"12.770 atti di violenza terroristica, 5.390 feriti, 342 morti (solo nel 1979 si sono registrati 2.200 attentati – firmati da 215 sigle di sinistra e 55 di destra).” Le cifre ufficiali della stagione della violenza politica in Italia
“L’atto di violenza [...] deve penetrare a forza nell’uomo che deve soggiacere alla sua azione. L’uomo deve venirne contagiato [...] Ma egli deve sapere, o meglio apprendere, che cos’è che l’ha contagiato, perché in tal modo egli trasforma da un lato la cecità della violenza e dall’altro quella dell’emozione in un valore di conoscenza.” Carl Gustav Jung, Risposta a Giobbe
“Venivano da lontano, avevano occhi e cani/ avevano stellette e guanti, e paura/ Erano tre, erano quattro, erano più di ventiquattro/ erano il sale della terra/ erano il fuoco e la guerra/ Erano il segno della croce/ erano cani senza voce, erano denti/ Erano denti senza bocca, erano fuoco che scotta/ erano la vita che rintocca.” Francesco De Gregori, Scacchi e tarocchi
“Agosto. Si muore di caldo/ e di sudore/ Si muore ancora di guerra/ non certo d’amore/ si muore di bombe, si muore di stragi/ più o meno di stato/ Si muore, si crolla, si esplode/ si piange, si urla/ Un treno è saltato.” Claudio Lolli, Agosto
Può apparire strano ma il Sessantotto – per alcuni prodromo di ogni strategia eversiva della storia d’Italia – non ha avuto una sua colonna sonora. L’avrà semmai il Settantasette, con i cantori in tempo reale delle istanze movimentiste (Finardi, Camerini, Lolli, Manfredi, con più sporadicità Gianco). Il Sessantotto no. Se si escludono i canti politici, le ballate del primo De Andrè (Tutti morimmo a stento), la gucciniana Dio è morto, le classifiche dei dischi più venduti dell’anno non annoverano canzoni di lotta, soffocate dall’orda popolarissima dei soliti noti: Albano, Morandi, Reitano, Mina, Battisti. Le tracce che il Sessantotto lascerà nella canzone d’autore cavalcheranno piuttosto la sua onda lunga: tutti gli anni Settanta e poco dopo. Istantanee, bilanci, ironie, metafore, evocazioni. Un Sessantotto cantato a posteriori, si potrebbe dire.
Francesco Guccini ci girerà attorno, a metà strada tra pubblico e privato, con la rimembrante Eskimo (1974). Antonello Venditti con Compagno di scuola (1975). Mimmo Locasciulli (lo stesso anno) con 1968. Dopo. Quindi (nel 1987) con Surrender. Fragili e guerrieri. E ancora: De Gregori, dentro metafora, con la Leva calcistica della classe ‘68 (risale al 1982), e Finardi, con I fiori del maggio (1987, addirittura). A distanza di sicurezza dalla cronaca spicciola, Fabrizio De Andrè pubblicherà un disco intero sul ‘68. Si tratta di Storia di un impiegato (1973) ed è quasi un romanzo in musica: la drammatica impresa eversiva di un travet che decide di saltare il fosso piazzando un ordigno, fuori tempo massimo sulla storia. Il Potere si servirà da par suo del gesto sconsiderato. L’album costituisce una pietra miliare della discografia deandreiana, capace com’è di rappresentare le essenze cruciali di quel tempo; compresa la ‘tentazione’ violenta come sbocco ulteriore delle spinte contestatarie. Una tentazione/scelta troppo semplicisticamente bollata come delirante.
L’anno di Storia di un impiegato riassume di fatto in sé lo spirito del decennio. La divaricazione tra società civile e classe dirigente è sempre più marcata, la crisi, molto più che strisciante. Crisi nera, piuttosto. Profonda, strutturale, senza soluzione di continuità: l’impronta politica caratteristica degli anni Settanta. Si comincia a convivere con l’austerity, ma la filosofia della stragrande maggioranza del Paese resta quella del canta che ti passa. “Si dice: tira a campare/ tanto niente cambierà”, canta Bennato riassumendo il carattere tipico dell’italiano medio. Sul fronte della canzonetta Massimo Ranieri con Erba di casa mia vince Canzonissima. Peppino Di Capri il Festival di Sanremo (Un grande amore e niente più). Gato Barbieri entra in classifica con il tema di Ultimo tango a Parigi, il film di Bertolucci che ha tolto il sonno a più di un italiano baciapile. Studenti e operai si accorgono per primi che troppe cose non vanno come dovrebbero. E non ci stanno. Divampa quasi ovunque la protesta. Anche l’eversione armata, dal canto suo, comincia la sua escalation: piccoli dirigenti, magistrati, poliziotti, giornalisti sono al centro del mirino. BR, ma non solo: a destra come a sinistra è un proliferare di sigle, una miriade infinita di gruppuscoli rivoluzionari. Una lotta senza quartiere, che pretende le sue vittime. Tante.
