Energia, perché l’idrogeno non è una svolta green: sarà l’idrogeno ‘blu’ a dominare nei prossimi anni, con lo stoccaggio di CO2: i progetti Snam per l’Italia e il Nord Africa
Nelle ultime settimane si è molto parlato della imminente decisione che avrebbe dovuto prendere la Banca europea degli Investimenti (Bei) in merito al finanziamento delle fonti fossili. La discussione all’interno del Consiglio era stata rimandata da ottobre a novembre, a causa delle forti divisioni tra i Paesi: Germania e Italia in primis, oltre agli Stati dell’Est, spingevano perché la Bei continuasse a finanziare i progetti riguardanti il gas naturale.
Molti Paesi, come il nostro, considerano il gas naturale una fonte fossile di transizione, necessaria per i prossimi venti/trent’anni a garantire il passaggio dalle fossili alle rinnovabili. Dietro questa lettura non c’è un’analisi scientifica ma i profitti delle principali aziende che producono, trasportano e lavorano il gas naturale. I rapporti Ipcc (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu) e diversi studi internazionali sono infatti molto chiari nel definire il gas una fonte fossile da abbandonare immediatamente, per il suo forte contributo alle emissioni di metano, gas molto più climalterante della Co2, e dimostrano come il gas naturale non possa essere una fonte energetica di transizione. Nonostante ciò, il “Piano nazionale integrato per l’energia e il clima” del ministro dell’Ambiente Sergio Costa, dibattuto in questi mesi, insiste sulla necessità del metano. È ovvio che dietro questo interesse da parte del governo giallorosso, come di quelli precedenti, ci sono gli interessi di Snam e il tentativo di rendere l’Italia un hub del gas. Non a caso anche la Germania insiste sulla necessità del gas naturale, visti i progetti legati al gasdotto North stream e il tentativo di creare un hub del gas nel Nord Europa.
La divisione creatasi all’interno della Bei ha prodotto un ampio dibattito che ha interessato anche le varie organizzazioni ambientaliste europee, oltre al movimento giovanile del Fridays For Future. Parecchie iniziative sono state prese nel tentativo di condizionare la decisione della Bei, e già la sera del 14 novembre, giorno della decisione, si è assistito a un teatrino sui social e sulle principali testate giornalistiche per la ‘storica’ scelta operata: abbandonare tutte le fonti fossili dal 2021. Purtroppo molte organizzazioni e diversi movimenti ambientalisti sono caduti nella trappola che si nascondeva dietro ai titoloni dei giornali, parlando così di una vittoria ottenuta grazie alle proteste. Ma è veramente una decisione storica quella presa dalla Bei?
Prima di analizzarla, entrando nel documento approvato, occorre notare che l’accordo è stato un compromesso al ribasso. Se nelle intenzioni ufficiali di ottobre la Bei indicava il 2020 come anno ultimo per i finanziamenti alle fonti fossili, la data è stata invece posticipata al 2021. Un anno in più permetterà ulteriori enormi finanziamenti per una serie di opere già proposte e porterà, nei prossimi due anni, alla gara delle multinazionali del fossile nel cercare altri soldi pubblici nella Banca europea. Il Sole 24 ore del 15 novembre evidenziava infatti come “i progetti già autorizzati dalla Commissione Ue sarebbero esclusi dalla svolta verde. Si tratta dei progetti di interesse comune (Pic) da poco varati da Bruxelles. Tra questi, ci sarebbero i gasdotti Tap e Poseidon”. Sono decine i progetti legati alle fonti fossili, principalmente al gas, già autorizzati dalla Commissione Ue come ‘interesse comune’, e continueranno quindi a usufruire dei finanziamenti necessari. È indubbio che sono ormai gli ultimi soldi indispensabili a garantire i vari hub del gas e l’attuazione della nuova geopolitica del gas naturale. In pratica tutte queste opere garantiranno il mix energetico con il gas naturale come fonte di transizione, come richiesto da Italia e Germania. Ne consegue che per i prossimi venti/trent’anni, la principale fonte energetica resterà il metano.
