di privacy come via per il cambiamento politico – e organizza una protesta contro la Chiesa. “Il loro peggior nemico in questo momento non è una persona o un’organizzazione, ma un mezzo – Internet. Internet è per sua stessa natura una zona libera dalla censura. […] La battaglia contro la Chiesa”, scrive Assange, “riguarda la soppressione di Internet e della libertà di espressione da parte delle aziende private. Riguarda la proprietà intellettuale e lo scontro di grandi e ricchi contro piccoli e intelligenti” (9).
Nel 1999 registra il dominio leaks.org – “avevo capito il valore della rivelazione di informazioni riservate da parecchio tempo” (10) – e col tempo si avvicina anche all’attività giornalistica: nel 2007 diventa membro della Sezione stampa della Media Entertainment & Arts Alliance, l’associazione dei giornalisti australiana (11), e ottiene il tesserino della International Federation of Journalists, la più grande organizzazione mondiale di giornalisti (12).
È seguendo quella che è la sua vocazione, costruita pezzo dopo pezzo nel corso degli anni, che nel 2006 arriva a un punto di svolta. Insieme a un ristretto gruppo di attivisti conosciuti online e provenienti da diverse parti del mondo, fonda WikiLeaks, “un servizio pubblico progettato per proteggere whistleblower, giornalisti e attivisti che vogliono comunicare materiale sensibile all’opinione pubblica”, come recitava il sito nel 2007 (13). Organizzata con server distribuiti in tutto il globo e basandosi su un sistema complesso di crittografia per garantire l’anonimato delle fonti – ai tempi una novità, mentre oggi viene utilizzato dalle organizzazioni giornalistiche di tutto il mondo – WikiLeaks fonda la propria ragion d’essere sulla pubblicazione e diffusione di documenti riservati o classificati. “Crediamo che la trasparenza nelle attività governative porti a minor corruzione, migliori governi e democrazie più forti.”
Inizialmente l’idea del gruppo si basa sul contributo anonimo di utenti volontari per analizzare l’autenticità dei documenti e realizzare articoli di analisi, ma presto Assange si accorge della necessità di rivolgersi a testate giornalistiche strutturate per avere un supporto nella pubblicazione dei file: iniziano così le collaborazioni con Guardian, New York Times, Washington Post, Le Monde, Der Spiegel, L’Espresso, solo per citarne alcuni. Nel 2007 WikiLeaks inizia a farsi conoscere con la pubblicazione dei documenti che svelano la corruzione e i milioni di dollari schermati in proprietà e conti bancari esteri da parte della famiglia dell’ex presidente del Kenya Daniel Arap Moi. Sempre nello stesso anno, il sito svela le procedure operative standard della prigione statunitense di Guantanamo, mentre l’anno successivo vengono rivelati i dati dei clienti della filiale alle Isole Cayman della banca svizzera Julius Baer, i dettagli del portafoglio crediti della fallita Kaupthing Bank islandese, più di mille documenti su Scientology e un report realizzato dalla Commissione nazionale per i Diritti Umani kenyota sull’uccisione arbitraria e la sparizione di civili per mano della polizia. Nel 2009 viene allo scoperto il Minton Report, uno studio che rivela l’inquinamento tossico disperso in Costa d’Avorio dalla multinazionale Trafigura.
Fino a questo momento, nonostante le molte pubblicazioni, WikiLeaks è ancora una realtà quasi sconosciuta al grande pubblico. È con le prime rivelazioni dei file ottenuti da Chelsea Manning che arriva la svolta e WikiLeaks diventa un fenomeno globale: ad aprile 2010 la rivelazione di Collateral Murder, a luglio gli Afghan War Logs, a ottobre gli Iraq War Logs e a novembre i primi cablo della diplomazia USA, poi pubblicati interamente nel 2011 insieme ai file sui detenuti di Guantanamo.
Ma il 2010, oltre a portare alla fama planetaria WikiLeaks, è anche l’anno in cui gli Stati Uniti iniziano a dare la caccia ad Assange, l’uomo simbolo della rivoluzione informativa.
Parte la caccia: il caso svedese
La ricostruzione dei fatti – possibile grazie all’analisi dei documenti ufficiali operata da Nils Melzer, inviato speciale ONU sulla tortura (14), e all’accesso agli atti delle autorità svedesi ottenuto nel 2015 dalla giornalista Stefania Maurizi – ci porta ad agosto 2010. Assange si trova in Svezia per una conferenza, WikiLeaks ha da poco pubblicato i diari sull’Afghanistan. Durante la permanenza nel Paese scandinavo conosce due donne, S.W. e A.A. Il 20 agosto entrambe si recano in una stazione di polizia e una di loro, S.W., dichiara di aver avuto un rapporto sessuale consensuale non protetto con Assange e chiede se sia possibile obbligarlo a fare il test dell’HIV. La polizia trascrive la dichiarazione della donna e la informa che procederà con un mandato d’arresto per Assange per sospetto stupro. S.W. a quel punto rifiuta di procedere con l’interrogatorio e scrive a un’amica spiegando l’accaduto e di non avere alcuna intenzione di incriminare Assange. La donna torna a casa e due ore dopo su Expressen – un tabloid svedese – esce la notizia di Assange sospettato di aver commesso due stupri: anche la seconda donna infatti, A.A., rilascia una dichiarazione alla polizia, ma il giorno dopo, il 21. Dice di aver avuto un rapporto consensuale protetto con il fondatore di WikiLeaks e di essersi accorta a fine rapporto che il profilattico era rotto: come prova fornisce un preservativo che, però, non presenta tracce di DNA né di Assange né della stessa donna. La notizia che appare sul tabloid, evidentemente, è in contraddizione con le dichiarazioni di S.W. e oltretutto viene rilanciata il giorno prima che A.A. rilasci la sua testimonianza.
Passa qualche giorno e il procuratore capo decide di sospendere l’investigazione per stupro per quanto riguarda S.W., per assenza di prove che fosse stato realmente commesso un crimine, mentre il caso di A.A. rimane sotto indagine per sospette molestie sessuali. Assange si presenta alla stazione di polizia per rilasciare una dichiarazione il 30 agosto, mentre il supervisore dell’agente di polizia che ha tenuto l’interrogatorio di S.W. chiede che le dichiarazioni della donna vengano riscritte e sulla base di queste – mai firmate dalla donna – il 2 settembre il caso viene riaperto. Assange – che ora si trova indagato per stupro, molestie e coercizione illegale – chiede nuovamente di essere sentito, ma nelle tre settimane successive le autorità svedesi non riescono a organizzare una data per la testimonianza. A quel punto, chiede e ottiene il permesso per andare a Berlino per tenere una conferenza, ma il giorno della partenza le autorità svedesi emettono un nuovo mandato d’arresto. Assange riesce comunque a raggiungere Londra e nel mentre i suoi avvocati lo informano che gli Stati Uniti hanno aperto un’investigazione segreta nei suoi confronti e ad Alexandria (Virginia), un Grand Jury sta valutando la presenza di elementi sufficienti per incriminarlo per cospirazione, insieme a Chelsea Manning, nella rivelazione di file segreti dell’esercito USA (15). È una notizia non ufficiale che gli avvocati apprendono da fonti svedesi, ma il sospetto – come vedremo – si rivela essere fondato. Alla luce di questo, Assange chiede alla Svezia la garanzia diplomatica che non verrà estradato negli USA, ma le autorità rifiutano con il pretesto che gli Stati Uniti non hanno ancora avanzato alcuna richiesta formale di estradizione. Assange chiede allora di essere interrogato a Londra o in video, ma anche questa opzione viene rispedita al mittente.
Tra ottobre e novembre, intanto, WikiLeaks prosegue con la pubblicazione degli Iraq War Logs e dei primi cablo della diplomazia americana.
A fine novembre la Svezia emette un mandato d’arresto attraverso l’Interpol – Assange diventa quindi un ricercato internazionale sulla base di un’indagine per sospetto stupro che chiaramente non sta in piedi – e il 30 dello stesso mese l’Interpol rende pubblico un “red notice” nei confronti del fondatore di WikiLeaks, attraverso cui le autorità svedesi chiedono che venga estradato nel loro Paese per essere interrogato.
