Napolitano, Unipolarismo politico e riforma del lavoro per un capitalismo strangolato dalle proprie contraddizioni sistemiche
Il dato più inquietante di questi ultimi anni è la condizione di indigenza in cui sono cadute molte persone che pure hanno un lavoro. Verificarlo non è difficile; basta parlare con la gente per sapere che un salario oggi non è più garanzia di sopravvivenza. Il ventaglio dello stipendio medio si aggira tra i 700 e i 1.100 euro mensili, al netto delle tasse. Se si considera che l’affitto di un bilocale in Milano e provincia viaggia sui 750 euro (cifra a cui, in molti casi, vanno aggiunte le spese condominiali), e che a questa spesa si sommano le bollette varie (in costante crescita), gli aumenti Istat, il cibo, l’auto… si fa presto a rendersi conto che uno stipendio non basta più per vivere.
Ma ciò che più sorprende è la convinzione di questa massa di persone che le ragioni della crisi siano rintracciabili nell’esplosione della bolla finanziaria o nel fatto che il potere d’acquisto sia diminuito. In quest’ultimo caso, non pochi pensano che la colpa sia dell’euro. Sulla base di tale convinzione, è normale che queste persone si chiedano perché nessun politico, oltre a parlare di ridurre la disoccupazione, inserisca tra i problemi da affrontare quello degli stipendi da fame, visto che una soluzione del genere contribuirebbe a far tornare i lavoratori nei negozi ad acquistare.
Ora: che le merci ristagnino sugli scaffali dei negozi e nei magazzini delle aziende, è un fatto; ma va ricordato che lungi dall’esserne la causa, l’incapacità del mercato di riassorbire le merci è la vera ragione della crisi – e, di conseguenza, dei licenziamenti, del taglio degli stipendi e della tendenza dei capitalisti a delocalizzare la produzione. Leggendo i quotidiani o guardando le notizie, non è questa una cosa che si possa apprendere. I giornali riportano le frasi dei politici, nessuno dei quali, soprattutto a sinistra (nemmeno tra i ribelli del Pd), ha interesse a elaborare un’analisi chiara e sincera della situazione. Anche perché, per spiegarla, occorrerebbe recuperare l’Abc del pensiero di sinistra e, di conseguenza, svelare la reale funzione dell’intoccabile governo delle larghe intese, tanto caro a Napolitano.
A ogni modo, il pensiero di sinistra è acqua passata. La vecchia guardia da tempo non ha più interesse a recuperarlo (Cacciari addirittura, baloccandosi con l’etimologia, nel luglio scorso, su Repubblica, ha spiegato che la stessa parola ‘sinistra’ non ha più senso e che è ora di eliminarla dal vocabolario politico), e tra i giovani virgulti pochi sembrano conoscere le basi di questa filosofia politica che pure appartiene ai momenti più significativi della loro storia. Adesso l’unico pensiero sono le famigerate riforme. Un concetto continuamente richiamato in maniera fumosa.
Si parla di riforma elettorale, riforma della giustizia, della Costituzione, ma l’unica certezza è che il vero bersaglio da centrare, la ragione ultima del governo Letta è l’adeguamento del mercato del lavoro alle esigenze dei capitani d’industria. I richiami di questi ultimi, a tal proposito, si fanno sempre più lugubri e disperati.
Un esempio dell’inconsolabile sconforto del padronato l’ha dato a fine luglio l’ad di Fiat Marchionne, quando ha riproposto, in occasione di una straziante conference call con gli analisti sui dati della semestrale, il suo evergreen intitolato: “L’impossibilità di fare impresa in Italia”. Nel suo pianto non è mancata la parolina magica ‘riforme’, dopo la quale è arrivato l’immancabile ricatto: “Abbiamo le condizioni necessarie per realizzare i modelli dell’Alfa ovunque nel mondo”.
Superfluo dire che, dopo la sentenza della Consulta che gli impone di reintegrare i tre operai licenziati nello stabilimento di Melfi, nel mirino di Marchionne c’è la Fiom (1) – rea di impedirgli il governo delle fabbriche. L’amministratore delegato, comunque non ha bisogno di spiegarlo, perché i messaggi consegnati ai giornalisti, e riportati nudi e crudi da quotidiani e tg, sono destinati ufficialmente al Parlamento e non al generico lettore. Nessuno si sogna mai di spiegare che, minacciando il governo di delocalizzare definitivamente la Fiat, Marchionne minaccia il governo di creare una situazione di instabilità sociale. O riforme, quindi, o morte!