Una fiumana. Il clima italiano vira sul plumbeo. Rappreso, intirizzito, senza soluzione di continuità. Ritratto benissimo da Francesco De Gregori in La campana. Anno di grazia 1978, quando tutto sembrerebbe ormai compiuto. A livello personale con lo schiaffo doloroso della contestazione al Palalido, subita da un gruppo di autoriduttori durante un concerto. A livello politico-sociale, con l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. La campana è una traccia luttuosa, claustrofobica, pessimista. Il resoconto impietoso di un collasso interiore, rimando al collasso collettivo in cui versa il Paese:
La campana ha suonato tutto il giorno/ là dove i cani hanno abbaiato/ io ho pianto lacrime fino all’osso/ lacrime d’osso sul selciato/ Incollato sull’asfalto della strada/ mai stato così lontano/ dalla dolcezza cui tutti hanno diritto/ io con un fascio di giornali in mano/ E con un fascio di giornali in mano pensavo/ si può anche morire di dolore/ I miei amici, lo sai, sono tutti segnati/ i miei amici, lo sai, sono tutti in galera/ sono tutti fregati, sono tutti schedati [...]
Nello stesso album L’impiccato – non senza qualche spunto polemico – riferisce del clima ‘poliziesco’, di violenza e sospetto diffusi, instauratosi nel Paese:
Uno l’hanno preso ieri sera, giovane giovane/ e figlio di buona donna, era/ Figlio di buona donna, pure ladro/ con un sorriso tutto denti di cane/ si nascondeva dietro una serie di ‘che ne so?’/ Poi ne hanno preso un altro padre di famiglia/ faccia scura scura/ vestito grigio, camicia, cravatta/ sguardo perduto all’arrivo in questura/ Il terzo, accusato d’oltraggio non fece in tempo a aprire la bocca/ che un pugno lo mise a sedere/ allora chiese una sigaretta e confessò in fretta/ tutto quello che il commissario voleva sapere/ Il quarto si chiamava Tommaso e pregava e piangeva/ chiese di telefonare all’avvocato/ ma l’avvocato non rispondeva/ Il quinto venne assunto in galera per un indizio da niente/ venne assunto in galera/ Il quinto venne assunto in galera per un indizio da poco/ e fu crocefisso col ferro e col fuoco/ Forse per un errore o forse perché era stato scoperto/ forse per un’implicita confessione/ oppure soltanto lo sconforto/ e tutti si domandarono di che segno era il morto.
Sui temi suggeriti dalla strategia della tensione, De Gregori torna l’anno seguente con l’accenno – in Viva l’Italia – al fatidico “12 dicembre” della strage di piazza Fontana (1969), da cui la slavina eversiva fa risalire il suo incipit luttuoso. Quindi, molte lune più in là (1985), in Scacchi e tarocchi si sofferma sul ritratto luci-ombre della generazione della lotta armata. Una traccia introspettiva, tipicamente degregoriana. Dunque poetica, umana, stratificata. La descrizione più efficace degli anni di piombo nella canzone d’autore italiana.
Venivano da lontano, avevano occhi e cani/ avevano stellette e guanti, e paura/ Erano tre, erano quattro, erano più di ventiquattro/ erano il sale della terra/ erano il fuoco e la guerra/ Erano il segno della croce/ erano cani senza voce, erano denti/ erano denti senza bocca, erano fuoco che scotta/ erano la vita che rintocca / Erano tre, erano quattro, avevano sassi, avevano cuori/ avevano parrucche e occhiali, e pistole a tamburi e silenziatori/ Avevano linguaggio e chitarre/ e da dietro le sbarre ridevano e pure parlavano/ avevano alcuni moglie e figli che da dietro un vetro adesso/ li salutavano [...]
