Sabrina Campolongo
Recensione de L’oscura sacralità della notte, Julia Glass
Le strade che ci portano a un libro possono essere lineari e consapevoli, come quando ci presentiamo in libreria il giorno dell’uscita del nuovo lavoro di uno dei nostri autori preferiti, o cerchiamo disperatamente un suo romanzo introvabile e ormai fuori catalogo (questo molto più spesso, nel mio caso); credo debbano anzi esserlo, sempre di più, mano a mano che la nostra maturità di lettori cresce e si consolida, sempre più rari dovrebbero essere i libri acquistati a scatola chiusa, attirati da un titolo particolarmente evocativo, da una quarta ben scritta, o da un generico sentito dire. Eppure a volte accade, e non sempre l’esperimento è destinato al fallimento (molto spesso sì).
Sono arrivata a questo romanzo di Julia Glass, autrice che non avevo mai letto prima, guidata da una doppia suggestione: un’intervista in cui lei diceva del suo libro e dello scrivere cose intelligenti e soprattutto vicine alla mia idea di letteratura, e un titolo davvero suggestivo, L’oscura sacralità della notte, ispirato dal celeberrimo pezzo di Armstrong, What a wonderful world (una sorta di preghiera di ringraziamento per la bellezza del mondo, tra le altre cose per “il giorno luminoso e benedetto e per le oscure sacre notti”). Affondando in questo monumentale romanzo vi ho trovato, oltre a una scrittura decisamente ricca ed efficace, tutto ciò che amo e al contempo quello che non apprezzo della letteratura americana contemporanea.
Partendo dagli aspetti benedetti e luminosi: la grandezza, gli spazi, geografici e narrativi, l’ambizione di creare un romanzo-mondo, un romanzo-vita in cui si dispiegano esistenze intere, nel caso specifico l’esistenza di una grande famiglia allargata che viene scomposta e ricomposta aprendo lunghi flashback per ripercorrere il passato dei personaggi. Il passato che è, evidentemente, per l’autrice, la materia stessa di cui sono fatti gli esseri umani.
Nelle prime pagine, uno dei protagonisti coglie il proprio “stupore per la capacità di esistere qui e ora” (il corsivo è dell’autrice), riflessione in cui non è difficile ritrovarsi (alzi la mano chi non ha mai realizzato solo a posteriori la perfetta felicità di un momento, rammaricandosi per non essere riuscito a coglierla in quel presente ormai perduto), ma che acquista un senso molto preciso nel romanzo stesso, dal momento che la trama ha origine dalla ‘reazione’ dell’Eroe – applicando lo schema di Propp, che ben si adatta alla vicenda principale – alla propria ‘mancanza’, un’’assenza’, che affonda nel passato, un passato così remoto che precede la sua nascita, così fatale da gettare un’ombra densa sul presente.
Il protagonista, l’Eroe come lo abbiamo chiamato, Kit, è infatti un quarantenne bloccato in una vita sospesa, come da una sorta di sortilegio, pur avendo cercato di costruirsi una posizione come storico dell’arte e insegnante, e pur essendo riuscito a formare una famiglia con Sandra e mettendo al mondo due gemelli. La paralisi si manifesta materialmente con l’incapacità di terminare un libro sull’arte primitiva degli Inuit (primitiva, quindi prestorica, non a caso) la cui stesura gli garantirebbe la conferma del prestigioso incarico di ricercatore universitario. Perso l’incarico, questa sua inerzia finisce per estendersi, nei due anni successivi, a tutti gli ambiti della sua vita, ostacolandolo nell’affrontare tutti i piccoli e grandi compiti della giornata, dal caricare la lavatrice al cercarsi un nuovo lavoro.
