di Massimo Battisaldo e Paolo Margini
Il contesto storico e politico, nazionale e internazionale, nel quale si sviluppa il ‘partito armato’ in Italia, dalla viva voce di chi ne ha fatto parte
Il famoso ’68, che in Italia si estese soprattutto al ’69-70, se valutato col senno del poi, tra i tanti cambiamenti generati ne apportò uno ben più importante, in termini storici, rispetto a tutti gli altri messi assieme: la liberazione de facto delle donne dall’asservimento patriarcale che perdurava da centinaia di anni. La famiglia esplose: i giovani e le giovani ventenni se ne andarono di casa per non tornare, e ben poco rivelarono ai genitori del tanto che andavano facendo. La scuola, che fino ad allora era stata tra i pilastri del patriarcato, strutturata per avere tre tipi di prodotti – pecore un po’ istruite, scimmie parlanti e dominatori – crollò nel giro di un anno, svuotando di autorità gli insegnanti, tra i quali proprio i più tirannici vennero di fatto buttati fuori dagli edifi ci. Nei caldi movimenti assembleari fu evidente che le donne potevano essere quanto gli uomini per numero e volontà. Nelle fabbriche successe la stessa cosa: la miriade di donne che già lavorava in ogni industria, visto il vantaggio degli imprenditori a pagare salari più bassi, trasformò l’autonomia economica in autonomia esistenziale.
Cambiarono quasi di colpo anche i rapporti, che furono segnati da una nuova franchezza in entrambi i sessi e tra ceti diversi. Non esistevano più comportamenti sanzionabili a priori: quattro ragazze, o anche una sola, potevano salire in macchina e andarsene in giro la sera, per stare in compagnia e divertirsi, come gli uomini avevano sempre fatto e le donne, fino ad allora, mai.
Se paragoniamo questa ad altre conquiste dello stesso ’68 e dintorni, come lo Statuto dei lavoratori, notiamo come quel risultato scaturito dalla forza operaia venga dopo soli quarant’anni seriamente messo in discussione, sia soggettivamente dal padronato, sia oggettivamente dalla crisi nei settori produttivi primario e secondario, causata dallo spostamento dell’industria nei Paesi con salari e condizioni di lavoro infimi; le conquiste del femminismo, invece, pur essendo tutt’altro che compiute, sembrano essersi maggiormente radicate nella società e resistere più di altre al trascorrere del tempo.
Anche la cultura registrò passi avanti. Divenuta di massa, generò in una classe fino ad allora contenuta, il proletariato, nuove e più sofisticate esigenze: autonomia abitativa e di trasporto, ferie e viaggi, tempo libero, letture, musica, tv a colori e porta blindata per proteggere i nuovi beni conquistati; migliorò anche la copertura sanitaria, infortunistica e previdenziale, oggi messe sotto attacco.
Il lascito di quell’epoca comprende dunque alcuni aspetti positivi e consolidati e altri che con gli anni si sono arenati, o che ora vengono sottoposti a dura critica. Tuttavia coloro che oggi criticano quel periodo storico sono stati avvantaggiati proprio dalla situazione complessiva che in quegli anni si era creata, dal fatto che una moltitudine di persone con nuove idee andò a scalzare posizioni fino a quel momento ritenute irremovibili.
La scossa partì dalle case, dalle scuole e dalle fabbriche, pervase l’Italia intera e mise in discussione ogni aspetto della società: i poteri ufficiali vennero a mancare perché abbattuti o disattesi, e nel vuoto venutosi a creare sorse ed ebbe qualche permanenza il potere assembleare, nel cui circuito vasti strati di giovani si mescolarono ai meno giovani per ricavare esperienza, per poi unirsi e dividersi secondo i temi politici di destra e sinistra; uomini e donne si incontrarono, sempre più alla pari.
