Le radici del partito che ha riscritto la Costituzione ungherese
Da alcuni anni diversi politologi hanno notato un fenomeno particolare: da una parte i partiti populisti di destra virano al centro, entrando in coalizioni di centrodestra, dall’altra si assiste a un graduale slittamento verso posizioni nazional-populiste dei partiti centristi. È il caso del Fidesz di Viktor Orbán, movimento ungherese un tempo nel Partito popolare europeo, che da centrista è diventato poco per volta un soggetto politico europeo di taglio ultraconservatore, guardato come possibile modello da certi partiti nazional-populisti.
Lo slittamento a destra dei popolari europei
Il processo di slittamento a destra del Ppe è iniziato gradualmente negli anni ’80. Nel 1976 i partiti di ispirazione democratica cristiana nel Parlamento europeo – che all’epoca era un’assemblea consultiva di parlamentari nominati dai Parlamenti nazionali degli Stati membri, senza poteri legislativi – si raggrupperanno in quello che sarà il Gruppo democratico cristiano, che unirà chi si rifarà all’azione di statisti europeisti e democristiani come Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schumann. Fra loro spiccheranno gli italiani della Democrazia cristiana (Dc), i tedeschi evangelici della Christlich Demokratische Union (Cdu) e i regionalisti cattolici bavaresi della Christlich-Soziale Union (Csu) (1), i francesi del Centre des démocrates sociaux (Cds), i belgi germanofoni del Christlich-Soziale Partei, i cattolici del Katholieke volkspartij (Kvp), gli evangelici della Christelijk-historische unie (Chu) e dell’Anti-revolutionaire partij (Arp) che confluiranno tutti e tre, nel 1980, nel Christen-democratisch appèl (Cda) per l’Olanda, i lussemburghesi del Partito Cristiano Sociale e gli irlandesi del Fine Gael, tutti moderati, centristi, favorevoli all’etica cristiana (non necessariamente cattolica, visto che in Germania coabitano evangelici e cattolici), al rispetto della proprietà privata e alla sussidiarietà, ma non necessariamente al neoliberismo (si pensi alla Dc, che costruirà il welfare in età repubblicana in Italia), ma soprattutto europeisti.
Le cose però cambieranno gradualmente negli anni ’80, nella legislatura successiva eletta nel 1979, quando il Ppe inizia ad aprirsi poco alla volta a formazioni di centrodestra di stampo conservatore, snaturando pian piano l’identità centrista dell’eurogruppo. Nel 1983 vi aderiranno i conservatori greci di Nea demokratia, mentre nel 1991 vi aderirà il Partido popular spagnolo, post-franchista, il Conservative and Unionist Party (i conservatori inglesi, i Tory) e il Konservative folkeparti danese, seguiti, nel 1992 e nel 1993, dai conservatori svedesi del Moderata samling e i finlandesi del Kansallinen kokoomus; anche se nel 1994 verrà rifiutato l’ingresso del movimento neoliberista Forza Italia di Silvio Berlusconi – a cui si imputa l’alleanza coi post-fascisti di Alleanza nazionale, che nel 1994 è ancora un cartello elettorale conservatore emanazione di un Msi aperto alla società civile moderata dato che la svolta di Fiuggi è del gennaio 1995 – mentre si accetterà l’ingresso del Ccd di Pierferdinando Casini, rinforzando la componente italiana composta dal Ppi e da Patto Segni. Nel 2009, con la nascita del Popolo della libertà (Pdl, il partito unico del centrodestra che univa FI e An), nel Ppe entreranno ex dirigenti del neofascismo italiano, ex del Msi e dei gruppi giovanili quali il Fuan e il Fronte della gioventù (Fdg).
Rappresentato nei massimi organismi dell’Unione europea come la Commissione, il Consiglio e il Parlamento, il Ppe perciò, col tempo, si è sempre più sbilanciato a destra, come dimostrano non solo le vicende narrate, ma soprattutto l’ingresso degli ultraconservatori del Fidesz ungherese di Viktor Orbán, dal 2009 alla vicepresidenza del Ppe, esaltato dalla leadership leghista e dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni.