Ci sono poi diverse scappatoie che potranno lasciare aperta la strada del finanziamento dei progetti legati al gas anche dopo il 2021. Nel documento approvato dalla Bei, infatti, si parla di bloccare i progetti fossili privi di sistemi per abbattere le emissioni inquinanti, “unabated fossil fuel projects”, ma quelli che “emetteranno meno di 250 grammi di Co2e per kWh” saranno ancora supportati (prima il limite era di 550 grammi Co2/KWh). Si legge nel report: “Questo criterio si applicherà a tutte le tecnologie anche per la generazione di energia basata su quella a basse emissioni di carbonio (ad es. geotermico, idroelettrico su larga scala, biocarburante o biomassa), alla cattura e stoccaggio sotterraneo di anidride carbonica (CCS) o alle tecnologie con un’alta percentuale di carburanti a basse emissioni di carbonio, calore ed energia combinati e fonti energetiche decentralizzate. In deroga a questa regola generale, la Banca sosterrà centrali elettriche a gas che forniranno un piano credibile di miscelazione in aumento di quote di gas a basse emissioni di carbonio durante la vita economica del progetto”.
La Bei dunque riconosce il ruolo del gas naturale come fonte di transizione, ammettendo che verrà progressivamente sostituito da gas a basse emissioni, gas sintetici, idrogeno o tramite la pratica dello stoccaggio geologico della Co2.
Entriamo nella novità dell’idrogeno.
L’idrogeno e i progetti Snam
Negli ultimi mesi l’idrogeno è stato proposto all’attenzione dell’opinione pubblica, da parte di parecchie multinazionali del fossile, a partire da Snam, come la soluzione al cambiamento climatico. Addirittura l’amministratore delegato di Snam, Marco Alverà, si è spinto a scrivere il libro Generation H, edito da Mondadori, la cui uscita è prevista per marzo 2020. Un consorzio di multinazionali, tra cui la Snam italiana, la Fluxys belga, la Enagas spagnola (le stesse coinvolte nei progetti di hub del gas e dei vari gasdotti dal medioriente), hanno redatto uno studio intitolato “Gas for Climate. The optimal role for gas in a net-zero emissions energy system”, dove viene spiegata la capacità tecnologica e potenziale dell’utilizzo del gas.
Di fondo viene annunciato che l’idrogeno sarà l’energia del futuro e che ci sono molti modi per produrlo, con vari costi e mercati. Attualmente ci sono tre possibilità per ottenerlo:
- idrogeno grigio: prodotto dalla conversione termochimica del gas naturale, ma con forti emissioni di Co2;
- idrogeno blu: simile a quello grigio, ma con l’aggiunta di cattura e stoccaggio della Co2, procedure che costituiscono il famoso Storage CCS che negli ultimi anni l’Europa ha cercato di promuovere; in pratica vuol dire stoccare sottoterra la Co2;
- idrogeno green: prodotto attraverso l’elettrolisi dell’acqua: viene usata energia elettrica per ‘scomporre’ l’acqua in idrogeno e ossigeno, senza emissioni di Co2.
Com’è facile ipotizzare queste tre tecnologie hanno costi di produzione del tutto differenti e che incideranno per i prossimi anni, quelli della cosiddetta transizione. Stando a un recente studio di Bloomberg New Energy Finance, i costi dell’idrogeno green potranno scendere del 70% in dieci anni, rendendo tale opzione competitiva rispetto alle altre; questo comporta, inevitabilmente, la prevalenza a breve delle due soluzione tecnologiche legate ai fossili. Anche la IEA (International Energy Agency), nel suo studio elaborato per il G20 del Giappone, pone l’accento sull’opportunità di sfruttare il potenziale di idrogeno per un futuro mix energetico “sostenibile”.
Snam non poteva che inserirsi nel cambio di direzione nell’ottica di utilizzare le infrastrutture esistenti per il trasporto di idrogeno. In un comunicato dell’8 ottobre scorso, afferma: “Una caratteristica chiave dell’idrogeno è la sua capacità di fungere allo stesso tempo da fonte di energia pulita (per svariati usi finali) e da vettore energetico per lo stoccaggio. L’idrogeno, infatti, può essere trasportato attraverso i gasdotti esistenti, in miscela con il gas naturale e in prospettiva in condotte dedicate, e può offrire una soluzione per stoccare energia a un costo dieci volte inferiore rispetto alle batterie (circa 20 dollari a megawatt/ora contro 200 $/Mwh)”.