Ma, ricatto a parte, il vero problema di Marchionne è un altro, e viene da ridere a pensarci. La Fiom, in fondo, è solamente un incidente di percorso, legato a un guaio più ampio e profondo determinato dalle leggi stesse del sistema di produzione alle quali risponde il capitalismo, che tanto gli è caro. Quelle stesse leggi che generano uomini come lui, ai quali un regime che si dice democratico, sempre in onore della pace sociale, deve necessariamente contrapporre un’associazione (e la Fiom è una di queste) che difenda i diritti dei lavoratori in fabbrica.
Nel film di Rosi, Le mani sulla città, il protagonista, un imprenditore impegnato in una speculazione edilizia criminale, in una scena memorabile rimprovera il proprio politico di riferimento (democristiano) di costringerlo, per motivi di convenienza politica, a tenere fermo il denaro. I soldi, dice, sono come i cavalli: hanno bisogno di mangiare in continuazione. Una metafora efficace per dire che un’azienda, una volta avviata, risponde a leggi che non dipendono più dalla volontà dei singoli capitalisti: 1) alla fine del ciclo di produzione e di circolazione delle merci, il risultato deve essere sempre un profitto; 2) il guadagno del capitalista matura nella fase di produzione e riguarda il salario del lavoratore.
È proprio quest’ultimo punto l’oggetto del contendere – dal quale dipende anche il primo, nonché l’intero impianto su cui si regge il capitalismo industriale – a cui allude Marchionne. Storicamente, il salario ha la funzione di permettere al lavoratore di mantenersi in vita secondo le necessità dettate dalle esigenze sociali del proprio tempo e, per rimanere a oggi, secondo lo stile di vita vigente nel luogo in cui vive.
Il problema dei capitalisti occidentali – e in particolare degli italiani, per i quali l’unico modo di competere sul mercato è mantenere basso il costo del lavoro – è il frutto di uno dei grandi paradossi del capitalismo. Per decenni, questi capitalisti hanno aumentato la produzione inondando il mercato di merci; hanno messo in piedi un sistema mediatico come mai se ne è avuti nel corso della storia, mirato a consacrare il consumo smodato di beni superflui a unico modello esistenziale, raggiungendo l’obiettivo di alzare il tenore di vita necessario; e quando ce l’hanno fatta, adeguando (con criterio, sempre attenti a non esagerare) gli stipendi alla possibilità di riacquistare da consumatori le merci che, da lavoratori, le persone producono, ecco che il mercato è diventato saturo e non è stato più in grado di smaltire il progressivo aumento della produzione che, secondo le sue stesse leggi (il famoso cavallo che sempre deve mangiare), il capitalismo pretende.
Così, adesso, i vari Marchionne lamentano di essere costretti a retribuire i propri dipendenti secondo il modello di vita che essi stessi hanno reso loro indispensabile per condurre una normale e placida vita borghese. Per cui uno stipendio medio dovrebbe garantire a un lavoratore non solo vitto e alloggio, come all’inizio del Novecento, ma anche la possibilità di spostarsi per recarsi al lavoro e per spendere la sera e nei fine settimana, il cellulare e tutti i suoi derivati sempre più costosi – e, pare, sempre più necessari – viaggi, qualche cena fuori casa, gli happy hour, sky e chi più ne ha più ne metta. Quello che era un circolo virtuoso per il mercato è oggi diventato vizioso per l’azienda che paga i salari.
C’è infatti una terza legge a cui il capitalista deve sottostare, per non ‘morire’: l’aumento dei profitti deve essere continuo e progressivo. Impresa difficile in periodi di crisi. E qui entra in gioco la seconda delle leggi, il campo di battaglia storico della lotta di classe, l’annoso tiro alla fune tra padroni e lavoratori. Sempre meno dipendenti sanno da quale fase della dinamica aziendale provenga il profitto per il proprio datore di lavoro. Il processo aziendale si sviluppa in due tappe. Si realizza attraverso la vendita della merce sul mercato commerciale, ma viene creato precedentemente, nella fase di produzione, sulle spalle del dipendente.