L’Ungheria di Orbán: rivoluzionario o populista conservatore?
Il 1989 è, nella narrazione dominante, un nuovo inizio per l’Est europeo, ma s’è dimostrato invece un annus horribilis, perché non rappresentò rotture con le contraddizioni di età sovietica, introducendo quelle dei Paesi occidentali. Parlando dell’Ungheria, l’immagine delle bandiere nazionali col foro tagliato per rimuovere l’emblema sovietico erano simboli visibili che rappresentavano la rottura con l’èra comunista, ma la “rivoluzione del 1989” fu “ricostruzione”, come tutte le “rivoluzioni” negoziate alla fine degli anni ’80 nell’Europa centrale (2). Il partito al governo era dominato da riformisti che, in linea con politiche come la perestrojka e la glasnost’ inaugurate nel 1985 dal premier sovietico Michail Sergeevič Gorbačëv, desideravano mantenere il potere attuando riforme economiche e politiche. I gruppi dissidenti anticomunisti sono stati inclusi nelle tavole rotonde e successivamente organizzati in partiti politici. Ciò ha portato un elemento di continuità al sistema politico di recente costituzione e alla differenziazione dei partiti. Si affermerà il “ritorno alla nazionalità”, permettendo, nei vari paesi dell’Est – Ungheria compresa – lo sviluppo di gruppi dissidenti radicati a livello nazionale, capaci di affermare espressioni di nazionalità non consentite sotto il regime socialista. Infatti, “il compito del nuovo governo di mentalità nazionale era di agire come protettori della nazione ungherese, indipendentemente da dove vivevano i suoi membri” (3), minoranze comprese, anche se questo comporterà per diversi Paesi dell’Est un ritorno all’etnicismo e all’identitarismo.
In Ungheria questo problema emerse con la “questione ungherese”, vista la presenza di abitanti di etnia magiara nei Paesi limitrofi, che vide il primo ministro József Antall – leader del Magyar demokrata fórum, o Forum democratico ungherese, partito democristiano liberalconservatore membro del Ppe e poi dell’Alleanza dei conservatori e dei riformisti europei, scomparso nel 2011 – dedicarvisi dal 1990 al 1993, anche se si rifaceva di più a un orgoglio civico, simile a quello di età socialista, che a un orgoglio etnico; che però, col tempo, emergerà nel dibattito politico, con appelli all’unificazione delle terre ungheresi fra le due guerre. Un irredentismo di estrema destra che ricordava molto, per certi aspetti, i temi affrontati dal reggente d’Ungheria Miklós Horthy, che governò il Paese in senso autocratico facendo le veci degli Asburgo detronizzati dopo la prima guerra mondiale, se non, addirittura, il Partito delle Croci frecciate guidato da Ferenc Szálasi, di impostazione filonazista e antisemita. L’onda ‘democratica’ del 1989 servì anche per celebrare l’epopea antisovietica del 1956, senza dimenticare i moti del 1848, simboleggiati da numerosi monumenti commemorativi e lapidi e nelle celebrazioni ufficiali e nelle sepolture, come quella di Imre Nagy, primo ministro del governo riformista del 1956, la cui eredità fu rivendicata dalle forze politiche del 1989 (4).
Fra i protagonisti di questa stagione avremo un giovane studente universitario, Viktor Orbán, nato nel 1963 a Székesfehérvár, che nel 1988 fonda il Fiatal demokraták szövetsége(Alleanza dei giovani democratici), o Fidesz, i cui militanti vengono chiamati “giovani ungheresi” perché l’iscrizione è limitata ai minori di trent’anni, nell’intento di distinguersi dalle vecchie élite. Il Fidesz si presenterà come un partito rivoluzionario anti-sistema divenendo estremamente popolare tra i giovani sin dall’inizio. Era diverso dall’altro partito del polo liberale degli anni ’90, i liberaldemocratici, da cui provenivano molti dei mentori dei giovani politici, e che poi si alleeranno coi socialisti. Successivamente aderirà al Ppe, non nascendo da posizioni centriste o conservatrici ma addirittura da ideali radicali, ma libertarie e sotto certi aspetti progressiste e anticomuniste, ricevendo sovvenzioni nientemeno che dal filantropo liberal George Soros attraverso la Open Society Foundation (5); anche se lentamente si sposterà a destra, facendo poi le veci del Magyar demokrata fórum.