Già precedentemente, in un comunicato del 16 luglio (“Perché Snam e l’idrogeno”), si legge: “Ad aprile 2019, per prima in Europa, Snam ha sperimentato l’immissione di un mix di idrogeno al 5% e gas naturale nella propria rete di trasmissione. La sperimentazione, che ha avuto luogo con successo a Contursi Terme, in provincia di Salerno, ha comportato la fornitura, per circa un mese, di H2NG (miscela idrogeno-gas) a due imprese industriali della zona, un pastificio e un’azienda di imbottigliamento di acque minerali. L’iniziativa ha avuto risalto a livello internazionale, con articoli dedicati da parte di Bloomberg (che ha scritto della “prima pasta” cotta con idrogeno) e del Financial Times (che lo ha definito un traguardo “storico”). Applicando la percentuale del 5% di idrogeno al totale del gas trasportato annualmente da Snam, se ne potrebbero immettere ogni anno in rete 3,5 miliardi di metri cubi […]. Al momento, Snam è impegnata nella verifica della piena compatibilità delle sue infrastrutture con crescenti quantitativi di idrogeno miscelato con gas naturale, nonché nello studio di modalità di produzione di idrogeno da elettricità rinnovabile. Entro fine anno la sperimentazione verrà replicata, nel medesimo tratto di rete, portando al 10% il quantitativo di idrogeno nel mix fornito alle due imprese coinvolte […] Secondo uno studio condotto da Navigant e commissionato dal Consorzio europeo Gas for Climate, di cui fa parte anche Snam, il nostro continente ha un potenziale di produzione di idrogeno e biometano pari a 270 miliardi di metri cubi al 2050, che porterebbero a una piena decarbonizzazione con risparmi economici per 217 miliardi di euro annui rispetto a uno scenario energetico che non preveda l’utilizzo di gas”.
Il 17 ottobre Snam insiste con un altro comunicato dal titolo “Il potenziale dell’idrogeno in Italia”: “Uno studio condotto da Snam con il supporto analitico di McKinsey sul potenziale ruolo dell’idrogeno nel sistema energetico italiano ha evidenziato come l’Italia possa effettivamente rappresentare un mercato molto attrattivo per lo sviluppo dell’idrogeno. Questo grazie alla presenza diffusa di energia rinnovabile e di una rete capillare per il trasporto di gas, inclusi i collegamenti con il Nord Africa. I principali risultati del report so-no i seguenti:
- l’idrogeno potrebbe coprire quasi un quarto di tutta la domanda energetica in Italia entro il 2050;
- il trasporto pesante su lunga distanza sarà uno dei primi segmenti in cui l’idrogeno potrà essere sostenibile economicamente. L’idrogeno raggiungerà la parità di costo totale con il diesel entro il 2030, anche senza l’applicazione di incentivi di sistema;
- la miscela di idrogeno e gas naturale nella rete di distribuzione (fino a una quota del 10-20%) per il riscaldamento domestico, è un altro potenziale ambito di sviluppo che si potrebbe verificare nel breve-medio termine;
- l’idrogeno supporterà la diffusione su larga scala delle rinnovabili nella rete elettrica; agirà da strumento di flessibilità come valida opzione per lo stoccaggio stagionale; potrà essere utilizzato insieme ad altre soluzioni […] potrà rappresentare anche una soluzione alternativa per il trasporto di energia in rete;
- in uno scenario di decarbonizzazione al 95% (necessario per non superare la soglia di 1,5 gradi di aumento temperatura), l’idrogeno potrebbe fornire fino al 23% del consumo totale di energia entro il 2050 – più della quota attuale complessiva di energia elettrica (20% nel 2018), considerando sia fonti rinnovabili che fossili;
- il costo dell’idrogeno potrà essere competitivo già entro il 2030 – in anticipo rispetto ad altri mercati europei. Considerando la forte presenza di energie rinnovabili nel nostro Paese, l’idrogeno ‘verde’ raggiungerà il punto di pareggio con quello ‘grigio’ derivante da gas naturale, 5-10 anni prima rispetto a molti altri Paesi, tra cui la Germania. Ciò rende l’Italia il luogo ideale per l’utilizzo su vasta scala dell’elettrolisi;
- l’Italia potrebbe importare idrogeno dal Nord Africa, a un costo inferiore del 14% rispetto alla produzione domestica. Potrebbero essere disposti pannelli solari nei Paesi dell’Africa settentrionale (“dove il sole splende sempre”), e poi importare idrogeno in Sicilia attraverso i tubi esistenti. Questo potrebbe incentivare anche le esportazioni di idrogeno in altri Paesi europei attraverso l’Italia;
- le infrastrutture italiane del gas supportano il potenziale dell’idrogeno: l’ampia infrastruttura può consentire il collegamento fra il Sud del Paese, ricco di energia rinnovabile, con i centri di domanda situati nel Nord, e rendere possibile la nascita di sistemi energetici altamente indipendenti e completamente rinnovabili nelle isole”.