Lo stipendio, infatti, non copre in sé l’intero monte di ore lavorate, bensì solo quella parte con cui il lavoratore produce il valore necessario alla propria sussistenza, secondo, come detto sopra, le esigenze di vita dettate dalla società in cui vive. Questo significa che egli non smette di lavorare nel momento in cui si è ripagato (questo processo, grazie alla tecnologia, oggigiorno non dura più di 3/4 ore), ma per il resto della giornata lavorativa continua a produrre un valore che finisce in tasca al proprietario dell’azienda. Il fatto che buona parte degli stipendiati non sappia queste cose – detto per inciso – dimostra quanto male e in malafede abbiano lavorato in quest’ultimo ventennio i sindacati e i partiti di sinistra.
Ora, e qui riprendiamo Marchionne: la necessità di erodere la parte del lavoro in cui il dipendente si paga la propria sussistenza (e quindi abbassare di fatto lo stipendio facendo lavorare maggiormente il dipendente a proprio profitto), è la ragione dell’agitazione sua e della buona parte dei capitalisti italiani.
L’assedio ai diritti fondamentali del lavoro, che da vent’anni il padronato porta avanti senza soluzione di continuità, ha come obiettivo questa operazione di erosione. Ecco di cosa parlano i politici quando dicono ‘riforme’. Lo stesso obiettivo, mai sinceramente dichiarato e definito, per cui Napolitano, al fine di superare le oziose divisioni parlamentari e ‘democratiche’ (ovvero di eliminare definitivamente ogni forma di opposizione dal Parlamento che parli a nome dei lavoratori), ha messo al potere prima un governo tecnico, e adesso, rinunciando al proprio pensionamento, si sta dando da fare, tra un ricatto e l’altro, per mantenere in vita il cosiddetto governo di larghe intese. La scusa nobile? La crisi, il grave momento di emergenza. Da sempre, le crisi economiche sono un ottimo terreno su cui piantare la bandiera delle riforme del mercato del lavoro. E non è più un mistero che la formula preferita da politicanti e capitalisti sia l’Unipolarismo politico.
Nel momento in cui l’eccessiva produzione di merci esonda sul mercato fino a renderlo saturo e fatalmente incapace di riassorbirle, si crea, come si diceva, uno dei numerosi paradossi del capitalismo.
Si tratta di un grave problema che il sistema di produzione vigente riproduce a fasi cicliche nel corso della propria storia. È una situazione molto delicata perché se il padrone non vende le merci sulle quali ha ricaricato le ore di lavoro non retribuite pagate al dipendente, non ha la possibilità di realizzare il proprio guadagno. Viene così inevitabilmente a crearsi una situazione di stallo economico destinata a disattendere la prima e la terza legge. Messo con le spalle al muro, per non morire il padronato deve fare in modo che i profitti continuino a essere continui e costanti, e per riuscirvi non ha altra scelta che dichiarare guerra ai propri lavoratori riducendo i salari e aumentando le ore di lavoro.
Creare le condizioni ottimali, e legali (e quest’ultima è la parola chiave, alla faccia dei neoliberisti che predicano meno Stato), per un maggior sfruttamento, è compito dei governi. E la frequenza con cui ci riescono, è lì a dimostrare quanto fragile e aleatorio sia (per non dire illusorio) il concetto di democrazia parlamentare. Il precariato e la riforma dell’articolo 18 – che per l’appunto permettono di pagare meno e di far lavorare di più i lavoratori ricattandoli con la carota del rinnovo contrattuale – ne sono un esempio lampante. È evidente, però, che la missione distruttiva dei diritti del lavoro non sia completa, come è altrettanto chiaro che vada portata a termine senza costringere i due partiti di massa a sporcarsi le mani con operazioni impopolari di fronte al proprio elettorato. Non è difficile capire, quindi, quale sia l’obiettivo del governo delle larghe intese.