Tutta la politica successiva, compresa l’estrema destra e il centro clericale, dovette attingere prima o dopo ad almeno qualcuno dei valori espressi in quel mutamento, pena l’estinzione per arcaismo. Ma il vuoto, come ben si sa, fu riempito soprattutto e moltissimo dalla sinistra, al punto che oggi il ’68 si identifi ca tout court con il prevalere della sinistra ed è in tal senso celebrato o denigrato a priori in qualsiasi discussione.
Il quadro internazionale
L’inizio del cambiamento può situarsi in un decennio prima: nel 1959, tramite una rivoluzione, la grande isola di Cuba era divenuta uno Stato socialista o comunista che dir si voglia, sotto la guida di personalità come Fidel Castro ed Ernesto Guevara, che sfoderavano un’immagine giovanile, popolare e assai romantica, in un periodo in cui già esisteva la grande comunicazione audiovisiva di massa. Per l’immaginario Cuba rappresentava Davide che tiene a bada il Golia americano, pur col supporto dell’orso sovietico; per gli Stati Uniti rappresentava una spina nel fianco reale e non metaforica, vista la poca distanza geografica tra l’isola e il loro territorio; per i sovietici rappresentava un enorme colpo di fortuna, perché portava la loro egemonia a ridosso della potenza nemica; per i comunisti dei Paesi non comunisti rappresentava un fatto molto interessante che apriva nuovi orizzonti: per la prima volta una vittoriosa rivoluzione chiaramente comunista e proletaria era avvenuta non in tempo di guerra, ma perdurando la pace, dimostrando che una rivoluzione pura era possibile.
C’era tuttavia il problema della tenuta, che fu messa alla prova dapprima nel 1961 col fallito tentativo americano di sbarco nella Baia dei Porci, e poi l’anno successivo con la ‘crisi dei missili’, quando alcune navi mercantili russe dirette verso Cuba con un carico di ordigni nucleari furono bloccate dalla marina americana, e il mondo corse il rischio che la guerra, da fredda, divenisse calda. La decisione dei sovietici di ritirare le navi fece rientrare la crisi e alla fine avvantaggiò Cuba, poiché dichiarando di voler bloccare le navi nel caso trasportassero armamenti, gli Usa ammisero implicitamente che avrebbero consentito la libera navigazione per qualsiasi altro tipo di carico, riconoscendo de facto il governo di Cuba; riconoscimento che pur tra mille difficoltà e in vari modi è perdurato fino ad oggi, assieme alla figura del suo leader.
Dieci giorni prima della crisi dei missili era uscito a Londra il primo disco dei Beatles, che coi Rolling Stones diedero inizio all’invasione britannica, con ciò intendendosi il flusso del nuovo rock prima dall’Inghilterra all’America e poi a tutto il mondo. Un’espressione musicale che fu il più forte evento artistico del secolo, travalicò le barriere e fu l’anticipatrice della globalizzazione buona, oltre a diventare la colonna sonora di una gran parte dei movimenti di liberazione e di sinistra. Alla luce della maggior parità nordica, assieme alla nuova musica arrivò l’evoluzione dei costumi sessuali e dei canoni estetici, e per la prima volta, grazie alla diffusione commerciale e ai prezzi accessibili, l’avanguardia artistica fu alla portata delle masse.
Il risvolto negativo fu rappresentato dal parallelo e connesso avvento della droga, che cominciò ad avere una diffusione spaventosa in ceti e masse che ne erano stati fino ad allora esenti.
Nell’estate 1964 ebbe inizio l’intervento diretto degli Usa in Vietnam, che sarebbe durato nove degli undici anni di quel conflitto. Assorbì sempre più soldati americani, con molte perdite in vite umane, generando il più grande malcontento mai visto negli Stati Uniti, la cui popolazione riuscì a costringere il governo al ritiro militare attraverso una miriade di manifestazioni e lotte di cui solo una parte è trapelata oltreoceano. La prima rivolta studentesca esplose a Berkeley, in California, nell’autunno 1964, in nome del diritto degli studenti di poter parlare liberamente contro il governo e contro la guerra del Vietnam all’interno della scuola. Tra i diversi movimenti che si svilupparono negli anni successivi, oltre ai pacifisti, si ricordano il Black Power, i Black Panther, il movimento di liberazione della donna, il movimento dei gay, gli hippie, i freak. Nel 1968 queste e altre componenti vennero alla ribalta a Chicago dove contestarono duramente la convention del Partito Democratico. Ma a quell’epoca erano già avvenuti la primavera di Praga e il Maggio francese.