Ancora fossili e neocolonialismo
L’investimento nel settore dell’idrogeno apre un importante problema: l’Europa avrà sempre più bisogno di idrogeno green, attraverso quella che sarà una vera e propria campagna coloniale in Africa per produrre energia rinnovabile, aprendo scenari sempre peggiori per le popolazioni africane che vedranno accelerare il consumo di suolo dei propri territori. Ma questi investimenti avranno bisogno di tempo e di enormi costi.
Si ipotizza che l’idrogeno verde sarà competitivo non prima del 2050, quando Bloomberg New Energy Finance stima un costo intorno a 1 dollaro al kg contro i 5 attuali, con un processo di discesa destinato ad accelerare nel tempo. Il calo sarà dovuto principalmente al costo minore degli elettrolizzatori, grazie alla loro adozione su vasta scala. Ci sarà dunque un’espansione che comporterà enormi investimenti: secondo Hydrogen Council, associazione che racchiude le maggiori imprese mondiali del settore, l’economia mondiale dell’idrogeno nel 2050 potrebbe raggiungere i 2.500 miliardi di dollari, rispetto agli attuali 100 miliardi. Ma stando allo studio condotto da Navigant e commissionato dal Consorzio europeo Gas for Climate, sopra citato, in Europa nel 2050 si avrà un potenziale di produzione pari a 270 miliardi di metri cubi di gas rinnovabile, biometano e idrogeno, con un potenziale di produzione di idrogeno verde da elettricità rinnovabile in eccesso che potrà raggiungere i 200 TWh (equivalente di 19 miliardi di metri cubi di gas naturale). Anche gli analisti di Wood Mackenzie, in un rapporto sul potenziale globale dell’idrogeno green, danno dati poco rassicuranti. La produzione attuale dell’idrogeno si basa quasi sostanzialmente (99%) sulle fonti fossili, con forti emissioni di Co2. Sempre dal rapporto emerge che dal 2000 al 2019 in tutto il mondo si sono sviluppati 253 MW di elettrolizzatori per produrre idrogeno green, e in previsione al 2025 il mercato è destinato a crescere con 3200 MW. Una crescita di certo importante ma del tutto ininfluente come sostitutivo delle fonti fossili: ci vorranno dunque anni per rimpiazzare l’idrogeno da fossili con l’idrogeno rinnovabile.
A questo punto sorge una domanda: abbiamo a disposizione tutto questo tempo per scongiurare l’innalzamento delle temperature climatiche preannunciato dall’Ipcc? E sorge anche una considerazione: dai dati emerge che l’idrogeno verde da elettricità rinnovabile coprirà una quota molto bassa per i prossimi anni, e quindi avremo bisogno di idrogeno da fossile, a cui si affiancheranno appunti forti investimenti di fotovoltaico nei Paesi del Nord Africa, con un piano scellerato di colonizzazione.
Ancora stoccaggio e rischi di sismicità indotta
C’è poi un secondo problema: lo stoccaggio. L’utilizzo dell’idrogeno da fonti fossili aprirà infatti la strada all’applicazione dello stoccaggio geologico della Co2, il famoso storage CCS.
Sono le stesse multinazionali del fossile, nel rapporto Navigant, a scriverlo: “Larga parte dell’idrogeno in Europa sarà inizialmente costituito dall’idrogeno cosiddetto ‘blu’, l’idrogeno carbon-neutral prodotto da gas naturale tramite la cattura e lo stoccaggio del carbonio (CCS). Durante la fase di transizione energetica verso un sistema completamente decarbonizzato, questo tipo di idrogeno potrà svolgere un ‘ruolo ponte’ per ottenere più velocemente una riduzione delle emissioni di anidride carbonica globale. L’idrogeno blu sarà poi gradualmente rimpiazzato dall’idrogeno verde, prodotto (tramite elettrolisi) da fonti rinnovabili come eolico e solare, realizzando un mix energetico totalmente sostenibile. L’idrogeno verde permetterà a queste risorse non programmabili di beneficiare della capillare rete di trasporto gas e degli stoccaggi, abilitando soluzioni di sector coupling elettrico-gas e contribuendo quindi a fronteggiare la sfida dell’intermittenza”.
Nelle politiche di Snam e delle altre multinazionali del trasporto di energia emerge dunque chiaramente il tentativo di usufruire per il futuro di tutte le infrastrutture metanifere italiane ed europee. Per Snam l’ottica non è più solamente quella dell’hub del gas, ma anche dell’hub dell’idrogeno. Questo comporterà non solo l’utilizzo dei gasdotti per idrogeno e biometano, ma anche degli stoccaggi sotterranei.