Orbán diverrà, anni dopo, il protagonista indiscusso dell’Ungheria, l’unico politico di alto livello che ha superato vent’anni di postcomunismo tornando al potere come Primo ministro nel 2010. Dall’aprile 2010, infatti, l’Ungheria è guidata da un governo monocolore formato dal Fidesz di Orbán, che ha conquistato, con il 67,9% dei consensi, 262 seggi su 386: una maggioranza sufficiente a modificare la Costituzione, progetto che il leader conservatore ungherese non si è lasciato sfuggire.
L’avvento dei governi social-liberali dal 1994 al 1998 fu usata dal Magyar Demokrata Fórum, dal Fidesz e da tutto il centrodestra per dimostrare ai cittadini ungheresi che la “rivoluzione ungherese” del 1989 era finita, archiviata perché i socialisti erano gli eredi dell’ala riformista del regime comunista, precedente al 1989. Si arriverà addirittura a ridiscutere lo status delle precedenti rivoluzioni: già nel 1990 il Magyar Demokrata Fórumdecise di dissociarsi da Imre Nagy, perché socialista.
Il Fidesz saprà fare un’eccellente propaganda, accusando i socialisti di voler ripristinare i precedenti assetti, mentre i liberaldemocratici di aver tradito la loro causa. Questo permetterà al partito, nel 1998, di vincere le elezioni, alleato col Magyar Demokrata Fórum e col Független Kisgazda, Földmunkás és Polgári Párt, il Partito dei Piccoli Proprietari (Fkgp), con una valanga di voti, il 42%. A seguito di scandali che riguarderanno persone dell’entourage orbániano – il caso Lockheed nel 1999 – a divisioni all’interno della coalizione e alla propaganda della sinistra ungherese, incentrata nel dimostrare che il centrodestra ungherese, che nel frattempo fa il suo ingresso nel Ppe, ha tendenze autoritarie che pescano nientemeno nell’autoritarismo dell’ammiraglio Miklós Horthy se non nel passato asburgico dell’Ungheria, i socialisti vincono contro Orbán nel 2002 e mantengono il potere per due mandati, fino alla primavera del 2010. Tornato al governo con la maggioranza assoluta, il Fidesz di Orbàn introdurrà delle leggi dal sapore ultraconservatore, che confermeranno i peggiori timori delle sinistre ungheresi, attuando quella che può esser definita una “rivoluzione conservatrice”. Compiuta da un partito membro, all’epoca, del Ppe, e che comprometterà i rapporti con la famiglia popolare europea.
La prima è la legge sull’informazione, uno degli snodi basilari della democrazia liberale. La legge orbániana tende a sanzionare tutti quei media che diffondono notizie che ledono l’“interesse pubblico” attraverso un’Autorità nazionale delle telecomunicazioni di nomina governativa, creando, per le redazioni dei vari telegiornali delle televisioni nazionali, un’unica newsroom che fornisce notizie uguali per tutte le emittenti. Come conseguenza, si è arrivati prima al licenziamento di centinaia di giornalisti e, successivamente, al mantenimento di un solo telegiornale pubblico. La seconda è la “Legge sulla Naturalizzazione Semplificata”, in difesa delle minoranze magiare residenti nei Paesi limitrofi, che riprende il filo della tendenza etnonazionalista estendendo la cittadinanza ungherese alle minoranze magiare dei Paesi vicini come Romania e Slovacchia, con pessime ripercussioni diplomatiche; una legge völkisch che implica la ‘magiarizzazione’ del capitalismo nazionale, come nota il professor Federigo Argentieri, docente di Storia Contemporanea alla John Cabot University, che spiega che “la finanza magiara è in mano ai grandi investitori internazionali e il desiderio del Primo ministro è quello di riportare nelle mani dei concittadini beni e risorse, così che si crei quella classe borghese ungherese e cristiana – e qui l’accento va più posto sul discorso nazionale che sulla religione – che dovrebbe rappresentare la linfa della ‘nuova’ Ungheria, secondo il progetto di Orbán” (6). Infine, la riforma costituzionale.