Ai primi di dicembre 2010 Assange si consegna alla polizia a Londra, che lo arresta: fa appello in tribunale contro la richiesta di estradizione della Svezia per timore di essere poi consegnato alle autorità statunitensi – che non hanno ancora formalizzato ufficialmente alcuna indagine o accusa – e dopo una settimana viene rilasciato su cauzione e messo agli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, coprifuoco dalle 22 alle 8 e obbligo quotidiano di presentarsi alla polizia. Da alcuni tra i documenti ottenuti da Stefania Maurizi (16) si scopre che circa un mese dopo, a gennaio 2011, il Crown Prosecution Service britannico contatta la controparte svedese: sconsiglia di interrogare Assange in Gran Bretagna, esortando a farlo “solamente dopo che si fosse consegnato alla Svezia e di sentirlo in base alle leggi svedesi”. Le autorità scandinave rimangono in attesa della sentenza sulla richiesta di estradizione, rifiutando di raggiungere Londra.
Nel frattempo, con l’aumentare della pressione politica e istituzionale negli Stati Uniti, giganti finanziari come Bank of America, VISA, MasterCard, PayPal e Western Union bloccano le donazioni in favore di WikiLeaks, portando alla sospensione delle pubblicazioni per mancanza di fondi (il blocco verrà superato, anche grazie alle donazioni in bitcoin, solo due anni dopo).
Trascorrono 18 mesi tra tempistiche legali e nel giugno 2012 la Corte Suprema inglese boccia il ricorso, il fondatore di WikiLeaks deve essere estradato in Svezia entro dieci giorni. Il rischio di finire nelle mani degli americani si fa concreto. Il 19 giugno, chiuso in una stanza d’hotel, Assange si prepara per quella che probabilmente è la sua ultima possibilità di sfuggire a un destino che ormai appare segnato: si tinge i capelli, mette un paio di lenti a contatto colorate, due orecchini neri e in sella a una moto si confonde per le strade di Londra. Destinazione Knightsbridge, il quartiere residenziale dove ha sede l’ambasciata dell’Ecuador (17).
(Soprav)vivere in ambasciata
“Sono qui oggi perché non posso essere lì con voi oggi” (18). Assange, affacciato al balcone, si rivolge alla folla di sostenitori raccolta all’incrocio con Basil Street. Sono passati due mesi da quando si è rifugiato nell’ambasciata ecuadoregna e il governo di Rafael Correa gli ha appena garantito asilo politico. “Chiedo al presidente Obama di fare la cosa giusta. Gli Stati Uniti devono rinunciare a questa caccia alle streghe contro WikiLeaks.” Ritiene che il caso aperto contro di lui in Svezia sia solo un mezzo per arrivare alla sua estradizione negli USA e per questo il governo sudamericano lo considera un rifugiato politico. La polizia londinese pattuglia tutto il perimetro dell’ambasciata, giorno e notte. Ha violato le condizioni degli arresti domiciliari non presentandosi in tribunale e non appena metterà un piede fuori dall’ambasciata, fanno sapere le autorità britanniche, verrà arrestato. E Assange, un piede fuori, non lo metterà per i successivi sette anni.
Durante la sua permanenza nella sede diplomatica ecuadoregna, le pubblicazioni di WikiLeaks non si fermano: nel 2012 i Syria files; nel 2015 le comunicazioni del Ministero degli Affari Esteri dell’Arabia Saudita e le rivelazioni sulla sorveglianza di capi di Stato, ministri degli Esteri e grandi aziende da parte della National Security Agency statunitense; nel 2016 le email dell’AKP, il partito del presidente turco Erdoğan, i documenti sulle operazioni di estrazione mineraria condotte da aziende occidentali e cinesi nella Repubblica Centraficana, le email del Partito Democratico statunitense e quelle di Hillary Clinton in veste di Segretario di Stato; nel 2017 le email della campagna presidenziale di Macron, i Russia spy files sulla Russia di Putin e Vault 7, i documenti confidenziali della CIA che svelano l’arsenale di hacking in mano all’agenzia d’intelligence e la sorveglianza globale dei dispositivi iPhone, Android, Windows e degli smart TV Samsung.
Se da un lato il Gruppo di lavoro sulla Detenzione Arbitraria delle Nazioni Unite dichiara nel 2015 che Assange “è stato detenuto arbitrariamente dai governi di Svezia e Gran Bretagna” a partire da dicembre 2010 e che “ha diritto alla libertà di movimento e a una compensazione” (19), dall’altro gli Stati Uniti non mollano la presa, anzi. Con l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump avviene un deciso cambio di passo: sebbene nella campagna presidenziale del 2016 Trump elogi più volte il sito di Assange – “I love WikiLeaks” – per le rivelazioni sul partito Democratico e su Hillary Clinton, sua avversaria elettorale, una volta insediatasi l’amministrazione assume toni ben diversi. Soprattutto per voce del neo direttore della CIA Mike Pompeo e soprattutto dopo la pubblicazione di Vault 7: “È arrivato il momento di chiamare WikiLeaks per quello che è”, afferma ad aprile 2017 durante la sua prima apparizione da capo della CIA, “un servizio di intelligence ostile non statale” (20). A ottobre, durante un summit sulla sicurezza nazionale a Washington, paragona WikiLeaks ad al-Qaeda e ISIS: “Ho parlato di questi attori non statali, e non si tratta solo di WikiLeaks. […] Sono un’enorme minaccia, stiamo lavorando per eliminarla”. Assange? “Un ciarlatano, un codardo che si nasconde dietro uno schermo” (21). Sulla stessa lunghezza d’onda Jeff Sessions, il Procuratore generale, che definisce il caso Assange “una priorità” e chiarisce che “se sarà possibile procedere legalmente, cercheremo di mettere un po’ di persone in prigione” (22), perché “questa moda dei leaks deve finire” (23).
Ma l’ostilità da parte dell’intelligence statunitense si manifesta anche per vie, si direbbe, insospettabili. Per lo meno stando alla testimonianza rilasciata al processo di estradizione da due ex impiegati della UC Global (24), azienda spagnola di proprietà di David Morales incaricata dal 2015 dai servizi segreti ecuadoregni di occuparsi della sicurezza e della sorveglianza dell’ambasciata di Londra. Essendo l’unico vero contratto che la società ha in essere, raccontano i due testimoni, Morales nel 2016 vola a Las Vegas per partecipare a una fiera sulla sicurezza e cercare nuovi clienti. Di lì a poco sigla un contratto con la Las Vegas Sands, azienda di proprietà di Sheldon Adelson (miliardario Repubblicano sostenitore della campagna presidenziale di Trump), apparentemente per la gestione della security del suo yacht di lusso. Una volta tornato in Spagna, però, Morales raccoglie i suoi dipendenti e comunica che hanno fatto il salto di qualità, che da quel momento iniziano a “giocare in serie A”: spiega di essere passato “al lato oscuro” e fa riferimento alla nuova collaborazione con gli “amici americani” – che specifica essere l’“intelligence USA” – per raccogliere e trasmettere informazioni sensibili su Assange.
A questo scopo, Morales incarica i suoi dipendenti di sostituire le telecamere a circuito chiuso dell’ambasciata londinese con altre in grado di registrare i suoni e di abilitarle alla trasmissione in streaming, e di installare due microfoni nascosti: l’obiettivo prioritario è registrare gli incontri del fondatore di WikiLeaks con gli avvocati. Morales, stando sempre alle dichiarazioni dei due testimoni, riesce a ottenere perfino le impronte digitali di Assange, commissiona un’analisi calligrafica di alcuni suoi documenti e pianifica di rubare il pannolino di un bambino che spesso fa visita in ambasciata con la madre, per poter stabilire se è figlio di Assange: tutto per conto degli “amici americani”. Morales istruisce poi i dipendenti di modo che venga neutralizzato un dispositivo usato da Assange per disturbare eventuali registrazioni (di cui sospettava fortemente) e permettere così il funzionamento dei microfoni laser utilizzati dall’intelligence USA dall’esterno dell’ambasciata. L’intero materiale ottenuto dalle attività di spionaggio viene trasmesso tramite un server accessibile dagli Stati Uniti o personalmente da Morales.
Non è tutto. Morales riferisce ai suoi sottoposti le “misure estreme” che gli americani hanno suggerito per porre fine alla presenza di Assange in ambasciata: lasciare aperta una porta dell’edificio per permettere il rapimento del fondatore di WikiLeaks e, addirittura, la possibilità di avvelenarlo. Un articolo di yahoo!news di settembre 2021 (25), basato su alcune conversazioni con più di trenta ex funzionari statunitensi, conferma questo racconto e riporta che nel 2017 tra “alcuni alti funzionari della CIA e dell’amministrazione Trump” ci sono state “discussioni circa l’assassinio o il rapimento di Assange”. Il piano non vedrà mai la luce, ma lascia intendere quanto sia disperata la situazione agli occhi di Washington.