È utile, a questo punto, fare un passo indietro. Riandare, cioè, al vero anno in cui, in Italia, si tennero dovunque le prove generali della rivoluzione. Quel 1977 a due facce che – a distanza di nemmeno un decennio dal ‘68 – segnerà un’ulteriore svolta storica per il Paese. Da un lato la fantasia al potere, i sogni, la piazza, gli indiani metropolitani, i colori, dall’altro le armi ‘di massa’, accessibili a tutti. Arringati dai cosiddetti “cattivi maestri” (in realtà intellettuali, giornalisti, docenti universitari che scrivono cose scomode), giovani studenti, operai, ma anche figli della piccola e media borghesia italiana, si preparano alla scelta estrema della violenza. La P38 fa il suo ingresso ufficiale nella cronaca. In diretta dalla storia (1978) Rino Gaetano la inserisce – non a caso tra un “68” e un “prosciutto cotto” – nella lunga lista di proscrizione di Nuntereggaepiù(ci finisce dentro anche un incolpevole Guccini).
Abbasso e alé/ abbasso e alé con le canzoni/ senza fatti e soluzioni/ la castità/ la verginità/ la sposa in bianco il maschio forte/ i ministri puliti, i buffoni di corte/ ladri di polli/ super pensioni/ ladri di stato e stupratori/ il grasso ventre dei commendatori/ diete politicizzate/ evasori legalizzati/ auto blu/ cieli blu/ amore blu/ rock and blues/ nuntereggaepiù/ Eya alalà/ pci psi/ dc dc/ pci psi pli pri/ dc dc dc dc/ Cazzaniga/ avvocato Agnelli Umberto Agnelli/ Susanna Agnelli, Monti Pirelli/ dribbla Causio che passa a Tardelli/ Muselli Antognoni, Zaccarelli/ Gianni Brera/ Bearzot/ Monzon, Panatta Rivera D’Ambrosio/ Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno/ Villaggio, Raffa, Guccini/ onorevole eccellenza, cavaliere senatore/ nobildonna, eminenza, monsignore/ vossia, cherie, mon amour/ nuntereggaepiù [...]
Per restare in tema di dissacrazione: il profilo di rivoluzionario di area destrorsa, schizzato da Bennato in Dopo il liceo che potevo far suona al vetriolo:
Dopo il liceo che potevo far/ non c’era che l’università/ ma poi il seguito è una vergogna/ son fuori corso qui in facoltà/ e me lo voglio dimenticar/ e bevo, bevo come una spugna [...] E ora ho trovato la giusta via/ sono qualcuno in pirateria/ e questo ormai è il mio destino.../ e se qualcuno mi vuol fermare/ sono disposto anche a sparare/ sono devoto a Capitan Uncino.../ Ai suoi discorsi son sempre presente/ ma non so bene cosa abbia in mente/ e non mi faccio più troppe domande/ e non m’importa dov’è il potere/ finché continua a darmi da bere/ non lo tradisce e fino all’inferno/ lo seguirò/ non lo tradisce e fino all’inferno lo seguirò!
Quindi, sulla questione “cattivi maestri” (di estrema destra, date le bombe) Il rock di Capitan Uncino recita testualmente:
Io sono il professore/ della rivoluzione!/ della pirateria/ io sono la teoria/ il faro illuminante!/ Ma lo capite o no?/ Ve lo rispiegherò!/ Per scuotere la gente/ non bastano i discorsi/ ci vogliono le bombe!/ Io ero un benestante/ non mi mancava niente/ ma i soldi di papà/ li spendo tutti qua/ a combattere sul fronte!/ Chi si arruolerà/ un bel tatuaggio avrà!/ Ma da quel trampolino/ io chi non vuol firmare/ lo sbatto giù nel mare!
L’intera opera bennatiana, prendendo a prestito la simbologia possibile della fiaba di Peter Pan, ruota attorno alla dialettica realtà/fantasia (leggi stato delle cose/utopia armata), in uno scenario da deriva collettiva dove nessuno si salva e ci fa una bella figura. Né la così detta società civile (rappresentata dai benpensanti di Tutti insieme lo denunciam), né gli ideologi della rivoluzione alla Capitan Uncino, né – tanto meno – la manovalanza armata tipo Spugna e la sua ciurma male in arnese.