È Sandra, la moglie, che incarna il senso pratico (progetta giardini, legata quindi alla terra, alle radici), che non ha paura di guardare in faccia le verità più scomode, a dare un nome alla mancanza e a ‘cacciare’ Kit dal suo poco invidiabile Eden, una prigione di cui è al tempo stesso recluso e carceriere, spedendolo alla ricerca del proprio fantasma: il padre biologico mai conosciuto e di cui Kit non sa nulla. “Quando è più arrabbiato, Kit si sente come se Sandra avesse preso il desiderio che lui stesso prova di scoprire la verità, e con un atto di volontà lo avesse reso reale.” Il viaggio dell’Eroe, a questo punto, procede proprio come in una fiaba, con la ricerca di un Aiutante (dal momento che la madre di Kit, Daphne, si rifiuta ripetutamente di svelare la verità, lei è senz’altro l’Antagonista) che lo metta sulla buona strada, e che troverà nel padre adottivo Jasper.
Ci sono, di sicuro, una o più fate madrine, la nonna Lucinda o l’amico del padre Fenno, ma a questo punto occorre distaccarsi dallo schema di Propp che comincia a stare decisamente stretto a una trama che si infittisce di numerose vicende secondarie, e in cui, soprattutto, l’oggetto della ricerca comincia a sbiadire i propri contorni. L’identità del padre biologico di Kit non è infatti davvero mai un mistero per il lettore, e ben presto – dopo circa 200 pagine, ma comunque prima della metà del libro – viene rivelata anche all’interessato. Già all’inizio abbiamo incontrato il mortalmente affascinante Malachy, in un romanzo nel romanzo che narra del suo incontro con Daphne nel qui e ora ammantato di magia – ma anche di sottile disagio – dell’estate dei loro diciassette anni.
Non è quindi il segreto sul concepimento di Kit il centro del romanzo, come in una classica trama di mistero, ma piuttosto il modo in cui coloro che vi sono coinvolti sono venuti a patti con quel segreto. Daphne, legata all’acqua, come si vedrà, e alla libertà, come la ninfa di cui porta il nome, continua a difenderlo strenuamente; Lucinda, la madre di Malachy, che è stata costretta per amore del figlio a serbarlo, contro il proprio desiderio feroce di avere Kit nella sua vita – desiderio che ha sublimato impegnandosi in una fondazione per ragazze madri – ha conservato un posto per il nipote perduto in seno alla famiglia; Malachy ha seguito, si scoprirà, Kit da lontano, ma senza mai tornare, nemmeno sul letto di morte, sulla sua decisione di non essere padre.
Il segreto, quel pesante segreto, racchiude in sé simbolicamente tutti i piccoli e grandi segreti su cui si fonda la famiglia, tema che è senz’altro il cuore del romanzo. In case troppo grandi e vecchie, con troppi spifferi e perdite (nessuna relazione, per quanto costruita con cura, è una fortezza), dove si cucina troppo e si parla troppo, spesso senza saziare la fame di verità di nessuno, Julia Glass mostra che ogni famiglia, infelice a modo suo, certo, è anche afflitta dagli stessi problemi. Famiglie tradizionali e omosessuali, monogenitoriali e allargate sono perseguitate dagli spettri di inconoscibili trascorsi delle persone amate, erose dai dubbi su tutte le strade non prese, dai rimpianti reali e immaginari, terrorizzate da solitudini non scelte, dalla paura dell’abbandono, del tradimento.
Le sarebbe facile, a questo punto, arrivare ad affermare che il problema della famiglia è la famiglia stessa come istituzione, ma naturalmente – con reticenza molto americana – non lo fa, decidendo di superare le trappole, che pure sa piazzare bene in scena, in nome di una certa nobiltà d’animo di fondo, di sentimenti autentici anche sotto a intenzioni e azioni molto più sfumate, dell’istinto di protezione dei cuccioli che accomuna genitori biologici e non, etero e omosessuali, padri per scelta o per sventura. Memorabile a questo proposito è la scena di un pranzo del Ringraziamento angosciante, in cui ognuno è teso nello sforzo di interpretare la versione migliore di sé e in cui il sotterraneo, le meschinità, la rabbia sepolta, ribollono e chiedono di esplodere, mentre il tacchino si fredda.