Nel frattempo il caso svedese rischia di implodere. Le accuse sono deboli e le prove inconsistenti. È stato montato mediaticamente, ma di concreto ha ben poco. Tra il 2012 e il 2013 le stesse autorità svedesi valutano più volte di abbandonare l’indagine preliminare contro il fondatore di WikiLeaks e di far cadere la richiesta di estradizione. “La legge svedese impone che le misure coercitive siano proporzionate”, scrive il pubblico ministero scandinavo alla controparte britannica, come rivelato dalle email ottenute da Stefania Maurizi. Il Crown Prosecution Service, però, insiste perché l’indagine non venga chiusa: “Non azzardatevi a tirarvi indietro!”. Fedele alla linea, la Svezia mantiene aperto il caso. Dopotutto, come ammettevano le stesse autorità inglesi un anno prima, in un altro scambio email, “non pensiate che questo caso venga trattato come qualunque altra estradizione” (26). Ma dopo quasi sette anni di nulla di fatto, senza un’accusa formalizzata, le autorità svedesi decidono finalmente di chiudere il caso Assange.
Siamo ormai nel 2017 e le condizioni di salute del fondatore di WikiLeaks peggiorano. Da dicembre 2010 è privato della libertà, da giugno 2012 è confinato tra le mura dell’ambasciata ecuadoregna, costantemente sotto pressione e nel mirino delle autorità svedesi, britanniche e statunitensi. Due medici riescono a visitarlo approfonditamente nella sede diplomatica e concludono, denunciandolo in un articolo sul Guardian, che “il continuato confinamento è per lui fisicamente e mentalmente pericoloso e una chiara violazione del suo diritto umano ad avere accesso alle cure” e chiedono che gli venga garantito un accesso sicuro all’assistenza medica britannica (27). L’ennesimo appello che rimane sospeso nel vuoto. L’orizzonte, per Assange, è sempre più buio.
Il nemico in casa
Il 2 aprile 2017 l’Ecuador elegge il suo nuovo presidente: Lenín Moreno, il candidato di Alianza País ed ex vicepresidente del governo di Rafael Correa. Pur facendo parte dello stesso schieramento politico del predecessore, una volta eletto Moreno si discosta dalle politiche progressiste del governo socialista uscente e dal suo stesso programma elettorale. Il Paese latinoamericano inizia così una rapida trasformazione, attraverso politiche economiche neoliberali – favorite anche da un prestito da 4,2 miliardi del Fondo monetario internazionale – e un avvicinamento sempre più netto agli interessi degli Stati Uniti: il governo Moreno abbandona l’Unione delle Nazioni Sudamericane (organizzazione intergovernativa nata nel 2008 durante la ‘marea rosa’ socialista), riconosce ufficialmente Juan Guaidó – l’autoproclamatosi presidente del Venezuela tanto caro a Washington – e autorizza l’apertura sul suolo nazionale di un nuovo ufficio per la cooperazione sulla sicurezza con gli Stati Uniti. Ma soprattutto, cambia atteggiamento nei confronti di quello che agli occhi degli americani è un asset particolarmente prezioso: Julian Assange.
A marzo 2018 il governo Moreno afferma che “il comportamento di Assange, con le sue dichiarazioni sui social network, mette a rischio le buone relazioni che il Paese intrattiene con il Regno Unito, il resto degli Stati dell’Unione europea e le altre nazioni” (28) e blocca ogni possibilità per il fondatore di WikiLeaks di comunicare via internet o telefono con l’esterno dell’ambasciata, oltre a imporgli il divieto di incontrare chiunque al di fuori dei suoi legali.
Il 28 giugno 2018, intanto, il vice presidente USA Mike Pence vola in Ecuador per un incontro con Lenín Moreno e, sollecitato anche da una lettera di dieci senatori Democratici che lo invitano a sollevare la questione Assange “in un momento in cui WikiLeaks continua i suoi sforzi per minare i processi democratici in tutto il mondo” (29), tramite la Casa Bianca conferma di aver avuto una “conversazione costruttiva” sul caso (30).
L’11 ottobre, dopo sette mesi di blocco delle comunicazioni, con una decisione unilaterale l’ambasciata formalizza un nuovo protocollo che delinea le condizioni a cui Assange deve attenersi perché non gli venga revocato l’asilo politico: divieto di esprimere opinioni politiche, accesso a Internet condizionato, potere di veto sulle visite e la possibilità per i funzionari dell’ambasciata o le autorità britanniche di sequestrare materiale appartenente a lui o ai suoi visitatori (31). Pochi giorni dopo, il 16 ottobre, in una lettera indirizzata al presidente Moreno, la commissione Affari Esteri del Congresso statunitense delinea la condizione necessaria per poter procedere a una rinnovata cooperazione e assistenza economica con l’Ecuador: risolvere la questione Assange. “È evidente che il sig. Assange sia un pericoloso criminale e una minaccia per la sicurezza internazionale”, scrivono i deputati, chiarendo che “sarà molto difficile per gli Stati Uniti far avanzare le nostre relazioni bilaterali fino a quando il sig, Assange non sarà consegnato alle autorità competenti” (32).
Mentre la pressione su Assange aumenta, a novembre i procuratori americani svelano per errore – la notizia non doveva essere pubblica – che nella Corte distrettuale di Alexandria (Virginia) è stata depositata un’incriminazione contro il giornalista australiano: in un documento di tre pagine datato 22 agosto 2018 relativo al caso di un certo mr. Kokayi, a pagina due si legge che la segretezza dell’incriminazione è necessaria per “mantenere confidenziale il fatto che Assange è stato messo sotto accusa” (33). È la conferma di quanto gli avvocati di Assange avevano informalmente saputo già nel 2010. Soltanto due mesi dopo Chelsea Manning – uscita dal carcere nel 2017 – riceve un mandato di comparizione per testimoniare davanti a un Grand Jury nella stessa Corte di Alexandria: il mandato non specifica quali saranno i temi oggetto della testimonianza, ma viene immediato collegarlo al caso contro il fondatore di WikiLeaks. Per questa ragione Manning rifiuta di testimoniare e viene condannata alla reclusione per “oltraggio alla Corte”: fino a quando non rilascerà la testimonianza o il Grand Jury avrà terminato i lavori, resterà in carcere (34).
Il clima in ambasciata si fa sempre più teso. A marzo 2019 WikiLeaks rilancia in un tweet (35) la notizia dell’apertura di un’indagine per corruzione contro il presidente Moreno da parte del Parlamento ecuadoregno in seguito alla pubblicazione degli INA Papers, una serie di documenti che svelano un sistema di corruzione, riciclaggio e frode fiscale portato avanti per mezzo di una rete di società offshore tra cui la INA Investment Corp, azienda creata nel 2012 dal fratello del presidente Moreno e di cui era parte – tra gli altri – anche la moglie. Lo scandalo degli INA Papers viene pubblicato da due giornalisti di La Fuente e dal sito dedicato inapapers.org, WikiLeaks riporta semplicemente la notizia dell’indagine parlamentare. Ma il governo sudamericano ne approfitta e usa il tweet come pretesto: accusa Assange e WikiLeaks di essere i responsabili delle rivelazioni. “È assolutamente vergognoso, riprovevole, mostra Assange per quello che è… certamente prenderemo dei provvedimenti”, dichiara il ministro degli Esteri ecuadoregno, “sta mordendo la mano che gli dà da mangiare” (36). Il 2 aprile, il presidente annuncia che Assange ha violato le condizioni di asilo e che a breve prenderà una decisione.