Appena meno caustico, ma altrettanto disilluso sulla piega assunta dagli slanci movimentisti, è Gianfranco Manfredi, che nel dittico costituito da Ma non è una malattia (1976) e Zombi di tutto il mondo unitevi(1977) racconta il mesto declino dei sogni rivoluzionari-generazionali. In Ma non è una malattia le vicende – interne ed esterne, psicologiche e sociali – del Movimento Studentesco sono filtrate alla luce di un’ottica quasi surreale. Il carattere dell’estremista-tipo (con i tic, i rigori, le contraddizioni dell’estremista-tipo, retaggi di un ‘dover essere’, prima ancora che di un ‘sentire’ collettivo) è sintetizzato benissimo nell’ironica Quarto Oggiaro:
T’ho incontrata a Quarto Oggiaro davanti al Supermarket saccheggiato (oh ye)/ avevi in tasca una scatola di tonno dello Wyoming.../ si vede che la tua coscienza politica era scarsa.../ Io ci ho qua il bourbon, io ci ho qua il vischi/ io ci ho qua il caviale/ che a differenza del tonno non fa male/ lo questa sera mi bevo lo champagne circondato da quattro compagne.../ Mentre tu te mange ‘o tonno con quel fesso di Totonno/ Ti ho incontrata alla prima visione, dopo l’appropriazione/ Tu hai visto un Franchi ed lngrassia mentre lì vicino facevano un film inchiesta sulla CIA/ Eh ma la tua coscienza politica è proprio scarsa/ Io ho visto il Bertolucci, ho visto la Cavani/ S. Francesco e i sette nani vestiti da nazisti/ ho visto Scapponsanfan’ dei fratelli Taviani/ C’eravamo tanto armati e diciotto film di marziani (micidiale!) in cineteca.
I sogni morti all’alba dei Settanta trovano spazio anche in Zombi di tutto il mondo unitevi (sempre Manfredi) dove si cantano la ritirata e l’inizio della disfatta generazionale. Siamo, insomma, al capolinea dell’ideale collettivo: il Movimento implode per surplus di ideologia. Un sollen tanto rigoroso da risultare snervante, allargato al rapporto di coppia e ai tanti reduci che popolano il 33 (“Ultimo moicano sampietrino in mano”). Strenui difensori di un ideale di gruppo andato a male, sconfitto dalla storia e dagli eventi, dalla massificazione dilagante. Guerriglieri allo sbando. Forzati dei raduni rock. Come quelli – tra droga, processi ai cantanti e cariche di polizia – di Un tranquillo festival pop di paura. Lontani anni luce dai proletari veri. Quegli zombi di tutto il mondo da cui il titolo, ridotti a “fantasmi del fantasma d’Europa” (il riferimento è all’incipit del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engel).
Più sodale agli slanci del Movimento, il bolognese Claudio Lolli che – tralasciate le angosce esistenziali alla Aspettando Godot – con Ho visto anche degli zingari felici (1976) centra il duplice obiettivo del disco-capolavoro e del messaggio politico-sociale buono per una generazione di rivoluzionari in fieri. Sono anni di barricate: ideologiche, salottiere, artistiche, di piazza. Anni di attentati. Vigliacchi. Neri. Fascisti.
Anni in cui è facile “ritrovarsi soltanto a dei funerali”. Claudio Lolli ‘svolta’ stilisticamente, raccontandone uno, di questi anni a mano armata. Gli zingari felici si concentra sui dintorni del Settantasei ed è concepito come un’unica suite. Senza pause, con parti orchestrali di fusione tra un brano e l’altro. Con sezioni di fiati, percussioni, e un gruppo di musicisti alle spalle, con cui rielaborare la “Cantata del fantoccio lusitano” di Peter Weiss:
Siamo noi a far ricca la terra/ noi che sopportiamo la malattia del sonno e la malaria/ Ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera/ riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l’abbondanza.
Tra slancio contestatario (Piazza, bella piazza), i fantasmi del Vietnam (Primo maggio di festa) e quelli del terrorismo nero (la lapidaria Agosto, sulla quale torneremo). L’esigenza di ritrovarsi uniti nella lotta (La morte di una mosca, Albana per Togliatti). E, in anticipo sul dibattito femminista a venire, la bellissima Anna di Francia. Canzoni-specchio di un’epoca e di una generazione.