I progetti dello storage CCS non sono decollati fino a ora non per questioni tecniche ma prettamente di mercato (1). Il prezzo basso del carbonio di questi anni, a causa della recessione del 2008 e della speculazione borsistica delle quote di emissione, non ha permesso la profittabilità dei progetti di storage CCS. È la stessa Corte dei Conti europea, nell’estate 2018, a scriverlo nella relazione “Dimostrazione delle tecnologie di cattura e stoccaggio del carbonio e delle fonti rinnovabili innovative su scala commerciale nell’Ue: i progressi attesi non sono stati realizzati negli ultimi dieci anni”. Vi si legge: “Le condizioni di investimento avverse (tra cui l’incertezza delle strategie e dei quadri normativi) hanno ostacolato i progressi di molti progetti innovativi nel campo delle energie rinnovabili e della cattura e dello stoccaggio del carbonio. Un fattore chiave della mancata diffusione delle tecnologie di cattura e di stoccaggio del carbonio è stato il basso prezzo di mercato del carbonio registrato dopo il 2011”. Lo storage CCS può essere commercialmente conveniente con un valore intorno a 40 euro a tonnellata, mentre in questi anni il prezzo ha viaggiato tra i 5 e i 10 euro. Solo nell’ultimo anno, per un ritocco indotto dalla stessa Commissione europea, il carbonio ha toccato quote tra i 25 e i 30 euro. L’ulteriore aumento dei prezzi, preannunciato dai vari governi e dal nuovo Parlamento europeo, anche sull’onda delle mobilitazioni per il clima, spianerà la strada ai progetti di stoccaggio geologico. Che non sono affatto nuovi e di cui già conosciamo i rischi.
Negli anni passati, alcune realtà istituzionali hanno voluto studiare il sottosuolo per questo tipo di utilizzo. In Lombardia e nell’Emilia Romagna, nel febbraio 2012 si decideva l’area pilota per il progetto Transalpino europeo GEOMOL, Assessing subsurface potentials of the Alpine Foreland Basins for sustainable planning and use of natural resources, finanziato nell’ambito del Programma InterReg IVB Spazio Alpino – Cooperazione Territoriale Europea 2007-2013. I quattordici partner erano quasi esclusivamente servizi geologici, nazionali e regionali, di Francia, Svizzera, Germania, Austria, Slovenia e Italia; tra questi ultimi, il Servizio Geologico d’Italia-ISPRA, il Servizio Geologico, Sismico e dei Suoli della Regione Emilia Romagna (RER–SGSS), Regione Lombardia, DG Territorio, Urbanistica e Difesa del Suolo. Il progetto, della durata complessiva di 34 mesi (settembre 2012-giugno 2015), si poneva l’obiettivo di produrre modelli geologici tridimensionali del sottosuolo basati su differenti set di dati, su metodi di valutazione coerenti e su criteri e linee guida sviluppati in modo unitario e condivisi tra i partner partecipanti, al fine di fornire alle Amministrazioni preposte al governo del territorio adeguati strumenti conoscitivi per valutare le potenziali risorse del sottosuolo (geopotenziali), anche concorrenti, e pianificarne un utilizzo sostenibile.
“L’area pilota italiana”, si legge nel rapporto redatto dalla Commissione ICHESE (International Commission on Hydrocarbon Exploration and Seismicity in the Emilia Region, incaricata di valutare le possibili relazioni tra attività di esplorazione per idrocarburi e aumento dell’attività sismica nell’area colpita dal terremoto dell’Emilia Romagna del mese di maggio 2012 [2]), “si estende, con andamento NW-SE, dal margine sudalpino dell’area di Brescia alla zona compresa tra Carpi e Finale Emilia, per un’estensione di circa 3.800 km2. Essa è stata definita a febbraio 2012, in fase di sottomissione del Progetto, per poter disporre di un’area strategica che si prevedeva di caratterizzare (a scala regionale), sia dal punto di vista della valutazione del geopotenziale prescelto (geotermia) che per la presenza di strutture tettoniche sismicamente attive, come quelle che poi hanno generato la sequenza sismica del maggio 2012”.