La mattina dell’11 aprile 2019 – per le “ripetute violazioni delle convenzioni internazionali e dei protocolli di vita quotidiana” (37) – con una “decisione sovrana” Moreno revoca l’asilo ad Assange e apre le porte dell’ambasciata alla polizia inglese. Sei uomini in borghese della Metropolitan police di Londra entrano nell’edificio, lo prelevano con la forza, lo caricano su una camionetta e lo portano davanti a un giudice: “Mi dichiaro non colpevole” sono le uniche parole che pronuncia Assange in tribunale. Dopo un processo lampo, viene condannato a 50 settimane di carcere per aver violato le condizioni del rilascio su cauzione nel 2012, quasi sette anni prima. “All’improvviso è stato trascinato fuori e in poche ore condannato, senza possibilità di poter preparare una difesa, per la violazione dei termini di rilascio su cauzione, che consiste nell’aver ricevuto asilo diplomatico da un altro Stato membro dell’ONU sulla base di una persecuzione politica, esattamente come prevede la legge internazionale”, dichiara in un’intervista a Republik Nils Melzer, l’inviato speciale ONU sulla tortura, e aggiunge: “In Gran Bretagna le violazioni dei termini di cauzione raramente portano alla detenzione – solitamente prevedono solo una multa” (38). Assange invece viene condannato a passare quasi un anno in isolamento nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh.
Quello stesso 11 aprile, il Dipartimento di Giustizia statunitense rende nota una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Assange, depositata nel marzo 2018 dal Grand Jury di Alexandria (39). Ad accompagnarla, la domanda di estradizione. Il fondatore di WikiLeaks si trova nel giro di poche ore di fronte a ciò che aveva provato a eludere per anni. Rinchiuso in una cella, isolato dal mondo, attende di conoscere il proprio destino. Che ora è nelle mani della giustizia inglese.
Il giornalismo ai tempi dell’espionage
La richiesta di rinvio a giudizio della Corte di Alexandria, datata marzo 2018, contiene un solo capo d’imputazione a carico di Assange: aver cospirato con Chelasea Manning al fine di commettere un’intrusione informatica, reato che prevede una condanna a un massimo di 5 anni di carcere e ricade sotto la sezione 371 del titolo 18 del Codice degli Stati Uniti e sotto il Computer Fraud and Abuse Act (CFAA), una legge nata nel 1986 con l’intento di criminalizzare le attività di hacking informatico. L’accusa, però, non è di hacking. Si basa su alcune conversazioni tratte dalla chat online Jabber tra Manning e l’utente Nathaniel Frank, che i procuratori ritengono essere – pur non avendo prove che lo dimostrino – Assange. Il fondatore di WikiLeaks viene accusato di aver cospirato con Manning nel tentativo di decifrare l’hash (una sequenza di lettere e numeri che corrisponde a una determinato codice) di una password salvata su un computer collegato al Secret Internet Protocol Network, rete del Dipartimento della Difesa contenente informazioni classificate. L’intento sarebbe stato di consentire a Manning di accedere al network utilizzando un nome utente diverso e nascondere così la propria identità. La stessa Manning aveva però già scaricato i file su Iraq, Afghanistan e Guantanamo prima di questo tentativo, che comunque non va a buon fine; tuttavia il punto è, per l’accusa, che se l’intento fosse riuscito “avrebbe reso più complicato per gli investigatori identificare Manning come fonte” dei leaks.
Rientra nella cospirazione anche il fatto che i due avessero discusso in chat di ulteriori metodi per evitare che Manning venisse scoperta: cancellare i log dal computer, utilizzare un telefono criptato, una frase di sicurezza in codice e una cartella dedicata su una drop box di WikiLeaks per la trasmissione sicura dei documenti classificati. Va tenuto presente che Manning aveva accesso autorizzato ai documenti, proprio in virtù del suo ruolo di analista di intelligence: l’accusa a carico di Assange quindi riguarda unicamente il fatto di averla aiutata (o aver provato) a proteggere la sua identità, esattamente ciò che ogni giornalista investigativo tenta di fare quando ha rapporti con una fonte riservata e materiale sensibile.
A ogni modo, pur volendo formalmente incriminare Assange rifacendosi al reato di intrusione informatica di computer protetti, il testo – sia nelle parole utilizzate, sia nei riferimenti legislativi – lascia intravvedere una chiara propensione della procura USA a considerare i fatti sotto la lente del reato di spionaggio, senza il quale difficilmente potrebbero perseguire Assange. Nell’atto di accusa, infatti, c’è un riferimento alla sezione 793, del Titolo 18, che corrisponde all’Espionage Act, una legge del 1917 concepita durante la prima guerra mondiale per punire lo spionaggio e il favoreggiamento del nemico e che negli anni è stata allargata fino a includere chiunque divulghi o condivida senza permesso informazioni governative classificate; e proprio in quanto legge contro lo spionaggio, non contempla in alcun caso la possibilità per l’accusato di appellarsi all’interesse pubblico – sempre presente nell’ambito del giornalismo. Nella sua prima versione la legge riguardava esclusivamente gli atti commessi sul territorio statunitense, ma un emendamento del 1961 ne ha esteso l’applicazione all’intero globo; è questa modifica che permette tecnicamente agli Stati Uniti di perseguire Assange, nonostante tutto ciò di cui è accusato sia stato commesso fuori dagli USA.
Tempo un mese e a maggio 2019 (40) l’accusa viene integrata con diciassette nuovi capi d’imputazione, tutti per violazione dell’Espionage Act. Il 24 giugno 2020 (41) il Grand Jury di Alexandria deposita un aggiornamento dove i nuovi capi d’imputazione vengono ulteriormente dettagliati. Riguardano la pubblicazione da parte di WikiLeaks della maggior parte dei documenti scaricati da Manning: i diari di guerra in Afghanistan e Iraq, le regole d’ingaggio nel conflitto iracheno, i file sui detenuti di Guantanamo e i cablo del Dipartimento di Stato e della diplomazia statunitense. Fanno tutti riferimento alla sezione 793 del Titolo 18 e ognuno di essi prevede una condanna massima di dieci anni: in totale, quindi, 175 anni di carcere.
Dunque Assange viene incriminato per aver pubblicato documenti segretati senza avere “un’autorizzazione di sicurezza degli Stati Uniti o altra forma di autorizzazione per ricevere, possedere o comunicare informazioni classificate”. Esattamente ciò che fanno (o dovrebbero) i giornalisti e Assange è un giornalista. Giova ricordare, tra l’altro, che il materiale incriminato è stato diffuso in collaborazione con i principali media americani, come New York Times e Washington Post, e stranieri, come il Guardian; inoltre, è ciò che è accaduto nel 2013 con le rivelazioni a mezzo stampa di Edward Snowden sui programmi di sorveglianza di massa della NSA, la National Security Agency americana; è infatti il “the New York Times problem” che aveva portato l’amministrazione Obama a desistere dall’incriminare Assange ai sensi dell’Espionage Act – senza però arrivare alla chiusura dell’indagine. Per i funzionari del Dipartimento di Giustizia si configurava il rischio di entrare in aperto conflitto con il Primo Emendamento della Costituzione, che tutela la libertà di espressione e la libertà di stampa (42).
Proseguiamo.
Assange viene anche accusato di aver cospirato con Manning per ottenere illegalmente e pubblicare informazioni riguardanti la difesa nazionale “a danno degli Stati Uniti e a vantaggio di una qualsiasi nazione straniera” e di averla aiutata a trasmettere a WikiLeaks i documenti a cui aveva accesso. Nelle “general allegations” la procura USA precisa che “il sito di WikiLeaks ha sollecitato esplicitamente materiale censurato, riservato e classificato”, e cita direttamente il sito: “WikiLeaks accetta materiale classificato, censurato o riservato che abbia un’importanza di carattere politico, diplomatico o etico”. Ancora una volta, è questo il mestiere dei giornalisti. La stessa Manning, infatti, prima di contattare WikiLeaks si era rivolta a New York Times e Washington Post.
L’accusa procede nel voler dimostrare il ruolo “attivo” giocato da Assange nella cospirazione e si sofferma sui “Most Wanted Leaks”, una lista pubblicata da WikiLeaks nel 2009 che elencava, per diversi Paesi, “i documenti o le registrazioni segrete più ricercate da giornalisti, attivisti, storici, avvocati, polizia o investigatori per i diritti umani” (43). Per la procura USA è la prova del fatto che l’organizzazione cercasse di reclutare persone disposte a ottenere illegalmente documenti classificati e le incoraggiasse a trasmetterle al sito; l’accusa sostiene che Manning sia stata indotta a usare questa lista come “guida” nella ricerca dei file e quindi Assange si sia reso protagonista di una sollecitazione di informazioni riservate.