Un forte impulso alle idee rivoluzionarie venne dal Sud America, lo sfortunato continente sul quale si erano abbattuti nella forma più cruda il capitalismo e l’imperialismo americano. Dal 1968 le risposte arrivavano soprattutto dal movimento guerrigliero dei Tupamaros in Uruguay e dal Cile del socialista Allende. I colpi di Stato che furono organizzati per annientare di volta in volta il rischio della diffusione della democrazia o del socialismo nel continente produssero una lotta particolarmente feroce da ambo le parti. Già nel 1967 un tentativo rivoluzionario in Bolivia era finito con l’uccisione del leggendario comandante Che Guevara, che aveva rinunciato alle lusinghe del potere nella vittoriosa Cuba per tornare alla lotta, e che morendo in quel modo divenne ispirazione e riferimento politico-militare in tutto il mondo per giovani rivoluzionari e per interi movimenti. La sua immagine stilizzata è forse il simbolo politico che è stato sovrapposto a più bandiere.
Da un altro continente giungeva la rivoluzione culturale cinese i cui principi, raccolti nel maneggevole libretto rosso dei pensieri di Mao Tse Tung, venivano sventolati alle manifestazioni in luogo delle bandiere. Nei partiti comunisti occidentali e nelle organizzazioni collegate, come i sindacati, parte dell’opposizione interna tendeva a svincolarsi dall’ortodossia sovietica, defi nita revisionista perché rinunciataria rispetto alla rivoluzione mondiale, e ammetteva che la bandiera rossa slittasse ormai verso la Cina.
Tra i militanti della sinistra anche rivoluzionaria il Vietnam fu comunque il collante più forte, perché contava di più la lotta antiamericana che l’appartenenza del Nord Vietnam alla sfera sovietica piuttosto che cinese. La protesta contro la guerra si estese a tutte le nazioni del blocco occidentale, alzando ovunque le quotazioni dei movimenti di sinistra, creando continuo dibattito nei mass media, coinvolgendo il mondo artistico e culturale nel suo insieme, penetrando nel sistema produttivo, e quindi nelle fabbriche, che a quel tempo erano ancora la colonna portante dell’Occidente e la sede privilegiata di una intera classe sociale: il proletariato.
Il 1968 registrò il culmine internazionale, con rivolte studentesche in Europa e in America. Simbolo dell’epoca rimane il Maggio francese, dove si codificarono modalità, finalità, tattiche, dinamiche, valori estetici, segni grafi ci, parole d’ordine, così come in seguito si sarebbero visti e sentiti ovunque ci fosse stato un regime assembleare, un servizio d’ordine, una dimostrazione, un’occupazione o una barricata. Il movimento degli studenti francesi, per radicarsi, cercò senza riuscirci un collegamento stabile con la classe operaia, e quindi, pur avendo prodotto un fatto politico importante come il temporaneo allontanamento del presidente De Gaulle, finì dopo appena un mese. In Italia la contestazione studentesca cominciò più tardi ma trovò, almeno in parte, il collegamento con la classe operaia; e fu proprio per questo che in Francia il Maggio durò un mese, mentre in Italia dieci anni.