Il dibattito innescato dal terremoto del 2012 in merito ai rischi, più che concreti, di sismicità indotta (3), non ha fermato l’idea dello stoccaggio, che oggi viene ampliata inserendola nell’ambito dell’idrogeno. Geomol, il progetto Transalpino europeo del 2012, sottolinea: “Il problema dello stoccaggio di grandi quantità di liquidi o gas è risolvibile, dal punto di vista della sicurezza e dell’economicità, solo utilizzando idonee strutture nel sottosuolo […] Fino a poco tempo fa, lo stoccaggio in sottosuolo era focalizzato a salvaguardare la disponibilità di gas naturale, bilanciando le fluttuazioni stagionali della domanda e mitigando eventuali irregolarità nell’approvvigionamento […] Oggi, tuttavia, un aumento dell’utilizzo del potenziale di stoccaggio in sottosuolo fa parte anche di scenari diversi, nell’ambito delle politiche per la riduzione dei gas serra. Lo sviluppo di energie rinnovabili può essere infatti notevolmente favorito dalla possibilità di accumulare in sottosuolo combustibili sintetici derivanti da fonti rinnovabili (solare ed eolico), compensando così l’irregolarità intrinseca di queste fonti. Senza stoccaggi su vasta scala in sottosuolo di idrogeno, metano sintetico o di aria compressa (CAES), queste fonti di energia rinnovabile non potranno diventare una quota strutturale per la produzione di energia elettrica e le tecnologie di produzione distribuita non potranno essere efficacemente integrate. Inoltre, lo stoccaggio geologico di anidride carbonica (CCS) in strutture idonee nel sottosuolo, potrà contribuire sostanzialmente alla riduzione dei gas serra, anche se andrà a sovrapporsi ad altri utilizzi, già presenti, delle risorse del sottosuolo”.
Gli stoccaggi di anidride carbonica o di gas sintetici previsti da un nuovo mercato energetico dell’idrogeno dunque proseguono, indipendentemente dagli enormi rischi. Non può esistere transizione energetica se questa è la strada da intraprendere. Nella scelta di nuove fonti energetiche, anche rinnovabili e più pulite rispetto al carbone e al petrolio, bisogna tenere in considerazione la sostenibilità ambientale e sociale, e non si può aumentare il rischio di sismicità del nostro Paese pur di garantire determinate tecnologie energetiche.
In quest’ottica appare dunque significativo che in uno dei tanti studi sull’accettabilità sociale degli impianti di storage CCS si ragioni sul superamento del principio di precauzione. “Il tema delle politiche cautelative è molto attuale” si legge nel report “Public Acceptance e CCS” del RSE (Ricerca sistema energetico), marzo 2012, “e tuttora in ampia evoluzione a livello mondiale ed europeo, come evidenziato nei lavori dei workshop dedicati all’argomento. Di fronte alla frequente inapplicabilità pratica del Principio di Precauzione, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha sviluppato una strategia alternativa: il cosiddetto quadro di cautela (precautionary framework) entro il quale dovrebbero svilupparsi le politiche sanitarie. L’approccio è profondamente diverso dal principio precauzionale. Mentre questo richiede un minimo di evidenza scientifica di rischio per essere invocato, e uno maggiore per essere applicato, ilquadro di precauzione coinvolge ogni stadio del processo di valutazione e di gestione del rischio, tenendo in considerazione i dati scientifici e i fattori economici, sociali del caso specifico (tra i quali la sensibilità dei cittadini). La precauzione dovrebbe quindi diventare un principio guida nella gestione di ogni tipo di rischio. Non si pone l’obiettivo di annullare i rischi, ma di portarli a una soglia di accettabilità. Si introduce in questo senso un concetto molto innovativo: la soggettività della percezione (connessa all’accettabilità del rischio)”.
Quel che si vuole introdurre nell’opinione pubblica quindi è l’accettazione sociale del rischio, a cui sono legate le nuove tecnologie – e i profitti delle imprese che le portano avanti. Il richiamo al pericolo del cambiamento climatico, e al necessario periodo di transizione dal fossile all’energia pulita, crea uno Stato di Emergenza e di eccezione dove l’eccezionalità diventa tecnica di governo e paradigma costitutivo dell’ordine giuridico. La crisi climatica non può essere risolta all’interno del sistema capitalistico; occorre un modello economico basato sul rispetto dell’ambiente e della collettività.
1) Cfr. Enrico Duranti, Cambiamento climatico Kyoto e Cop 21: lo stoccaggio di CO2, Paginauno n. 52/2017
3) Cfr. Enrico Duranti, Sismicità indotta: un rischio concreto, Paginauno n. 53/2017