La riforma costituzionale di Orbán e il Ppe
La vera svolta data da Orbán al Paese passa dalla nuova Costituzione, discussa poco dopo la nascita del governo ed entrata in vigore il 1° gennaio 2012, in sostituzione della carta emanata nel 1989; in essa possiamo trovare le basi della “rivoluzione conservatrice” orbániana basata sulla centralità della famiglia, della tradizione magiara e dell’etica religiosa cristiana.
Nel Preambolo ci si definisce “orgogliosi che il nostro re Santo Stefano mille anni fa abbia dotato lo Stato ungherese di stabili fondamenta e abbia inserito la nostra Patria nell’Europa cristiana”, “orgogliosi dei nostri antenati che combatterono per la conservazione, per la libertà e per l’indipendenza del nostro Paese”, degli “intellettuali degli Ungheresi”, “il ruolo del cristianesimo nella preservazione della nazione” e “le diverse tradizioni religiose del nostro Paese”, impegnandosi a preservare l’unità intellettuale e spirituale della nazione “devastata dalle tempeste del secolo scorso”.
L’art. D stabilisce che l’Ungheria è responsabile “per il destino degli ungheresi che vivono al di fuori dei confini nazionali, favorisce la sopravvivenza e lo sviluppo delle loro comunità, sostiene le loro aspirazioni alla conservazione della propria identità ungherese, la realizzazione dei loro diritti individuali e collettivi, la creazione delle loro autonomie comunitarie, la loro sopravvivenza nella propria terra natia, nonché promuove la cooperazione tra di loro e con l’Ungheria”; è questo articolo ad aver creato problemi diplomatici coi Paesi limitrofi. L’impronta cristiana accennata ha nulla a che vedere coi moderni partiti democristiani: l’art. L dei Principi Fondamentali ribadisce che “l’Ungheria tutela l’istituto del matrimonio quale unione volontaria di vita tra l’uomo e la donna, nonché la famiglia come base della sopravvivenza della Nazione”, sancendo, al comma II, il sostegno statale per garantire “l’impegno ad avere figli”, segno di un impianto ‘tradizionale’ che oggi il grosso dei partiti democristiani, in una società secolarizzata, non esprime più.
La Costituzione orbániana, inoltre, rinomina alcune istituzioni attribuendo loro la vecchia denominazione presocialista di età horthyana. Così la Corte suprema è nuovamente chiamata Kúria (art. 25) (7).
Risulta poi uno squilibrio degli assetti istituzionali dello Stato, col potere legislativo limitato dalle prerogative di un organismo non democraticamente eletto quale il Consiglio di Bilancio, che può esercitare il suo diritto di veto sull’adozione del bilancio generale da parte dell’Assemblea Nazionale, mentre il Presidente della Repubblica può sciogliere il Parlamento. La carta limita l’accesso alla Corte costituzionale cancellando l’actio popularis che permetteva a ogni cittadino di rivolgersi alla Corte contro qualsiasi atto legislativo ritenuto anticostituzionale.
Cambia inoltre la formulazione dei diritti sociali. In virtù del terzo comma dell’art. XIX “la legge può determinare la natura e la misura dei provvedimenti sociali adeguandoli all’utilità per la comunità delle attività svolte dalla persona”. Si introduce il dovere del cittadino di “contribuire alla crescita della comunità con attività lavorative secondo le proprie capacità e possibilità” subito dopo la disposizione che sancisce il diritto al lavoro (art. XII), mentre “il quarto comma dell’articolo XIV stabilisce che ‘i figli maggiorenni sono tenuti a prendersi cura di genitori bisognosi’” (8).