Il quadro italiano
Se nel 1959 c’era stata Cuba, in Italia nel luglio 1960 era da tre mesi al potere un governo monocolore della Democrazia cristiana con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano, partito apertamente neofascista. Quest’ultimo aveva scelto Genova come luogo del suo congresso nazionale, proprio perché era una roccaforte del Pci. Avvennero forti scontri e la lotta si estese all’intero Paese, registrando i risvolti più tragici il 6 luglio a Reggio Emilia, dove la polizia sparò coi mitra sui manifestanti uccidendone cinque: quatto erano operai, uno era un pastore, tre erano anche ex partigiani effettivi. Avevano 41, 39, 36, 22 e 19 anni. I due più giovani facevano parte di quella generazione che nel ’70 sarebbe stata trentenne e avrebbe fornito al Movimento i maestri.
Le dimissioni del governo a seguito dei fatti sanguinosi convinse la Dc a cambiare strategia, mettendo in atto il precedentemente ripudiato avvicinamento al Partito socialista, tradizionale alleato del Pci su molti temi. Nel progetto di Aldo Moro questo significava che in futuro la Dc avrebbe potuto convergere un poco a sinistra, se avesse riscontrato nel Pci la volontà di convergere un po’ a destra.
Tale processo non fu affatto lineare, ma ebbe inizio con l’ingresso del Psi nell’area governativa centrale e periferica. Una zona che il Psi non abbandonò più, fino ad arrivare a essere presente, in alleanza con il Pci o congiuntamente alla Dc, in tutte le giunte del Paese, oltreché nel mondo sindacale e culturale. Il partito socialista si ritrovò quindi ad avere il quadro più completo della situazione e del flusso economico, in un momento storico in cui, all’interno dei partiti, i problemi ideologici venivano scavalcati dai problemi finanziari, dalla ricerca del denaro necessario a sviluppare gli apparati.
L’industria aveva avuto, dalla seconda metà degli anni ’50, quell’impulso che generò il boom del quinquennio successivo. Lo svecchiamento dei costumi e la maggior circolazione di denaro trasformarono anche l’Italia in una società dei consumi, creando quei consumatori di massa di cui ha bisogno un’industria di massa: tali divennero gli stessi proletari, impegnandosi con pigne di cambiali, ma garantendosi l’automobile e la lavatrice. Allo stesso tempo fu incentivata una forte migrazione interna dal sud al nord Italia, per rispondere alle necessità delle fabbriche di nuovi operai a basso costo; tutto questo favorì la nascita di famiglie e discendenze miste, creò una nuova tipologia di italiano e anche una nuova tipologia di militante, di quadro politico e sindacale, di antagonista.
Ciò portò a un rafforzamento della sinistra in genere, del Pci, delle confederazioni sindacali, ma generò anche una frattura, perché gli operai delle grandi fabbriche erano in grado di tutelarsi maggiormente rispetto a quelli delle piccole e piccolissime, che erano tuttavia le imprese cresciute maggiormente e i cui padroni traevano i propri profitti sottopagando e super producendo e non tenendo in alcun conto misure sanitarie e di sicurezza. Un fattore che fu importante nello sviluppo della sinistra extraparlamentare, che trovò terreno fertile per lotte più radicali anche e proprio in queste situazioni lavorative, sviluppandosi successivamente anche fuori dalle fabbriche con lotte nei quartieri e occupazioni di case. Gli operai immigrati dal sud si unirono agli operai del nord, in quel grande ciclo di lotte per i contratti e per lo Statuto dei lavoratori che veniva assumendo quel livello di conflittualità che gli operai erano tradizionalmente bene in grado di sviluppare e allargare.
Contemporaneamente le università erano in agitazione, venivano occupate anche per lunghi periodi. La piazza rispecchiava ed era anzi la vetrina pubblica e il luogo dello scontro: cortei sindacali di operai, che rappresentavano anche e ancora la forza del Pci, e cortei dei gruppi extraparlamentari in via di formazione o già consolidati; rifiuto di sciogliere assembramenti e picchetti; scontri. Gli slogan più diffusi: “Lo stato borghese si abbatte e non si cambia, padroni, borghesi, ancora pochi mesi”, mentre in fabbrica si scandiva: “Mirafiori – sarà – il nostro – Viet-nàm”.