Infine, Assange viene dichiarato colpevole per aver diffuso gli Afghan e Iraq War logs e i cablo del Dipartimento di Stato senza oscurare tutti i nomi degli individui che hanno collaborato con gli USA, “generando un serio e imminente rischio che quelle persone innocenti subissero gravi violenze fisiche e/o detenzione arbitraria”. Questa è l’accusa più delicata e controversa sul piano etico – anche giornalistico – e di sensibilità pubblica. Entriamo quindi nel dettaglio.
WikiLeaks ha sempre fatto un minuzioso lavoro di editing dei documenti sui nomi citati, per esempio pubblicando inizialmente solo 75 mila dei 91 mila file sull’Afghanistan che aveva o, come testimoniato dal giornalista John Goetz del tedesco Der Spiegel durante il processo di estradizione di Assange, censurando, nei diari sull’Iraq, più nomi dello stesso Dipartimento della Difesa (nel confronto con i documenti rilasciati dal Pentagono tramite Freedom of Information Act). Inoltre, gli Stati Uniti hanno avuto tempo e modo di mettere al sicuro le loro fonti prima della pubblicazione dei diari di guerra: l’arresto di Manning è di maggio 2010 mentre la rivelazione degli Afghan War logs è di luglio e gli Iraq War logs sono di ottobre.
Diverso il discorso per i cablo della diplomazia USA. A novembre 2010 WikiLeaks – in collaborazione con New York Times, Guardian, Der Spiegel, El País e Le Monde – comincia la pubblicazione dei primi 200 cablo con i nomi oscurati. A febbraio 2011, però, esce WikiLeaks: Inside Julian Assange’s War on Secrecy, il libro di David Leigh e Luke Harding, due giornalisti del Guardian, che svela la password per poter accedere a un file criptato, presente su un server di WikiLeaks, che contiene tutti i 250.000 documenti in formato originale. La password è stata fornita circa sei mesi prima da Assange a David Leigh, secondo il contratto di collaborazione con il quotidiano britannico. A partire dal 23 agosto WikiLeaks pubblica altri 130.000 cablo che contengono alcuni nomi di fonti USA. Il 31 dello stesso mese il file viene decrittato e caricato su cryptome.org, un altro sito che divulga documenti riservati: Assange avvisa il Dipartimento di Stato USA per cercare di minimizzare il rischio. Il primo settembre anche Pirate Bay carica il file sul proprio sito, mentre WikiLeaks annuncia azioni legali contro il Guardian e il giorno dopo decide di pubblicare tutti i 250.000 cablo, che ormai sono già pubblici. Questo episodio segna la fine della collaborazione tra WikiLeaks e le grandi testate giornalistiche, che in un comunicato congiunto dichiarano: “Non possiamo difendere la non necessaria pubblicazione dei file completi – anzi, siamo uniti nel condannarla. La decisione di pubblicare da parte di Assange è stata sua e solamente sua” (44).
Comunque siano andate le cose, tre aspetti sono indubbi. Il primo: l’amministratore di cryptome.org, John Young, ha testimoniato al processo di estradizione di Assange che le autorità statunitensi non gli hanno mai notificato alcuna violazione della legge né gli hanno mai chiesto di ritirare dal sito la pubblicazione (45). Dunque si può perlomeno affermare che ad Assange sia stato riservato un ‘trattamento particolare’. Il secondo: come riporta il Reporters Committee for Freedom of the Press, un’organizzazione no-profit nata nel 1970 a Washington che offre servizi legali pro bono ai giornalisti in difesa dei diritti riconosciuti dal Primo Emendamento, “mettere in pericolo gli informatori non è una qualche sottocategoria tra i possibili danni alla sicurezza nazionale protetta in modo speciale” poiché “la decisione di non oscurare quei nomi è una distinzione etica, non legale” (46). Il terzo: a oltre dieci anni dalla diffusione di più di 700.000 file da parte di WikiLeaks, gli Stati Uniti – come ammesso dallo stesso governo americano durante il processo Manning (47) – non sono stati in grado di provare la morte di una singola fonte in relazione alle pubblicazioni dell’organizzazione di Assange.
È su queste basi che il 24 febbraio 2020, presso la Woolwich Crown Court di Belmarsh, in Gran Bretagna, inizia il processo di estradizione. Il governo degli Stati Uniti contro Julian Assange.
Estradizione, perché no?
Assange assiste al processo confinato in una gabbia, dietro un vetro antiproiettile e impossibilitato a comunicare con i suoi avvocati. Craig Murray, ex ambasciatore inglese in Uzbekistan presente alla seduta preliminare di ottobre 2019, racconta di un uomo disorientato, confuso, con evidenti segni di deterioramento fisico e mentale, che fatica a seguire il dibattimento (48). Dopo la prima settimana, il processo si sposta nella corte criminale di Old Baily e riprende solo a settembre 2020 a causa del lockdown imposto dal governo britannico in risposta all’epidemia di Sars-CoV-2. Nel corso delle udienze sfilano più di quaranta testimoni. La Corte inglese è chiamata a decidere se sono legalmente soddisfatte le condizioni necessarie per approvare la richiesta di estradizione statunitense. La difesa di Assange oppone la natura politica dell’incriminazione, la tutela della libertà di espressione, il diritto a un giusto processo e, infine, le condizioni di salute di Assange. La sentenza emessa il 4 gennaio 2021 respinge l’estrazione riconoscendo legittimità solo all’ultimo punto. Vediamo i dettagli (49).
Punto uno.
Gli avvocati del fondatore di WikiLeaks sostengono che la richiesta del governo americano debba essere negata in base all’articolo 4 dell’Extradition Treaty siglato tra USA e UK nel 2003, in virtù del quale è proibita l’estradizione nel caso in cui la richiesta sia basata su una “offesa politica” commessa dall’imputato: il reato di spionaggio di cui viene accusato Assange, argomentano, rientra esattamente nella definizione, in quanto si configura come un crimine contro l’ordine politico dello Stato. Conseguentemente, non solo l’estradizione ma la stessa detenzione per il processo manca dei presupposti necessari, ed è quindi arbitraria e illegittima secondo l’articolo 5 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo che tutela il diritto alla liberà e alla sicurezza.
Reputano illegittima l’estradizione anche ai sensi della sezione 81 dell’Extradition Act del 2003. L’incriminazione degli Stati Uniti è spinta dalla volontà del governo, affermano – in particolar modo dall’insediamento dell’amministrazione Trump nel 2016 – di punire le opinioni politiche di Assange. Ricordano le numerose indiscrezioni giornalistiche del 2013 sulla decisione del governo Obama di non incriminare Assange per paura di creare un precedente pericoloso per la libertà di stampa, e il cambio avvenuto con l’avvento di Trump; le parole dello stesso Trump su WikiLeaks nel 2010, quando dichiarò: “Penso che ci vorrebbe la pena di morte o qualcosa del genere” (50); la posizione apertamente ostile del direttore della CIA Pompeo nel 2017; lo spionaggio nell’ambasciata dell’Ecuador e il piano per rapire Assange o avvelenarlo.
La Corte respinge. In merito all’Extradition Treaty, nella sentenza scrive che il sistema legislativo del Regno Unito non prevede l’incorporazione automatica di un trattato internazionale nella legge nazionale, quindi un accordo intergovernativo come l’Extradition Treaty non può essere fatto valere in tribunale. Fa fede, pertanto, l’Extradition Act del 2003, legge approvata dal Parlamento UK che – alla sezione 81 – prevede come impedimento all’estradizione il perseguimento dell’accusato per le sue opinioni politiche, ma non il reato di “offesa politica”.
Tuttavia evidenzia che, nonostante le indiscrezioni trapelate sulle decisioni dell’amministrazione Obama, l’indagine contro Assange non fosse stata chiusa. Non ci sono elementi poi per dubitare della buona fede dei procuratori americani e per ritenere che il governo abbia influenzato il loro lavoro: le uniche dichiarazioni ostili sono state del direttore della CIA, ma un’agenzia di intelligence non parla per conto dell’amministrazione. Le parole di Trump nel 2010 sono più datate rispetto agli apprezzamenti formulati da Trump stesso durante la campagna presidenziale, e non riguardavano le rivelazioni oggetto dell’accusa. Per quanto riguarda lo spionaggio in ambasciata, infine, la Corte dichiara di non potersi pronunciare essendoci un’investigazione ancora in corso da parte della giustizia spagnola; ma a ogni modo non ci sono state obiezioni in merito da parte di rappresentanti del governo ecuadoregno, nessuno degli elementi raccolti da uno spionaggio sarebbe ammissibile in un tribunale statunitense, e “una possibile spiegazione alternativa della sorveglianza degli Stati Uniti (se c’è stata) è la percezione che il sig. Assange costituisse ancora un rischio per la loro sicurezza nazionale”.