La Commissione di Venezia nel suo parere ufficiale (n° 621/2011) reso noto il 20 giugno, critica la riforma. Il 5 luglio successivo il Parlamento europeo approva una risoluzione, invitando Budapest ad affrontare le questioni sollevate dalla Commissione e, tramite interventi correttivi, a garantire il rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Convenzione europea per i Diritti dell’uomo, sottoscritte dalla stessa Ungheria. Ma Orbán prosegue nel suo progetto.
Le scelte ultraconservatrici del Fidesz hanno perciò portato a ripercussioni: il partito, nel 2019, è stato sospeso dal Ppe, e quindi impossibilitato a presentare candidati per incarichi all’interno del Ppe stesso, oltre a essere escluso dalle assemblee e dagli incontri di partito. Questo ha fatto sì che, il 3 marzo 2021, Orbán ha annunciato l’abbandono definitivo del Ppe: una dissociazione che, secondo molti, è avvenuta per non farsi espellere. A favore del premier ungherese e del suo partito si sono mossi due europarlamentari, Raffaele Fitto di Fratelli d’Italia (ex FI) e il polacco Ryszard Legutko di Diritto e Giustizia – partito nazionalista e conservatore di stampo ultraclericale legato ad An di Gianfranco Fini, animato nel 2001 dai gemelli Lech e Jarosław Kaczyński, antiliberale, favorevole a un’economia sociale di mercato, atlantista, russofobo, moderatamente euroscettico e fautore del Gruppo di Visegrád – che a nome dell’Alleanza dei conservatori e dei riformisti europei (Ecr), hanno redatto il seguente comunicato: “ECR è la vera patria dei valori conservatori e dell’eurorealismo” ed è “sempre aperta a coloro che condividono i nostri valori e che considerano il gruppo Conservatori e Riformisti Europei come una possibile sede politica”.
Democrazia illiberale?
L’“orbánismo” si caratterizza con tre tratti tipici che troviamo in altri sistemi: 1. la forte personalizzazione della politica dovuta a spinte oggettive nei sistemi partitici con esigenze di semplificazione, dovute all’incapacità dei gruppi dirigenti di individuare un’identità collettiva da veicolare all’opinione pubblica, per la crisi delle ideologie, sostituita dalla facile riconoscibilità di un nome, di un volto, di una voce che veicolano un messaggio semplice, chiaro; 2. l’opacizzazione della politica in assenza, o crisi, di trasparenza del potere decisionale che ha allontanano il cittadino dalla cosa pubblica; 3. l’uso (abuso?) del plebiscito, da non confondere col metodo referendario, che non rafforza la sovranità popolare, ma il potere politico.
In Ungheria l’avvento dell’orbánismo fu favorito dall’esistenza di un partito socialista dipinto come erede della sua prassi burocratica, identificando la burocrazia dell’Ue, attuata dai governi in carica, col vecchio sistema socialista, il tutto nel contesto di forte cessione di sovranità a favore dell’Ue. I socialisti ungheresi ottengono nel 2010 un 15,3% e solo 59 deputati anche come risultato di anni di privatizzazioni che hanno prodotto effetti traumatici come la dislocazione di aziende e la disoccupazione.
