Stavolta mi tocca scrivere di due persone morte nello stesso giorno. Non vado in giro a spulciare i necrologi, beninteso. È solo che la sproporzione degli spazi talvolta mi irrita. Dunque, per quanto posso, riporto i piatti della bilancia a equilibri che reputo più giusti.
Prima considerazione, a poche ore dalla morte di Steve Jobs: vedi cosa succede a essere statunitensi nel midollo e a non volere e/o non riuscire a cambiare, per quanto uno studi filosofie orientali e si sforzi di tenere la mente curiosa, aperta, creativa e anticonformista. Succede che quando il mondo dell’informatica è ancora dominato da menti con visioni ristrette, il primo studente anticonformista e un po’ fricchettone con una mentalità aperta può fare la differenza, e la fa senza troppi sforzi. La genialata di Jobs – la più grossa – è l’ideazione del mouse. Il resto sono invenzioni di oggetti bellissimi e che consentono un utilizzo ‘diverso’ dal solito: l’Apple II, il Macintosh, l’iMac, l’iPhone, l’iPod e l’iPad e poi – notate, siamo sempre nell’ambito delle forme – la grafica asciutta e iperusabile (frutto dei suoi studi da giovane drop out in calligrafia), la genialità delle animazioni Pixar, il multitouch di un iPhone o di un iPad che aboliscono i pulsanti del telefono e la tastiera del computer.
Se a voi tutto questo basta per dire che la Apple vi ha cambiato la vita, padronissimi di farlo. Sarò snob, ma le lacrime degli utilizzatori, tutti con in mano i loro bellissimi e costosissimi oggetti, mi fanno rabbrividire.
Primo: sono della generazione che faceva fatica a reperire certi contenuti, che trovavo citati in bibliografie ma risiedevano in volumi posseduti da biblioteche assai lontane. Ringrazio infinitamente internet perché il più delle volte adesso li trovo in rete senza bisogno di fare chilometri.
Avere un bell’oggetto per consultare questi materiali è un di più che non mi cambia la sostanza della vita. E poi, francamente, spendere vagonate di soldi per averli, quegli oggetti, e sapere che nelle fabbriche in Cina dove li producono ogni tanto si suicida un operaio per disperazione, è un deterrente che basta e avanza. Né mi risulta che Jobs abbia cambiato regime in materia.
Secondo: il computer è un affare che funziona sulla base di ‘insiemi di regole o direttive atte a fornire una risposta specifica a uno o più dati in input’, detti più prosaicamente algoritmi. Per chi non lo sapesse, il nome deriva dal matematico persiano Abu Ja’far Muhammad ibn Masa al-Khwarizmi (825 d.C.), che visse ed esercitò a Baghdad e che è il responsabile dell’introduzione nel mondo arabo dei numeri indiani. Levate di mezzo gli algoritmi e il computer sarà muto, che si chiami Apple o che sia un bastardo assemblato dal nerd amico di vostro figlio. Alla fine degli anni ’80, quando l’India (che già bussava da un pezzo alla porta del G7) chiese agli Usa di acquistare uno dei super computer Cray, lo Zio Sam rifiutò col pretesto che non si fidava degli indiani come possibili sviluppatori di armi atomiche. Detto fatto, visto che la matematica e lo zero sono nati in India e che i migliori matematici (e hacker) del mondo sono indiani, il governo li richiamò da dovunque essi fossero per mettere in pratica un’idea semplicissima: far lavorare assieme tanti calcolatori piccoli visto che uno grande non si poteva comperare già bell’e fatto. Il problema del ‘come dialogare’ venne brillantemente risolto, per l’appunto, con la creazione di nuovi ed efficientissimi algoritmi. Gli stessi che vedete scorrere verde su nero in molte scene di Matrix: sono loro la realtà su cui è costruita l’intera struttura di realtà fittizia e sono loro che appaiono nel corpo di Mr. Smith quando finalmente Neo ‘vede’ di cosa è fatta quella che sino a quel momento pensava fosse la realtà: algoritmi.
Dunque la realtà che mi interessa è questa. Non so cosa farmene delle belle forme di Mr. Jobs. Soprattutto se dietro c’è un’idea ferocemente proprietaria e che fa francamente a cazzotti con lo spirito libertario originario. Ma tant’è, Jobs è americano fino in fondo, e non mi stupisce che la sua Apple stia da tempo tentando la scalata al mercato della musica, fruita per giunta (in perfetta integrazione economica verticale) coi suoi strumenti.
Per chi non lo sapesse quattro grandi Corporation si stanno annusando per scannarsi e/o mettersi d’accordo su come spartirsi il mercato dei contenuti: Apple (il più grande negozio musicale al mondo, circa 15 milioni di brani posseduti), Amazon (il più grande mercato mondiale dei libri), Facebook (la più grande piazza virtuale di scambio informazioni personali e non del pianeta) e Google (ha in progetto di fagocitare e digitalizzare intere mega-biblioteche nazionali come quella del Congresso in Usa). Apple è concorrente pari grado, e dunque suona come moneta fasulla il motto ‘stay hungry, stay foolish’, quando la curiosità e l’inventiva sono ammissibili solo se servono a vendere meravigliose scatole tecnologiche.