La parte extraparlamentare apparve più viva e ardita. Le critiche portate al Pci erano di revisionismo, ovverosia di rinuncia alla linea rivoluzionaria e di adattamento al quadro internazionale. In effetti nel 1966 era avvenuto un fatto storico: la Fiat aveva annunciato l’accordo con l’Urss per costruire in terra sovietica uno stabilimento per produrre automobili. Detto in altri termini: la più grande fabbrica di una nazione capitalista, alleata agli Stati Uniti a quel tempo in guerra contro il Vietnam, forniva al rivale degli Stati Uniti e alleato dei nord vietnamiti l’intera tecnologia di una produzione di massa e di pace: anche l’Urss voleva entrare nella società dei consumi. Nell’accordo il Pci e il sindacato avevano avuto una parte secondaria ma dovettero accettarlo, e di conseguenza limitare il portato delle proprie rivendicazioni.
La cosa irritò parecchi di quelli che, non ancora cinquantenni, avevano avuto parte attiva nella Resistenza e nelle successive lotte operaie, e che già covavano il risentimento di una rivoluzione tradita. Ciò lasciò vasto campo alla fascia extraparlamentare che si stava formando e in cui confluivano giovani ardenti e militanti istituzionali delusi, e dove tutti gli intellettuali e studiosi di sinistra del precedente periodo vedevano il possibile avverarsi delle proprie teorie e rielaborazioni del materiale classico marxista-leninista.
Il mondo culturale e artistico, già pullulante di ribelli perché la nuova arte è sempre sovversiva, fu rapidamente conquistato e a sua volta si fece megafono attraverso le proprie espressioni, soprattutto cinematografiche e musicali, coinvolgendo i più grandi artisti e registi, e contribuendo a portare il messaggio anche nei luoghi più isolati o refrattari.
Piazza Fontana
Fu nel quadro di cui queste righe non possono che essere un povero riassunto che avvenne il fatto che innescò tutta la fase successiva: la bomba nella Banca nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana, a Milano (diciassette morti), la caccia agli anarchici, la morte di Giuseppe Pinelli, caduto dalla finestra della questura. La nascita della strategia della tensione.
La sinistra insorse ovunque in Italia, in uno straordinario sforzo per liberarsi da una falsa accusa propagandata da tutti i giornali e telegiornali. Nulla più dello smascheramento della strategia della tensione valse ad aumentare i ranghi della sinistra militante, e una originaria solidarietà verso il movimento anarchico ingiustamente accusato si tradusse nel passaggio di molti dal campo genericamente democratico, progressista, laico o cattolico a quello marxista e comunista, affrettando e consolidando per un decennio quelle organizzazioni extraparlamentari che giunsero ad avere decine di migliaia di militanti mobilitabili; organizzazioni che ritenevano di essere ciascuna il nucleo del futuro partito o movimento rivoluzionario, e pensavano che a una rivoluzione prima o poi si sarebbe dovuti arrivare; nel frattempo limitavano l’uso della violenza agli scontri di piazza, che erano una necessaria contrapposizione allo Stato, e alla lotta contro i gruppi fascisti, avendo individuato in quella direzione il serbatoio ove lo Stato attingeva per le proprie oscure manovre.
L’inizio della lotta armata
La sequenza degli avvenimenti finora elencati rappresenta un andamento classico e, per continuare, si potrebbe essere portati a pensare: dallo sviluppo dei movimenti extraparlamentari nacque poi la lotta armata. Non fu così. Cinquanta giorni prima della strage di piazza Fontana era già stato costituito a Genova il gruppo 22 Ottobre, che operò tra il 1970 e ’71 con attacchi politici e autofinanziamenti.