Punto due.
Ciò che l’accusa criminalizza, argomenta la difesa, è l’attività ordinaria di giornalismo investigativo e in generale la libertà di stampa, in violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo che tutela la “libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”. È inoltre in questione il diritto alla verità e il pubblico interesse delle rivelazioni di WikiLeaks, che hanno svelato numerose violazioni dei diritti umani e acceso un faro sulla necessità di trasparenza da parte dello Stato.
La Corte respinge. Dichiara innanzitutto che il caso in questione soddisfa la “dual criminality”, un prerequisito fondamentale per procedere all’estradizione: gli atti incriminati dagli Stati Uniti infatti costituiscono reato anche per la legge britannica – violazione di Official Secrets Act e Criminal Law Act – in quanto i documenti pubblicati hanno recato danno alla sicurezza nazionale, esattamente come sostiene l’accusa. Assange non si è limitato a ricevere e pubblicare le informazioni ma si è reso complice delle attività di Manning con il tentativo di decifrare una password e sollecitando la trasmissione dei file, oltre ad aver pubblicato documenti contenenti nomi di informatori, mettendone a rischio l’incolumità. Lo stesso articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce che la libertà di espressione non è assoluta e che possa essere sottoposta a restrizioni “necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale”. Per la Corte, tutto questo differenzia Assange dal normale giornalismo investigativo e non lo identifica con la definizione di “giornalista responsabile” protetta dall’articolo 10. In ogni caso, la questione della libertà di espressione potrà essere valutata dallo stesso tribunale statunitense, dato che al processo Assange avrà garantiti i diritti della Costituzione americana e il Primo Emendamento. Infine, conclude la Corte, il “diritto alla verità” non è riconosciuto da alcuna legge nazionale o internazionale e non può quindi essere fatto valere in un processo.
Punto tre.
Gli avvocati del fondatore di WikiLeaks denunciano poi come negli Stati Uniti Assange non avrà diritto a un processo equo, in violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Innanzitutto, il sistema statunitense forza gli imputati al patteggiamento tramite un sovraccarico di capi d’imputazione, esponendoli a condanne pesanti e aumentando così la probabilità di un’ammissione di colpevolezza.
C’è poi la questione della composizione della giuria che dovrà giudicare Assange ad Alexandria, in Virginia: come ha testimoniato Bridget Prince, direttrice di One World Research (società investigativa che collabora con gli avvocati durante processi civili e penali con esperienza decennale nei tribunali statunitensi), chiamata al banco dalla difesa (51), la giuria verrà selezionata tra le contee della divisione di Alexandria, nelle quali c’è una massiccia presenza di uffici e quartier generali di agenzie governative, tra i primi datori di lavoro dell’area per numero di impiegati – CIA, FBI, Dipartimento della Difesa (Pentagono), per citarne alcune – oltre a un numero significativo di appaltatori governativi che operano nel campo militare e di intelligence; è quindi alta la probabilità che la giuria sia composta da personale governativo.
La Corte respinge entrambe le opposizioni. Afferma che il patteggiamento è un diritto di cui l’imputato si può avvalere per scelta volontaria; che sarà il tribunale americano a dover valutare l’eventuale vaghezza ed eccessiva estensione delle accuse e che Assange avrà garantito il rispetto del Quinto Emendamento della Costituzione USA, che equivale all’articolo 7 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo in quanto a protezione dell’imputato da un’azione penale e una condanna arbitrarie; che, infine, i dodici giurati verranno individuati tra tutti gli abitanti delle contee ed è quindi improbabile che non ne vengano trovati di imparziali, oltre al fatto che le procedure di garanzia in essere negli USA garantiranno la terzietà della giuria. “È un processo segreto”, spiega però Nils Melzer al sito tedesco media.ccc.de, “molto spesso la difesa non ha neanche accesso alle prove contro il sospettato, non è ammessa la stampa, non sono ammessi osservatori, la giuria riceve le informazioni dall’accusa e nessuno è mai stato assolto: è un tribunale per i casi che riguardano la sicurezza nazionale” (52).
Punto quattro.
Come ultima questione, la Corte si trova a dover valutare il rischio per la salute di Assange: nel quadro delle condizioni imposte dalla sezione 91 dell’Extradition Act del 2003, infatti, è impedita l’estradizione nel caso in cui “le condizioni fisiche o mentali della persona sono tali che sarebbe ingiusto o oppressivo estradarla”. Nelle valutazioni rientrano anche le condizioni detentive che Assange potrebbe dover affrontare una volta negli Stati Uniti, seppur già in Inghilterra si trovi in regime di isolamento nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh. In USA, prima del processo verosimilmente verrebbe tenuto in custodia presso l’Adult Detention Centre (ADC) di Alexandria, ed è possibile l’applicazione di misure amministrative speciali (quali, per esempio, isolamento h24 e contatti con l’esterno limitati a 30 minuti di chiamata al mese) che la legge americana riserva ai casi in cui gli Stati Uniti considerino realistico il rischio di diffusione, da parte del detenuto, di informazioni che minaccino la sicurezza nazionale.
La Corte ritiene reale questo rischio. Afferma che agli occhi statunitensi Assange rappresenta tuttora una minaccia per la sicurezza nazionale, e allo stesso modo giudica probabile che, eventualmente condannato, Assange venga rinchiuso nell’Administrative Maximum Facility (ADX) di Florence, Colorado – carcere di massima sicurezza dove si trovano, tra l’altro, quattro dei nove detenuti per violazione dell’Espionage Act in tutto il Paese.
Ciò premesso, la Corte prende in esame i report medici sulle condizioni di salute mentale di Assange durante la detenzione nella prigione inglese, preferendo quelli presentati dalla difesa per la completezza delle valutazioni cliniche: si tratta quindi delle condizioni riscontrate dopo i mesi di isolamento passati in attesa del processo. Nel corso di svariate visite, i medici hanno diagnosticato un disturbo depressivo cronico, allucinazioni, disturbo da stress post-traumatico, ansia generalizzata, tratti caratteristici del disturbo dello spettro autistico, sindrome di Asperger, pensieri suicidi. In aggiunta, durante un incontro del dicembre 2019, un medico osserva “mancanza di sonno, perdita di peso, capacità di concentrazione compromessa, sensazione di essere spesso sull’orlo del pianto e uno stato di agitazione acuta per cui cammina nella cella fino allo sfinimento, picchiandosi la testa o sbattendola contro il muro”.
“È estremamente chiaro che mostra tutti i sintomi delle vittime di tortura”, denuncia Nils Melzer, l’inviato speciale sulla tortura dell’ONU, in un’intervista a Investig’Action. Ha visitato Assange in carcere a Londra a maggio del 2019 insieme a due medici indipendenti. “La tortura è sempre un processo psicologico che mira a spezzare lo spirito della persona, la sua resistenza mentale”, che è esattamente ciò che comporta l’isolamento: “gli standard minimi delle Nazioni Unite per il trattamento dei detenuti”, continua Melzer, “sono molto chiari: l’isolamento, la detenzione solitaria per più di 22 ore al giorno e per più di 15 giorni si configura come maltrattamento”. A questo si aggiunge la minaccia costante di estradizione in un Paese in cui rischia una condanna a 175 anni di carcere “che mina il senso di sicurezza, oltre a un clima di arbitrarietà, in cui non vi è la ragionevole certezza che le regole verranno applicate, che i diritti saranno rispettati […], questo sistema destabilizzante è una condizione tipica delle situazioni di tortura psicologica”. Da ultimo, poi, “l’umiliazione e la mancanza di rispetto sviliscono l’identità della persona e se si protraggono troppo a lungo ne piegano la resistenza; soprattutto nelle persone molto intelligenti […] questo distrugge il loro senso di identità e i loro punti di riferimento con la realtà”. Tutto ciò porta con sé “anche delle conseguenze fisiche, quindi neurologiche e di capacità cognitiva, e questo è già riscontrabile nel caso di Assange” (53).