Egualmente importanti gli esiti del successivo Disoccupate le strade dai sogni, un disco topico del 1977. Un disco battuto in lungo e in largo dalla rabbia. Dalla voglia di denuncia. E d’altro canto profetico del riflusso anni Ottanta che già bussa alle porte. Il discorso si apre con Alba meccanica e approda a I giornali di marzo. In mezzo l’evocativa Analfabetizzazione (un ribaltamento del significante nella lingua parlata), una più tenue Canzone scritta sul muro, la caustica Autobiografia industriale, la cerebrale Da zero e dintorni. E soprattutto Incubo numero zero – superbamente evocativa, quasi dylaniana nella sua capacità visionaria – con tutti i crismi del manifesto politico. Sotto la facciata rassicurante della socialdemocrazia il Potere continua a tessere le sue trame e a giocare sporco. Nel testo anche un riferimento a Ulrike Meinhoff, giornalista-terrorista tedesca della RAF, ‘suicidata’ in carcere il 9 maggio del 1976 (l’anno seguente identica sorte toccherà ad Andreas Baader e ad altri compagni della Rote Armee Fraction).
Il giorno di solito comincia sporco/ come l’inchiostro del nostro giornale/ scritto sui bianchi muri delle prigioni della Repubblica Federale/ Che giorno per giorno avanzando tranquille/ son quasi davanti alla tua finestra con un corteo di stesse e scintille e i tamburini la banda/ l’orchestra/ Spegnete la luce pensava Ulrike/ che la foresta più nera è vicina/ ma oggi la luna ha una faccia da strega/ e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina/ Spegnete la luce pensava Ulrike/ che la foresta più nera è vicina/ ma un jumbojet scrive “viva il lavoro”/ col sangue, nel cielo di questa mattina.
Ulteriormente diverso l’approccio (testuale) alla rivoluzione di Eugenio Finardi. Che a partire dal 1975 (Non gettate alcun oggetto dal finestrino), l’onda della contestazione la cavalca al galoppo, la batte, la vive, la racconta dal ‘di dentro’. Soprattutto nei memorabili Sugo (1976) e Diesel (1977). Un cantautore organico al Movimento milanese, della scuderia discografica Cramps. Uno da Festival di Parco Lambro che, fino al ripiegamento sul privato di Extraterrestre (1979), si fa interprete a suon di rock della voglia di cambiamento delle masse giovanili. La lingua di Finardi è diretta. Immediata. Comiziante. Quasi sloganistica (“La CIA ci spia con l’aiuto della polizia”). Adatta – in tutto e per tutto – alle istanze della rivoluzione in corso. Adatta a passare di stereo in stereo, di chitarra in chitarra, di corteo in corteo in una sorta di implicito passaparola. Sugo, così come i precedenti lavori finardiani, guarda al microcosmo metropolitano, interpretandone gli slanci, le cadute (spesso rovinose), gli incubi, i deliri, e non necessariamente in quest’ordine. In scaletta due canzoni in grado di lasciare un segno indelebile nella storia della protest song: Musica ribelle – assunta a manifesto artistico-ideologico dell’universo giovanile più impegnato – e La radio, pensata tra il serio e il faceto come jingle di Radio Popolare e divenuta inno ufficiale delle nascenti radio libere. Sugo scaturisce soprattutto dalla voglia/esigenza di ‘dire’ (tanto, troppo, comunque). Soldi, Voglio, La Cia, La paura del domani esprimono l’urgenza di una generazione che anela a dare l’assalto al cielo.