Subito dopo piazza Fontana, nella primavera del 1970, si formarono a Milano i Gap, e nello stesso anno da qualche parte in Emilia un gruppo ristretto di persone decise di formare un’organizzazione combattente, che diventò poi le Brigate rosse. Delle tre formazioni, due decaddero ben presto, ma la terza si trovò nel giro di pochi anni alla guida di tutto il processo di sviluppo della lotta armata, che quindi nacque come frammento appartato nella galassia dell’ultrasinistra, fin da subito clandestino per motivi militari, ma rigorosamente interno alle sue logiche per quanto riguarda la preparazione politica e le modalità di discussione della linea da tenere.
Linea era infatti il nome dato nel Pci e in tutte le altre organizzazioni alla strategia politica ufficiale che i militanti erano tenuti a seguire. La ricerca della giusta linea portava a confl itti tra leninisti, stalinisti, trozkisti, bordighisti, maoisti, che si accusavano l’uno con l’altro e soprattutto, secondo un dettame che risale a Robespierre, quelli più a sinistra di loro stessi. Le accuse erano via via di economicismo, spontaneismo, avventurismo, provocazione, fascismo o di essere agenti della reazione, magari inconsulti e manovrati, o addirittura pagati. Come tali, all’inizio, vennero frettolosamente liquidate, non solo dal Pci ma anche nel Movimento, le sfortunate esperienze della ‘banda’ 22 ottobre e dei Gap. Le Brigate rosse furono inizialmente trattate nello stesso modo, ma poi le valutazioni cambiarono e divennero positive.
Le prime operazioni militari importanti portate a termine dai brigatisti, i sequestri di capi e dirigenti industriali, furono tutte gestite nel segno del giustizialismo esemplare: cattura, interrogatorio e gogna, oppure rilascio mediatico di un prigioniero quasi convertito. Elementi che ebbero una grande presa fuori e dentro le fabbriche, e molti approvarono: “Finalmente!”. Fu così che cominciò l’afflusso di militanti verso quella prima organizzazione combattente, che nel tempo avrebbe avuto addirittura problemi di eccesso di richieste, costringendosi a una rigorosa selezione, ben sapendo che quando i tempi sono facili tutti accorrono, mentre il vero militante deve saper affrontare il futuro più duro.
La lotta armata non nacque quindi all’interno dei gruppi extraparlamentari, ma il flusso direzionale fu, per convincimento, dal Movimento all’organizzazione già precostituita. Il Pci fu fortemente avverso fin dall’inizio, e non volle mai, come era ovvio per la sopravvivenza del suo stesso programma politico, dare patente di legittimità di sinistra, pur anche contestandone le azioni, alle Brigate rosse, né in seguito a tutte le altre formazioni che si costituirono e operarono nell’ambito di quello che fu chiamato il ‘partito armato’. Il contrasto col Pci ebbe poi a crescere, parallelamente al contrasto del partito armato con le istituzioni del capitalismo, e non fu secondario, come si ebbe a vedere durante e dopo il rapimento di Aldo Moro.
La divaricazione tuttavia non si presentò come un taglio netto fin da subito, perché una cosa è il Pci e una cosa sono i militanti del Pci. Nei primi anni parecchi furono i collegamenti tra compagno e compagno; inoltre anche la critica antirivoluzionaria può andare a bassa velocità quando la base incontra la base e ci si vede come compagni di lotta, di cultura e di tradizioni. In più tale critica doveva tenere conto dei rapporti di forza, per cui anche se un’organizzazione combattente veniva messa all’indice nella generalità, pur tuttavia qualche suo segreto aderente o manifesto simpatizzante riusciva il più delle volte a essere legittimamente ammesso nella particolarità di una situazione, per esempio come delegato in fabbrica.
Questi collegamenti, personali e politici, vennero presto affievolendosi; gli ultimi grandi momenti di coesione emotiva coincisero con le elezioni comunali del 1975, che videro l’exploit del Pci, e con quelle politiche del 1976, quando per un attimo la sinistra sperò di poter diventare maggioranza nel Paese. Dall’anno successivo la separazione, anche nella base, poté dirsi definitiva…