La “democrazia illiberale” ungherese ha portato vasti settori della nuova destra metapolitica a lodarne certi aspetti: nel suo libro Contre le libéralisme. La société n’est pas un marché Alain de Benoist, maître à penser della nouvelle droite e capofila del Grece (Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne), associazione che ne elabora le tesi dal 1968, nel capitolo Démocratie et libéralisme è arrivato a osservare che sta tornando alla ribalta il termine “illiberalismo”, “parola un po’ barbara, ma il cui significato è abbastanza chiaro: designa l’emergere di nuove forme politiche che pretendono di essere democrazia, ma allo stesso tempo vogliono rompere con la democrazia liberale che è oggi in crisi praticamente in tutti i Paesi del mondo.” Il teorico della nouvelle droite spiega che il termine “apparso alla fine degli anni ’90 negli scritti di un certo numero di illustri scienziati politici” è ritornato in auge nel 2014, “tra il grande pubblico quando il Primo ministro ungherese, Viktor Orbán, ha pubblicamente dichiarato, durante un’Università estiva del suo partito: «La nazione ungherese non è un’aggregazione di individui, ma una comunità che spetta a noi organizzare, rafforzare e innalzare. In questo senso, il nuovo Stato che stiamo costruendo non è uno Stato liberale ma uno Stato illiberale»”.
Qual è la differenza fra una democrazia liberale e una illiberale? “La differenza è che il liberalismo è organizzato intorno alla nozione di individuo e alla nozione di umanità” prosegue de Benoist, “eliminando tutte le strutture intermedie, mentre la democrazia illiberale, che non è mai più che democrazia completa, insomma, è organizzata principalmente attorno alla nozione di cittadino. A questo proposito, possiamo definire la definizione come una dottrina che separa l’esercizio classico della democrazia dai principi dello Stato di diritto. È una forma di democrazia in cui la sovranità popolare e l’elezione continuano a svolgere un ruolo essenziale, ma dove non c’è esitazione a discostarsi da alcuni principi liberali quando le circostanze lo richiedono”. Le cause dell’ascesa dell’“illiberalismo”, spiega de Benoist, si sovrappongono a quelle che chiariscono il successo dei partiti populisti oggi: “Le democrazie liberali si sono trasformate […] in oligarchie finanziarie tagliate fuori dal popolo”, senza dimenticare che “nelle democrazie liberali, nazioni e popoli non hanno più i mezzi per difendere i propri interessi”, espropriate dalla finanza della propria sovranità. L’ideologia dei diritti umani […] vuole conoscere solo l’umanità e l’individuo. Tuttavia, la politica ruota attorno a ciò che si trova tra queste due nozioni: popoli, culture, Stati, territori, in cui il liberalismo vuole vedere solo semplici aggregati di individui” (9).
Parole simili verranno pronunciate su Diorama letterario, rivista storica della nuova destra italiana diretta dal prof. Marco Tarchi, da Eduardo Zarelli, fra i massimi teorici del glocalismo e dell’ecologia profonda, titolare della casa editrice Arianna Editrice e dal 2020 responsabile della sezione editoria, cultura e metapolitica del Grece Italia, sezione italiana dell’associazione metapolitica francese. Questi, in occasione dell’incontro fra l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e Viktor Orbàn, scrive che “il pensiero egemone liberale, affermatosi declamando la presunta morte delle ideologie […] resta, non a caso, sconcertato dalla confutazione aperta della coincidenza tra la democrazia e lo stesso liberalismo”, come fatto dal premier ungherese. A fronte delle critiche del giurista Sabino Cassese nell’articolo La democrazia svanisce se diventa illiberale (Corriere della Sera, 29 agosto 2018), Zarelli sostiene che “non può che essere un’affermazione da contestualizzare storicamente giacché, come tutti sanno, la parola e la pratica della democrazia sono nate ad Atene nel VI secolo a.C., quando il liberalismo era ben lungi dall’aver fatto la sua apparizione sul palcoscenico della storia (avvenuta a partire dal XVII secolo). In Grecia, la democrazia era diretta (tutti i cittadini potevano prender parte all’ekklesìa o assemblea, vero organo decisionale) e a governare era il popolo, invece di eleggere gli uomini incaricati di governarlo. La democrazia è stata concepita quindi in rapporto non all’individuo, ma alla comunità organizzata, alla città (pòlis). Caratteristica principale della sua esistenza, il concetto di cittadinanza, secondo cui cittadino (polìtes) è chi appartiene a una patria, cioè a una terra e a un passato”.