Non salvo questo moralismo di fondo, così come non salvo alcune ridondanze che occupano pagine e pagine senza aggiungere nulla di davvero originale alla trama (la coppia Jonathan-Cyril, che non è che la copia slavata del prototipo di coppia gay upper class colta, già ampiamente rappresentata da Fenno e Walter, per esempio), un certo eccesso nelle descrizioni di pasti che finiscono tutti per assomigliarsi, di piatti e stoviglie e accessori decorativi; non salvo tutto questo, quindi, ma di certo mi inchino davanti alla complessità delle relazioni messa in scena da Julia Glass, alla sua cura nel limare ogni sbavatura sentimentale (se pur avrei auspicato la stessa cura nell’asciugare la trama), al distacco da chirurgo con il quale affonda il bisturi nelle emozioni dei personaggi svelandone le ambiguità.
Paradossalmente, solo Kit sembra non possederne. In questo senso incarna l’Eroe, decisamente è un puro, è un innocente. Non a caso, ci si rivolge spesso a lui chiamandolo ‘il ragazzo’, malgrado abbia superato i quaranta: congelato nella sua condizione di eterno figlio non riconosciuto (dal padre) benché fortemente amato (dalla madre), Kit è il bambino che educatamente chiede e aspetta, che sposta gli equilibri e riapre le ferite con la sua sola presenza, ma senza premeditazione, con l’egoismo puro e incolpevole dell’infanzia.
A lui si oppone solo Daphne, granitica e ammirevole nel rivendicare il suo diritto a serbare per sé il suo segreto, nel rifiuto di confrontare la propria verità con quella degli altri, nella sua volontà di non sottoporre la sua oscura, sacra notte, alla luce forse benedetta ma di certo spietata, del giorno. All’apparenza, è Kit a vincere, l’Eroe ritrova la famiglia del padre biologico che lo accoglie senza riserve, ma riconosce anche in Jasper, che l’ha adottato, l’unica vera figura paterna che abbia mai avuto e riesce persino a riavvicinare sua madre a tutti loro, eppure non c’è completa catarsi. Il romanzo si chiude con lui e Sandra in macchina, lei alla guida, lui che ancora si lascia sopraffare dalle emozioni mettendola senza motivo in apprensione, che ha trovato sì, un lavoro, ma grazie alla nuova sorella, mentre è Sandra che ha ricevuto una promozione meritata e che ha sostenuto il peso della famiglia per tutto il periodo in cui Kit si è messo alla ricerca delle sue origini, lei che si è presa la responsabilità delle decisioni.
Il nostro Eroe appare forse troppo debole e bisognoso di essere accudito per essere convincente, e sbiadisce al confronto con personaggi che si sono messi decisamente più in gioco, commettendo più errori, certo, ma con conflitti più profondi, soprattutto al confronto di Lucinda, la nonna paterna che ha spostato mari e monti, gravata più che supportata dalla sua morale cattolica, per tenere in piedi il suo mondo, anche dopo essere stata travolta dal dramma di avere perduto il figlio più amato.
Del resto, è un rischio che si corre, mettendo in campo così tanti personaggi e così profondamente caratterizzati, quello che il protagonista non risulti all’altezza. Peccato, perché alcuni tratti della sua personalità, il suo rapporto con l’Arte come forma di resistenza ai valori dominanti, per esempio, espressi in modo molto interessante nella prima parte, vengono superati dagli eventi e infine trascurati.
Mi piace chiudere con una di queste riflessioni, uno dei doni che serberò di questo incontro – collisione direbbe Malachy – con il mondo di Julia Glass. “La fonte maggiore di meraviglia per Kit era il modo in cui l’artista, impiegando ora dopo ora il suo tempo nella creazione di questo oggetto, si stava effettivamente sottraendo alla forza di gravità – una gravità più scaltra della forza elementare che ti fa precipitare giù da una montagna.”
L’oscura sacralità della notte, Julia Glass, Nutrimenti, 2015
(traduzione di Dora di Marco)