Anche Diesel rappresenta dal vivo la tensione sociale del momento. Canzoni come episodi inscindibili dalla realtà circostante che deve fare i conti (e li fa) con la guerra del Vietnam, la droga, il malessere giovanile. Come scritto in precedenza, gli anni Settanta sono anni duri, di scontri di piazza. Sui fronti opposti degli schieramenti, soprattutto studenti e poliziotti. Si scappa e si spara. A volte ad altezza d’uomo. Spesso ci scappa anche il morto. Due episodi tra i tanti (troppi), uno dei quali finito dentro una canzone: 11 marzo 1977, a Bologna, la polizia carica i militanti di sinistra e del Movimento che manifestano per le vie cittadine. I carabinieri aprono il fuoco, uccidendo Pier Francesco Lorusso, di Lotta continua. 12 maggio 1977, a Roma, la polizia attacca una dimostrazione pacifica, organizzata dai radicali per ricordare la vittoria del referendum sul divorzio, facendo largo uso di armi da fuoco, uccidendo Giorgiana Masi, diciannovenne, e ferendo altri sette giovani. È una lotta senza tregua. Strade, fabbriche, università, come trincee. L’aria delle città diventata irrespirabile per il fumo prodotto dai lacrimogeni. Pierangelo Bertoli – in Nonvincono (1976) – non è tenero con quella che, da più parti, viene definita “violenza di Stato”:
Ben altro che pace e lavoro ci hanno portato/ davanti alle fabbriche schierano il carro armato/ e radono al suolo le case ed i forni del pane/ perché tutto un popolo in lotta patisca la fame.
Quindi, in Rosso colore (1977):
Noi ci unimmo e poi scendemmo per le strade per lottare/ per respingere l’attacco del padrone/ Arrivati da lontano, poliziotti e celerini/ caricarono le donne col bastone/ Respingemmo i loro attacchi con la forza popolare/ ma convinti da corrotti delegati/ ci facemmo intrappolare da discorsi vuoti e falsi/ e da quelli che eran stati comperati.
Il cosiddetto terrorismo non aspetta altro che pretesti di questo tipo. Il 1977 è un anno spietato. Preludio ideale al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro (1978). Dopo di che, in Italia, niente sarà più lo stesso. Nemmeno l’indulgenza con cui una fetta di società civile guardava alle prime azioni delle Brigate Rosse. Lo sconcerto è ovunque, diffuso: chi si dissocia, chi prega, chi invoca la pena di morte per i brigatisti in carcere. L’Italia è in panne e ci resterà fin oltre il 1980, anno in cui Giorgio Gaber dà alle stampe Io se fossi Dio, punto di arrivo e summa del Gaber-pensiero. Una ballata copiosa che non risparmia nessuno. Che affonda nel putridume di vecchi e nuovi mostri (inglesi, africanisti, radicali, drogati, piccoli borghesi, “untuosi democristiani”, “grigi compagni del PCI”, giornalisti “necrofili”, “col gusto della lacrima in primo piano”). Una radiografia impietosa delle cancrene (e degli scheletri in capienti armadi) di una nazione in rovina, sia pure già in odore di Milano da bere. Relativamente alla vicenda Moro l’analisi gaberiana non distoglie lo sguardo. Cantando/recitando quanto segue:
Però se fossi Dio sarei anche invulnerabile e perfetto/ allora non avrei paura affatto/ così potrei gridare, e griderei senza ritegno che è una porcheria/ che i brigatisti militanti siano arrivati dritti alla pazzia!/ Ecco la differenza che c’è tra noi e gli innominabili/ di noi posso parlare perché so chi siamo/ e forse facciamo più schifo che spavento/ ma di fronte al terrorismo o a chi si uccide c’è solo lo sgomento/ Ma io se fossi Dio, non mi farei fregare da questo sgomento/ e nei confronti dei politicanti/ sarei severo come all’inizio/ perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio/ E se al mio Dio che ancora si accalora/ gli fa rabbia chi spara/ gli fa anche rabbia il fatto/ che un politico qualunque/ se gli ha sparato un brigatista/ diventa l’unico statista/ Io se fossi Dio/ quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio/ c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire/ che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia Cristiana/ è il responsabile maggiore di vent’anni di cancrena italiana/ Io se fossi Dio, un Dio incosciente enormemente saggio/ avrei anche il coraggio di andare dritto in galera/ ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora/ quella faccia che era!
Seguono polemiche. A qualcuno “il pensiero dà fastidio”. Se libero, scevro da ipocrisie, condizionamenti ideologici, ancora di più.