Non ritenendo sufficienti le misure preventive in essere nelle carceri USA, la Corte valuta legittima l’opposizione della difesa su questo punto e respinge la richiesta di estrazione statunitense: nel caso di detenzione in regime di massima sicurezza, scrive, “le condizioni di salute del sig. Assange peggiorerebbero a tal punto da portarlo al suicidio con la ‘risoluta determinazione’ data dal disturbo dello spettro autistico”. Ordina inoltre la scarcerazione dell’imputato.
È chiaro che siamo davanti a uno di quei casi nei quali, per emettere verdetto, un giudice deve dare una propria interpretazione della legge: questioni come la natura politica di un’incriminazione, la libertà di espressione e un processo equo sono ben lontani dalla ‘linearità giuridica’ di un’evasione fiscale o di un semplice furto. E considerato il quadro d’insieme dell’affaire Assange, a partire dal suo avvio con il ‘caso svedese’, non si può tacere il fatto che la sentenza del giudice inglese Vanessa Baraitser, negando l’estradizione per le sole circostanze di salute, ha tutte le caratteristiche di una sentenza politica.
Gli atti futuri, una garanzia
Assange fa richiesta di essere scarcerato. “Per noi è chiaro che dovrebbe essere rilasciato su cauzione, in attesa della conclusione del processo” sottolinea Julia Hall, esperta di sicurezza nazionale per Amnesty International in un’intervista a Il Fatto Quotidiano, “non può esserci una sentenza che dice: questa persona è a rischio a causa delle condizioni di salute mentale molto fragili, e poi tenerlo a Belmarsh contribuendo a peggiorare le sue condizioni” (54). Il giudice Baraitser però rigetta la domanda perché nel frattempo gli Stati Uniti hanno fatto ricorso contro il rigetto dell’estradizione: l’iter processuale prevede infatti la possibilità di appello presso l’Alta Corte britannica, e ovviamente il ricorso statunitense si fonda sull’unico punto della tesi difensiva accolto da Baraitser: il rischio suicidio legato alle condizioni di detenzione negli USA.
“Il verdetto non è una vittoria per Julian Assange o per la libertà di stampa, è una trappola”, afferma Nils Melzer in un’intervista all’emittente russa RT: “Legalmente parlando, la negazione dell’estradizione da parte del giudice distrettuale pone gli Stati Uniti nella posizione di poter appellare la decisione. Altrimenti, fosse stata a favore, Assange avrebbe fatto appello e avrebbe sollevato le questioni riguardo la libertà di stampa, l’offesa politica, la motivazione politica del perseguimento giudiziario, il piano per assassinarlo o rapirlo: le avrebbe portate tutte davanti all’Alta Corte […]. È stato piuttosto intelligente da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna fare in modo che invece accadesse l’opposto: non lo estradano nella prima fase, confermano totalmente la narrazione dell’accusa sullo spionaggio e stabiliscono un precedente criminalizzando il giornalismo investigativo. In questo modo fanno sì che vengano portate davanti all’Alta Corte solo le questioni che vogliono che vengano prese in considerazione: la salute di Assange e le condizioni di detenzione. Ora, è chiaro che le condizioni di detenzione sono totalmente sotto il loro controllo: possono avanzare delle garanzie diplomatiche e neutralizzare quelle problematiche” (55).
È esattamente ciò che accade. Gli Stati Uniti basano il loro ricorso (56) su quattro garanzie: non verranno applicate misure amministrative speciali ad Assange, né prima né dopo il processo, “a meno che non commetta atti futuri che lo prevedano”; se condannato non verrà detenuto presso la prigione di massima sicurezza ADX Florence, “a meno che non commetta atti futuri che lo prevedano”; se condannato gli sarà possibile chiedere il trasferimento in Australia e “gli Stati Uniti si impegnano a consentire il trasferimento”; infine, gli verranno forniti tutti i trattamenti clinici e psicologici ritenuti necessari dal medico incaricato della prigione.
Il dibattimento inizia a fine ottobre e il 10 dicembre 2021 arriva il verdetto dell’Alta Corte: accoglie l’appello e annulla la decisione del giudice distrettuale. “Non c’è motivo per ritenere che gli USA non abbiano fornito le garanzie in buona fede”. Assange può essere estradato.
Anche con questa sentenza si pongono però delle questioni rilevanti: innanzitutto, la clausola inserita dagli USA “a meno che [Assange] non commetta atti futuri che lo prevedano” lascia chiaramente mano libera agli Stati Uniti e per di più, come viene dichiarato, la decisione potrà essere presa dalle agenzie di intelligence, tra cui quella stessa CIA che è sospettata di aver valutato il rapimento o l’assassinio di Assange nell’ambasciata ecuadoregna. “Se si guarda alle garanzie […] non siamo in una condizione per cui il divieto di tortura è assoluto”, dichiara Julia Hall, “il confinamento solitario prolungato che esiste nelle strutture di massima sicurezza, o le misure amministrative speciali, sono una violazione del divieto di tortura. È un divieto che non può essere posto a condizionalità: è un divieto assoluto. Non importa quello che fai, secondo la legge internazionale non puoi essere torturato. È importante ricordare qual è lo standard europeo: […] non è necessario che ci sia la certezza che una persona subirà tortura o maltrattamento, è sufficiente chiedersi: c’è una situazione tale per cui questa persona è a rischio di tortura? Gli Stati Uniti hanno materializzato questo rischio nelle loro garanzie” (57).
In merito poi alla possibilità di chiedere il trasferimento in Australia in caso di condanna – senza considerare i possibili mesi o anni necessari alla conclusione del processo – le rassicurazioni americane sembrano essere altrettanto deboli. Primo: per poter procedere è necessario che sia gli Stati Uniti che l’Australia siano d’accordo, secondo la Convenzione sul Trasferimento delle Persone Condannate del Consiglio d’Europa, e non è affatto certo che questa condizione si verifichi. Secondo: come rilevato dalla difesa, esiste un precedente poco rassicurante. Nel 2009 una Corte spagnola aveva acconsentito all’estradizione negli USA, per il processo, del cittadino spagnolo David Mendoza Herrarte, a condizione che l’imputato venisse poi riportato in Spagna per scontare l’eventuale pena; anche in quel caso gli Stati Uniti avevano dato garanzie diplomatiche, salvo poi rifiutare la richiesta dell’imputato a condanna avvenuta (58).
A questo punto, visto il ribaltamento della sentenza, i legali di Assange chiedono alla stessa Alta Corte – come previsto dalla legge britannica – la possibilità di presentare ricorso presso la Corte Suprema. Devono dimostrare che esistono questioni di diritto di ‘rilevanza pubblica’ derivanti dalla sentenza di appello, e per farlo si basano su due punti: contestano il fatto che le garanzie USA siano state fornite solo dopo la prima sentenza che bloccava l’estradizione e non durante il dibattimento, quando ce n’era la possibilità; e rilevano come la clausola “a meno che non commetta atti futuri che lo prevedano” possa essere facilmente bypassata dall’intelligence americana, esponendo quindi Assange a un alto rischio di suicidio.
Il 24 gennaio 2022 l’Alta Corte rende nota la decisione (59): ritiene di ‘rilevanza pubblica’ il primo punto e respinge il secondo. Davanti alla Corte Suprema, quindi, gli avvocati di Assange possono presentare ricorso solo in merito alla tempistica delle garanzie fornite dagli Stati Uniti. Il campo su cui si gioca il destino di Assange è sempre più limitato.
Starà ora alla Corte Suprema inglese decidere se ammettere il ricorso e procedere, nel caso, a una nuova sentenza; se anche questa sarà a favore dell’estradizione, toccherà al Segretario di Stato per gli Affari Interni britannico pronunciarsi. Con un ulteriore via libera, ad Assange – come annunciato dai suoi avvocati – rimarranno due possibilità: fare ricorso contro la decisione del Segretario di Stato; presentare un ulteriore appello, stavolta presso l’Alta Corte, contro le decisioni del giudice distrettuale Baraitser, quelle contenute nella prima sentenza del 4 gennaio 2021 su libertà di espressione, motivazione politica dell’incriminazione e diritto a un processo equo. Verosimilmente passeranno ancora mesi prima che una decisione finale possa essere presa. E Assange continuerà a passarli in prigione e in isolamento.
Intimidazione o libertà?