L’Italia è un Paese strano. Longanesi sosteneva che governare gli italiani non è difficile ma inutile (una frase, chissà perché, spesso attribuita a Mussolini). Forse c’è del vero in questa affermazione. Sicuramente il popolo italico forma un elettorato volubile e rancoroso, e ultimamente piuttosto stanco di teatrini. Va da sé che in questo i politici della sedicente seconda Repubblica, in crisi di credibilità, hanno una grossa responsabilità. Buffo è semmai notare che l’unico politico di cui si fidino davvero sia proprio Napolitano, colui che maggiormente sta contribuendo al massacro sociale.
Gli ultimi due anni di sospensione della democrazia sono una sua invenzione. Che stia lavorando a favore del padronato è fuori di dubbio. La sua ossessione sono la governabilità e le riforme. Napolitano si è fatto carico della crisi nella consapevolezza che essa non durerà per sempre e che ormai rimanga poco tempo per sfruttarla a dovere, secondo gli interessi di Confindustria. Gli stessi padroni del vapore sanno che egli è l’unico a godere di una robusta credibilità, agli occhi dei cittadini, e a rappresentare l’ultima possibilità di uscire dalla situazione di stallo politico.
Napolitano è il classico Uomo forte, una figura che tanto piace al ventre molle del Paese, tanto sognata dal padronato e che tanti danni ha creato alla storia passata dell’Italia. Oggi, proprio come accadeva per gli uomini forti del passato, i giornali sono tutti con lui. D’altro canto, si sa a quali gruppi di pressione appartenga l’informazione. E certamente, nessuno di questi parteggia per i lavoratori.
La costante dell’ultimo Meeting di Rimini, è stato l’auspicio bipartisan della fine della divisione in destra e sinistra della politica. Una conferma delle doti da surfista di Cacciari, oltre di quanto forte sia il desiderio da parte degli industriali di liberarsi della mediazione politica, se non mantenendola in vita con funzione di facciata. Questa esigenza di cambiare la forma curando di non mutare la sostanza – trasversale e necessaria in tempi di crisi a tutte le antiche forme di potere (e in attesa che anche la mafia si metta al passo con i tempi) – è in atto da un annetto, con un potente restyling che interessa non solo la politica, bensì tutte le poltrone di comando.
Ha iniziato Confindustria, mettendo al posto dell’ariete Marcegaglia un gentile emiliano, che con il popolo condivide la passione per il calcio, come Squinzi. Quindi è stata la volta del Vaticano che ha sostituito, dopo averlo seppellito sotto un monte di guai, il ringhioso Ratzinger, con il paterno sorriso di Bergoglio. E ha chiuso il cerchio Napolitano inventando la necessità di un governo delle larghe intese, ricostruendo di fatto le macerie parlamentari lasciate dal cinico Monti e dalla sua armata di tecnici.
A questa bisogna il volto anonimo di Letta era l’ideale, essendo l’unico ancora non coinvolto ufficialmente nell’agone degli scontri elettorali, e per questo credibile in un ruolo di salvatore della patria. Fedele alla linea, infatti, questi ha, per prima cosa, definito il proprio come un “governo di servizio”. Anche se non è specificato a servizio di quale tavolo: certo è che stia lavorando in un ristorante di lusso.
Il fido Letta, a ogni modo, sta agendo con solerzia per salvare il Paese e, allo stesso tempo, per restaurare la facciata del Pd in grave crisi di identità, tentando di seguire la linea tracciata da Veltroni all’epoca della sua candidatura contro Berlusconi. In altri ambienti più ‘vivaci’ la chiamerebbero la prova del sangue. Dimostrare cioè, nel caso specifico della politica politicante di centrosinistra, la propria affidabilità come partito di governo agli occhi dei padroni del vapore. Il che significa sganciarsi in maniera netta e ufficiale dal sindacato, riuscire a mettere in piedi un modello di Parlamento unipolare e garantire finalmente quella governabilità al Paese, dopo la quale Napolitano potrà godersi la meritata pensione.
Se poi gli eccessivi costi della politica saranno ancora un problema, potrebbe essere utile una riforma che avrebbe, per una volta nella storia dei lavori parlamentari, il pregio della sincerità: privatizzare il Parlamento. È sicuro che i capitalisti troverebbero la maniera più efficace di tagliarli. In fondo, anche la creazione del Parlamento europeo è stata un’efficace forma di outsourcing.
(1) Cfr. A. Piccinini, Fiat, democrazia e Costituzione, Paginauno n. 34/2013