Non un unico episodio. Ma una lunga catena di avvenimenti luttuosi dietro ai quali si intravedono dinamiche di controllo e condizionamento della vita politica italiana. Un Idra, un mostro a più teste. Un meccanismo non sempre univoco. Il caos sociale, l’instabilità, la minaccia costante, il terrore vero e proprio, sono gli strumenti con cui, dietro la faccia ufficiale del Potere, un coagulo di forze non meglio e non sempre identificate comincia a giocare, in Italia, una partita di sangue dai contorni, in gran parte ancora incerti. Servizi segreti italiani e internazionali, organizzazioni armate, la destra estrema con tentazioni golpiste, lobby occulte, e altre di tipo economico, preoccupate del cambiamento. Complicate alleanze dove sfumano e convergono le differenze tra legalità e illegalità, apparati statali e criminalità, fenomeni spontanei e altri pilotati a seconda della circostanza. Una strategia della tensione – inaugurata dalla strage alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana e proseguita con la strage di Piazza Della Loggia, a Brescia – che getta la sua ombra lunga sul decennio in esame. Il contraltare all’eversione rossa. Il terrorismo vero. Quello che colpisce nel mucchio. In maniera indiscriminata. Cittadini che nulla c’entrano con il potere politico, che non sono ‘nemici di classe’ o ‘servi del potere’, come quelli, per lo più, colpiti dalle Brigate Rosse. Un piano sotterraneo, piuttosto, che punta alla stabilizzazione ‘al centro’ del sistema. Un apparato perfettamente intercambiabile di uomini fedeli a un’idea di conservazione dello status quo rispetto a qualsiasi forma di cambiamento. È in quest’ottica di immutabilità del potere che si collocano strutture segrete come Gladio, come i Nuclei di Difesa dello Stato, formazioni dal profilo quanto mai ambiguo come il MAR. La lista degli episodi oscuri e luttuosi è lunghissima. Il 4 agosto 1974 una bomba viene fatta esplodere nella vettura n.5 del treno Italicus, l’espresso Roma-Monaco. Muoiono dodici persone. I mandanti e gli esecutori della strage, attribuita alle trame nere, non saranno mai individuati.
In Agosto (Ho visto anche degli zingari felici, 1976) Claudio Lolli descrive così:
Agosto, improvviso si sente/ un odore di brace/ Qualcosa che brucia nel sangue/ e non ti lascia in pace/ Un pugno di rabbia che ha il suono tremendo/ di un vecchio boato/ qualcosa che crolla, che esplode/ qualcosa che urla/ un treno è saltato/ Agosto. Che caldo, che fumo/ che odore di brace/ Non ci vuole molto a capire/ che è stata una strage/ non ci vuole molto a capire che niente/ niente è cambiato/ da quel quarto piano in questura/ da quella finestra/ Un treno è saltato/ Agosto. Si muore di caldo/ e di sudore/ Si muore ancora di guerra/ non certo d’amore/ Si muore di bombe, si muore di stragi/ più o meno di Stato/ si muore, si crolla, si esplode/ si piange, si urla/ Un treno è saltato.
Le tragedie si consumano a ritmo serrato, ciò che è peggio fra il disinteresse o il disincanto di molti. Stampa compresa, per lo più distratta e/o reticente. Come ne I giornali di marzo (Disoccupate le strade dai sogni, 1977, ancora Lolli) che fa riferimento all’assassinio dello studente Lo Russo, morto nel corso di scontri con la polizia:
Alle 13.15 sono partiti alcuni colpi/ in un succedersi incalzante di fughe assalti e contrassalti/ solo le poche centinaia di persone che non erano scappate/ da alcuni uffici sono stati portati all’aperto tavoli/ i nostri aspiranti tupamaros devono convincersi/ I giornali di marzo/ i giornali di marzo hanno capito/ i giornali di marzo/ i giornali di marzo hanno mentito/ Gli uomini sono scesi a terra già in assetto da campagna/ prudenza delle forze dello Stato/ hanno replicato con lanci a ripetizione di candelotti lacrimogeni/ è stato centrato alla schiena cadendo immediatamente/ Coi bottoni dorati e gli ottoni lucenti/ fischiando la marsigliese/ mentre il vento fa il solletico ai sogni/ rimasti impigliati nel cancello dei denti.