“Bisogna partire dalla verità”, spiegava Assange in un’intervista al Guardian nel 2010, “la verità è l’unico modo per arrivare ovunque vogliamo andare” (60). Il fondatore di WikiLeaks la strada da percorrere l’ha sempre avuta ben chiara. Ha sfidato governi e istituzioni e messo a nudo le atrocità, la corruzione, la manipolazione, le falsità che la narrazione dominante della politica nasconde dietro il velo di una “confortevole, levigata, ragionevole, democratica” non-verità, parafrasando Marcuse. Ha portato alla luce del proscenio ciò che vuole vivere nell’ombra, la ragion di Stato, svelando la vera faccia del potere; e con quella ha dovuto fare i conti. “Ciò che ha fatto WikiLeaks”, sottolinea Nils Melzer nell’intervista a Republik, “è una minaccia per le élite politiche di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Russia in uguale misura. WikiLeaks pubblica informazioni segrete sugli Stati – si oppone alla classificazione. E in un mondo, anche nelle cosiddette democrazie mature, dove la segretezza ha preso il sopravvento, ciò rappresenta una minaccia fondamentale” (61).
Quello che è in gioco con l’affaire Assange è il futuro del giornalismo investigativo. È vero che la caccia a Manning e Assange e la guerra a WikiLeaks non hanno fermato la comparsa di altri whistleblower e la pubblicazione di altri leaks, basti pensare alle rivelazioni di Snowden sulla NSA nel 2013, i Panama Papers nel 2016, i Paradise Papers nel 2017 e Vault7, “la più grande perdita di informazioni nella storia della CIA”, come l’ha definita la stessa agenzia. Ma un’eventuale estradizione e condanna negli Stati Uniti stabilirebbe un precedente legale gravissimo contro la libertà di stampa e la libertà di espressione in tutto il mondo. Non solo. “Lo scopo”, continua Melzer, “è di intimidire altri giornalisti. L’intimidazione, tra l’altro, è uno dei principali obiettivi della tortura nel mondo. Il messaggio per tutti noi è: questo è quello che succede se emulate il modello WikiLeaks”. Un’intimidazione che ha colpito nel segno, almeno per quanto riguarda l’organizzazione: dopo i primi anni di intensa collaborazione, infatti, le grandi testate giornalistiche mondiali hanno mantenuto una certa distanza da Assange e dalla sua attività. Certo, hanno continuato a dare notizia delle rivelazioni più importanti, ma un conto è collaborare attivamente alla diffusione di documenti riservati e renderli fruibili ai cittadini, mettendo in questione il segreto di Stato; un altro è riportare semplicemente notizie che hanno un peso troppo grande per essere ignorate.
Ancor prima di sapere come andrà a finire il processo e se il giornalista australiano riuscirà finalmente a tornare un uomo libero, bisogna forse domandarsi se il potere non abbia in realtà già ottenuto il suo obiettivo. “Ogni generazione ha una battaglia epica da combattere e questa è la nostra”, dichiara fuori dal tribunale Stella Moris, compagna di Assange e uno degli avvocati del suo team legale, “perché Julian rappresenta le fondamenta di cosa significhi vivere in una società libera, di cosa significhi avere la libertà di stampa, di cosa significhi essere giornalisti senza aver paura di dover passare il resto della vita in carcere” (62).
Si tratta di continuare a combattere, allora, perché in gioco c’è la libertà di tutti. “Quello che conosciamo è tutto” affermava Assange davanti alla platea dell’Oslo Freedom Forum nel 2010 (63), “è il limite di ciò che possiamo essere”.
1) Cfr. https://wikileaks.org/wiki/U.S._Intelligence_planned_to_destroy_WikiLeaks,_18_Mar_2008
2) http://www.thepeoplesvoice.org/TPV3/Voices.php/2010/04/05/wikileaksvideo
3) https://alexaobrien.com/archives/985
4) Ibidem
5) https://archive.humanevents.com/2010/10/26/the-wikileaks-security-tsunami/
7) Jesper Huor e Bosse Lindquist, Wikirebels, SVT Play, 2010
8) https://www.newyorker.com/magazine/2010/06/07/no-secrets#ixzz0unlrj5R3
9) https://cryptome.org/0001/assange-cpunks.htm
10) Jesper Huor e Bosse Lindquist, op. cit.
11) Cfr. https://www.meaa.org/news/meaa-opposes-extradition-of-assange/
13) https://web.archive.org/web/20100730023422/https://wikileaks.org/wiki/Wikileaks%3AAbout
14) Cfr. https://www.republik.ch/2020/01/31/nils-melzer-about-wikileaks-founder-julian-assange
15) Cfr. https://edition.cnn.com/2010/CRIME/12/13/wikileaks.investigation/index.html
16) Cfr. https://stefaniamaurizi.it/it-art-1060.html
17) Cfr. Risk, Laura Poitras, 2016
18) https://www.aljazeera.com/news/2012/8/20/assange-calls-on-us-to-end-witchhunt
19) https://www.ohchr.org/EN/NewsEvents/Pages/DisplayNews.aspx?NewsID=17012
21) https://www.washingtontimes.com/news/2017/oct/20/cia-working-take-down-wikileaks-threat-agency-chie/
24) Cfr. https://challengepower.info/witness_statements/assange_extradition_hearing_witness_statements, Anonymous Witness#1, former UC Global employee, Anonymous Witness#2, former UC Global employee
31) Cfr. Protocolo especial de visitas, comunicaciones y atención médica al señor Julian Paul Assange, 11 ottobre 2018
33) Cfr. United States of America v. Seitu Sulayman Kokayi, case no. 1:18-mj-406, 22 agosto 2018
34) Cfr. https://www.nytimes.com/2019/02/28/us/politics/chelsea-manning-subpoena.html
35) Cfr. https://twitter.com/wikileaks/status/1110283469349896193?ref_src=twsrc%5Etfw
36) Cfr. https://www.ivoox.com/dr-jose-valencia-27-03-2019-en-busca-de-salidas-audios-mp3_rf_33778454_1.html
37) Cfr. https://twitter.com/Lenin/status/1116271455602393088
38) https://www.republik.ch/2020/01/31/nils-melzer-about-wikileaks-founder-julian-assange
39) Cfr. United States of America v. Julian Paul Assange, criminal no. 1:18cr, Indictment, 6 marzo 2018
40) Cfr. United States of America v. Julian Paul Assange, criminal no. 1:18cr-111 (CMH), Superseding indictment, 23 maggio 2019
41) Cfr. United States of America v. Julian Paul Assange, criminal no. 1:18cr-111 (CMH), Second superseding indictment, 24 giugno 2020
43) https://wikileaks.org/wiki/Draft:The_Most_Wanted_Leaks_of_2009
44) https://www.theguardian.com/media/2011/sep/02/wikileaks-publishes-cache-unredacted-cables
45) Cfr. Assange Extradition Hearing, Statement of John Young, 16 luglio 2020
46) https://www.rcfp.org/may-2019-assange-indictment-analysis/
47) Cfr. https://www.theguardian.com/world/2013/jul/31/bradley-manning-sentencing-hearing-pentagon
48) Cfr. https://www.craigmurray.org.uk/archives/2019/10/assange-in-court/
49) Cfr. Judiciary of England and Wales, District Judge (Magistrate s’ Court) Vanessa Baraitser, In the Westminster Magistrate s’ Court, Between The Government of The United States of America v. Julian Paul Assange, gennaio 2021
50) https://edition.cnn.com/2017/01/04/politics/kfile-trump-wikileaks/index.html
51) Cfr. Assange Extradition Hearing, Statement of Bridget Prince, 18 dicembre 2019
52) Cfr. https://media.ccc.de/v/rc3-2021-xhain-487-julian-assange-and-wikileaks#t=0
53) https://www.youtube.com/watch?v=f9ox1FWu_ZU
55) https://www.youtube.com/watch?v=XDWw-IFH7s4
56) Cfr. High Court of Justice Queen’s Bench Division Administratice Court, Case No: CO/150/2021, Between The Government of The United States of America v. Julian Paul Assange, 10 dicembre 2021
58) Cfr. https://richardmedhurst.substack.com/p/mendoza
59) Cfr. High Court Decision in USA v. Julian Assange Extradition Proceedings, Explanatory Background Note, 24 gennaio 2022
60) https://www.theguardian.com/media/2010/aug/01/julian-assange-wikileaks-afghanistan
61) Cfr. https://www.republik.ch/2020/01/31/nils-melzer-about-wikileaks-founder-julian-assange