Se a questo aggiungete che il parto postumo della California fricchettona è il Cloud computing, cioè il fatto che in futuro potrete tranquillamente spostare i contenuti del vostro computer su un qualche server americano ‘tra le nuvole’ senza necessità di portarveli dietro, saprete di avere abdicato a qualunque residua idea di privatezza e che vi porterete dietro, per l’appunto, una bellissima scatola vuota. Miglior conclusione non sapevo aspettarmi da Jobs, che a chi gli chiedeva quale fosse stata la ricerca di marketing preliminare al lancio dell’iPad, ha risposto: «Nessuna, non è il lavoro dei consumatori sapere quello di cui hanno bisogno». Brrrrrr…
Il resto di queste note è invece dedicato all’amorevole memoria di un sommo e inarrivabile musicista girovago e che sarebbe un insulto definire fricchettone, stante le riflessioni precedenti. Parlo di e invito a (ri)ascoltare Bert Jansch, classe 1943, scozzese di Glasgow, che se n’è andato lo stesso giorno di Steve Jobs, ma che nessuno ha pensato di celebrare. Si dirà: non ha cambiato la vita di milioni di persone.
Risposta: ha cambiato la mia, e tanto mi basta. Ascoltai Rosemary Lane, suo vinile storico del 1971 (un anno sbalorditivo per tutta la musica) a casa di un amico che mi aveva spalancato le porte del folk-blues delle isole britanniche e fu amore a primo ascolto.
Jansch è doppiamente importante. Come chitarrista e compositore di ascendenza folk ha influenzato orde di musicisti acustici successivi, a cominciare da Donovan, Nick Drake, Paul Simon per finire con Neil Young, con cui è andato in tour nel maggio 2010 e che lo ha generosamente omaggiato definendolo “il Jimi Hendrix della chitarra acustica”.
Sul versante del blues, dato che Jansch si era doverosamente studiato dei pilastri del blues nero come Big Bill Broonzy e Brownie McGhee (ma anche pilastri del folk bianco Usa come Pete Seeger e Woody Guthrie), ha avuto generazioni di allievi dichiarati per trent’anni. È grazie a lui, tanto per dirne una, che Jimmy Page impara a suonare la chitarra acustica con lo stile fingerpicking, che ascoltate in molti album (specie il terzo) dei Led Zeppelin e in particolare in Black Mountain Side sul primo LP, rifacimento orientaleggiante (cambia anche l’accordatura da D-dropped a DADGAD) di un brano tradizionale nordirlandese trasmesso dalla folk singer Anne Briggs a Jansch, da questi a Al Stewart e da questi al giovane sessionman Page. Anche se a diventare ricco e famoso è solo Page (essendo un traditional non si poteva sostenere che Page avesse plagiato Jansch) rimane il fatto che questi abbia sempre riconosciuto almeno la grandezza di Jansch affermando: “Ero totalmente ossessionato da Jansch: quando ascoltai il suo primo disco, nel 1965, non potevo crederci. Era inarrivabile, nemmeno in America esisteva qualcuno tanto bravo quanto lui”. Altri allievi e ammiratori sono stati (sorprendentemente ma non troppo) Johnny Marr, Graham Coxon e Pete Doherty, col quale aveva collaborato nel 2007 suonando su The lost art of murder, brano conclusivo di Shotter’s nation dei Babyshambles, e infine Coxon dei Blur, che ha affermato: “Non sono bravo come lo era lui, sono solo un suo grandissimo fan”.
Non starò a spiegarvi i dettagli della tecnica con cui Jansch ‘strappava’ le corde più che pizzicarle. Posso invece dirvi che aveva l’attitudine di ‘piegare’ i tempi della musica al ritmo interno delle parole, da vero poeta – come avviene in The First Time Ever I Saw Your Face di Ewan Mac-Coll, che ondeggia spesso da un 4/4 a un 3/4 e persino a un 5/4. Stessa storia anche per diversi brani col suo gruppo storico, i Pentangle: Light Flight (da Basket of Light) include sezioni in 5/8, 7/8 e 6/4.
Sono oramai leggende che appartengono a un altro mondo e un altro modo di fare musica le sue vicissitudini come giovanissimo guardiano notturno di un club dove dormiva in cambio della possibilità di esibirsi, il periodo passato a fare l’infermiere part-time, il lungo vagabondare come musicista di strada tra 1963 e 1965 con la sua prima giovanissima moglie tra Italia e Nord Africa… fino al casuale incontro a Londra con l’ingegnere del suono Bill Leader, che gli registrò al volo un nastro e lo fece ascoltare ai responsabili della Transatlantic Records – da cui il suo primissimo album omonimo del 1965.
È oramai leggenda la serie di amicizie con musicisti del giro londinese come Roy Harper, Davey Graham e soprattutto John Renbourn, col quale costruì il gruppo più importante del folk-blues britannico, i Pentangle, assieme alla cantante Jacqui McShee e al bassista Danny Thompson e al percussionista Terry Cox. A me sono rimaste più impresse le sue performance solitarie di album come It don’t bother me e Birthday blues ma soprattutto il già citato Rosemary Lane del 1971. È un album che invito ad ascoltare attentamente per il raro equilibrio di innovazione e tradizione assoluta, per l’uso accorto delle voce sospesa tra rimpianto, dolcezza amorosa e colloquiali riflessioni sul senso delle cose, e per la straordinaria capacità di personalizzare qualunque cosa suonata: da brani classici (una Sarabanda di Corelli) a vecchissimi traditional come Reynardine sino a capolavori assoluti come Alman di Robert Johnson (non il bluesman, beninteso, ma il compositore rinascimentale) tratti dal Libro dei Virginali Fitzwilliam.
Bert Jansch, Rosemary Lane, Transatlantic Records, 1971