Con l’acuta preveggenza che lo contraddistingue, Giorgio Gaber ne La presa del potere (1972), allestisce uno scenario futuribile, ma non troppo, di golpe borghese. Un avanzare lento, quasi un contagio. Inarrestabile. Un clima angosciante, di revanscismo destrorso che tracima. In questo modo:
Avvolti in lucidi mantelli/ guanti di pelle, sciarpa nera/ hanno le facce mascherate/ le scarpe a punta lucidate/ sono nascosti nella sera/ Non fanno niente, stanno fermi/ sono alle porte di Milano/ con dei grossissimi mastini/ che stan seduti ai loro piedi/ e loro tengono per mano/ Han circondato la città/ la stan guardando da lontano/ sono imponenti e silenziosi/ [...] E l’Italia giocava alle carte/ e parlava di calcio nei bar/ e l’Italia rideva e cantava [...] Ora lavorano più in fretta/ hanno moltissimi alleati/ hanno occupato anche la RAI/ le grandi industrie, gli operai/ anche le scuole e i sindacati/ Ora si tolgono i mantelli/ son già sicuri di aver vinto/ anche le maschere van giù/ ormai non ne han bisogno più/ son già seduti in Parlamento/ Ora si possono vedere/ sono una razza superiore/ sono bellissimi e hitleriani.
Come si vede, qualcosa di infido, di criptico, di misterioso, che allunga le trame mentre il cittadino medio (ahilui) gioca alle carte e parla di calcio nei bar. Distratto. Assuefatto. Pavido. Alienato. Indifferente alle cose (ai fatti) che contano davvero. Un’ignavia intellettuale, quella dell’italiano-tipo, stigmatizzata anche da Stefano Rosso. Nel 1978, in un clima di terrorismi diffusi (in molti sensi), la sua Colpo di stato illustra come tutto, nel Belpaese, risulti, in fin dei conti, velleitario. Destinato a finire a tarallucci e vino (“Colpo di stato/ ma che colpo se lo stato qui non c’è/ colpo di stato/ vai allo stadio? Aspetta, vengo insieme a te”).
E tra gente che gesticola con le armi/ e tra i nuovi santi illuminati al neon/ sta nascendo un nuovo tipo di ideale/ quello yankee tipo “fatelo da voi”/ E tra scioperi d’autonoma estrazione/ lo studente che si interroga da sé/ sta covando forse la rivoluzione/ mentre la signora bene prende il tè/ Colpo di stato/ ma che colpo se lo stato qui non c’è/ Colpo di stato/ e qui intanto farà il colpo del caffè [...] Poi c’è chi cercando la rivoluzione/ ha trovato infine le comodità/ chi confonde il pranzo con la colazione/ chi confonde la salute con l’età/ E da migliaia d’anni non cambia la storia/ Giulio Cesare, Cavour testa pelata/ e il copione ormai lo san tutti a memoria/ è la solita, non cambia la menata/ Colpo di stato/ ma che colpo se lo stato qui non c’è/ Colpo di stato/ vai allo stadio?/ Aspetta, vengo insieme a te.
Lo stadio è assumibile come luogo-simbolo dell’indole italiana. Una nazione da bar-sport (versione aggiornata del luogo comune “italiano pizza e mandolino”). Eternamente irrisolta. Infelice. Lamentosa. Soprattutto incompiuta. La nazione delle tragedie sfiorate, delle coppe del mondo acciuffate coi denti, delle rivoluzioni, invece, mancate di un soffio. E così anche gli appuntamenti decisivi con la storia. Ancora Stefano Rosso, qualche anno dopo (1980), nella fototessera collettiva – un po’ complice e moltissimo feroce – data da L’italiano. Dove si ride piuttosto per non piangere:
[...] Siam tutti preti, navigatori/ figli di ‘gnotta e grandi cantautori/ Mamma è una santa/ le altre da bordello/ se perde il Napoli faccio un macello/ Se trovo un portafogli perché è vecchio/ tv a colori e pane dentro al secchio/ Siam diplomatici, laici, estremisti/ frutteti-asmatici e poi femministi/ di calcio tecnici, d’amor maestri/ figli di parroci in gite campestri/ Del cruciverba siamo i pensatori/ quattro infermieri, centosei dottori [...] Ma cosa guardi, cosa c’è di strano?/ Chi sono dici? Beh, sono italiano/ son stato il primo a perdere la mano/ sia col tedesco che l’americano/ Confesso, è vero, ma non è finita/ prossima vittima è l’ora proibita/ Ma cosa guardi, cosa c’è di strano?/ Chi sono dici? Beh, sono italiano!
*Estratto dal libro Il nemico non è. I cantautori, la guerra e il conflitto sociale, Mario Bonanno, Paginauno edizioni