Zarelli ripesca l’idea elaborata da Alain de Benoist nel libro del 1985 Démocratie: Le problème,citato nel testo, il quale, contro la democrazia liberale individualista propone una democrazia identitaria comunitaria dal basso, basata sulla “sussidiarietà, l’istituto referendario propositivo; in una parola, va sancita la priorità della partecipazione rispetto alla delega e alla rappresentanza. Appartenenza, socializzazione, reciprocità, partecipazione sono i caratteri di fondo della ‘democrazia organica’, per dirla con Alain de Benoist. […] In una società in cui l’idea di Patria sia volontaristica, disinteressata e inclusiva, la solidarietà non decade in un astratto umanitarismo moralistico (e nelle sue ingerenze internazionali), ma si esprime in un ‘comune sentire’ e si incarna politicamente nella giustizia sociale e nell’autodeterminazione dei Popoli” (10).
Peccato che tali risposte non cambino i rapporti di produzione capitalistica e spesso siano funzionali allo status quo economico (e la Lega né è un esempio), finendo per essere una risposta autoritaria di destra al problema delle diseguaglianze create dalla globalizzazione.
1)Anche se va detto che diversi settori ultraconservatori della Csu bavarese di Franz Josef Strauss e di Edmund Stoiber intrattennero contatti con gli ambienti della nuova destra metapolitica francese e austro-tedesca, sulla base del minimo comune denominatore del regionalismo e dell’autonomismo, cfr. M. L. Andriola, La nuova destra austrotedesca: la Baviera della Csu, l’Intereg, la Fuev e il federalismo etnico, Paginauno n. 33/2013
2) Cfr. Th. Garton Ash, The Magic Lantern: the Revolution of 1989, New York, Vintage, 1990
3) G. Schöpflin, Nations, Identity, Power. The New Politics of Europe, Londra, Hurst & Company, 2000, p. 386
4) Cfr. E. Palonen, The city-text in post-communist Budapest: street names, memorials, and the politics of commemoration, in Geojournal, Vol. 73, n°3, novembre 2008, pp. 219-230
5) Cfr. P. Lendvai, Orbán: Hungary’s Strongman, Oxford University Press, Oxford, 2018
6) Cit. in S. Ricci, Viktor Orbán: dal libertarianismo alla svolta autoritaria, in Geopolitica.info, 28 maggio 2013, https://www.geopolitica.info/viktor-orban-dal-libertarianismo-alla-svolta-autoritaria/
7) Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, sul n. 2 maggio-agosto 2011 ha pubblicato la traduzione italiana del Preambolo, cioè la parte della Legge Fondamentale relativa ai princìpi ispiratori, tradotta e curata dal direttore, il prof. Claudio Mutti, esperto di lingua e letteratura ungro-finnica, da cui abbiamo tratto tutte le citazioni virgolettate relative al testo della Carta costituzionale ungherese
8) Cfr. K. Kaleman, Nuova Costituzione ungherese adottata e promulgata, in diritticomparati.it, 13 maggio 2011, https://www.diritticomparati.it/nuova-costituzione-ungherese-adottata-e-promulgata/. Per una critica generale alla costituzione ungherese, rimando all’articolo di M. De Simone, Ungheria: la nuova costituzione. Verso una deriva autoritaria?, in forumcostituzionale.it, 16 settembre 2011, https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/telescopio/0029_desimone.pdf
9) A. de Benoist, Pour une Europe illibérale, intervento al 6° convegno dell’Institut Iliade, Europe, l’heure des frontières, il 6 aprile 2019, https://institut-iliade.com/colloqueiliade-2019-pour-une-europe-illiberale/ per presentare il libro Critica del liberalismo. La società non è un mercato, Casalecchio di Reno, Arianna, 2019. L’Institut Iliade è un’associazione culturale francese identitarista che aggrega moltissimi intellettuali provenienti dalla galassia della nouvelle droite, come il Grece, Terre et Peuple, Synergies européennes o gli ambienti identitari del Rassemblement national
10) E. Zarelli, É possibile una democrazia illiberale?, in Diorama letterario, n. 345, maggio 2019