di Daniela Bettera e Lara Peviani |
I ministri ‘tecnici’: facce nuove? Non sembra. Da dove vengono, chi rappresentano e quale continuità garantiscono
Competenti lo sono di sicuro, ma bisogna vedere di che cosa; perché tecnici, di certo, non lo sono affatto, se per ‘tecnico’ si intende apolitico. I ministri del governo Monti sono stati presentati, con curriculum più o meno completi, analizzati, elogiati o criticati; di loro sono stati evidenziati i singoli conflitti di interesse, i singoli poteri più o meno forti di cui innegabilmente sono rappresentanti. Ma se si fa un passo indietro, per avere una visione più ampia e complessiva, e al posto di uno zoom si usa un grandangolo, la fotografia che si ricava della ‘squadra’ offre una chiave di lettura del governo Monti molto più interessante.
Certo occorre guardare l’immagine che pian piano si mette a fuoco tenendo a mente quelli che sono i progetti di ‘riforma’, la direzione univoca che ha preso la politica europea, approfittando della crisi economica: feroce neoliberismo, svendita del patrimonio pubblico, smantellamento dello Stato sociale, compressione dei diritti del lavoro. Ed ecco allora che i curriculum dei ministri rivelano la natura fortemente ideologica e di classe di questo governo, portatore degli interessi della grande aristocrazia industriale e della finanza cattolica, supportato da un’area che si può definire ‘di garanzia’.
AREA INDUSTRIA
È noto che Mario Monti abbia un curriculum in cui spiccano intrecci e influenze élitarie nel mondo delle banche e della finanza, ma nessuno parla del fatto che il presedente del Consiglio è stato innanzitutto un ‘uomo Fiat’ per quattordici anni. Dal ’79 al ’93 ha fatto parte del Cda dell’azienda torinese, assumendo sempre posizioni di comando, specie dal 1988 in avanti, quando sedeva nel comitato esecutivo assieme a Gianni e Umberto Agnelli, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens.
Nel 1986 la Fiat ottenne la cessione dell’Alfa Romeo, tolta all’Iri da Romano Prodi, l’allora presidente, con il benestare dello Stato; in cambio si impegnò a mantenere i 40.000 lavoratori a rischio di Arese e Pomigliano. Ma nel novembre del 1993 Fiat ridusse a 4.000 e poi a zero i lavoratori che avrebbe dovuto conservare e successivamente chiuse l’Alfa, ricevendo dallo Stato 1.000 miliardi di vecchie lire per costruire lo stabilimento di Melfi e poi altri 2.000 miliardi per Arese e Pomigliano. Tutto questo fu possibile grazie alle tangenti che la Fiat pagò ai politici complici; e tutto questo avvenne mentre Monti era nell’esecutivo Fiat e a capo della fi nanziaria dell’azienda (Gruppo Fidis).
Nell’aprile del ’97 il tribunale di Torino condannò Romiti e Mattioli (rispettivamente presidente e direttore centrale della Fiat) e la Cassazione, nel 2000, confermò la sentenza per il primo. Potevano Mario Monti, il presidente onorario Agnelli e gli altri membri del comitato esecutivo Fiat non sapere nulla delle tangenti e dei fondi neri? Nonostante questi soldi gli girassero sotto il naso, avvolti in carta di giornale (come si legge su un articolo di Repubblica del 15 giugno 1995) e recapitati alla segretaria di fi ducia di Romiti per essere divisi in piccole mazzette?
La procura di Torino aprì in effetti un’inchiesta su tutti i membri del comitato esecutivo: gli Agnelli, Monti, Gabetti e Stevens vennero uffi cialmente indagati per falso in bilancio nel maggio 1998. Ma qualsiasi tentativo di trovare prove a loro carico fu frustrato dall’omertà e dalle negazioni dei testimoni. Il primo settembre dello stesso anno il fascicolo fu archiviato dal gip Paola de Maria, che scrisse: “È storicamente provato che Agnelli, negando le tangenti Fiat, mentì agli azionisti ma non è provato che ne fosse al corrente. Sulla conoscenza sua e degli altri quattro rimane perlomeno un ragionevole dubbio”.
Una faccia della medaglia, questa del Monti uomo di industria, un po’ scomoda per chi si presenta come un ‘tecnico’ traghettatore che vuole imporre un nuovo corso alla nazione e proiettarla in Europa e nel libero mercato, perché nasconde vizi vecchi e ‘very Italian style’: la corruzione e le tangenti.
Paola Severino, vice rettore dell’università Luiss, di proprietà di Confindustria, è il ministro della Giustizia. Famoso avvocato proveniente dallo studio legale di un altro ex guardasigilli, Giovanni Maria Flick, è molto ricca e potente (nel ’98 ha dichiarato un reddito di 3,3 miliardi di vecchie lire). Vanta infatti una lista sterminata di clienti eccellenti del tutto trasversale agli schieramenti politici e alle lotte di potere interne al capitale: L’Eni, l’Enel, la Telecom, la Sparkle, la Total e la Rai. E ancora Francesco Rutelli, Geronzi per il crac Cirio, Roberto Formigoni, Gaetano Gifuni (ex segretario della presidenza della Repubblica) oltre a Salvatore Buscemi, ritenuto uno dei mandanti della strage di Capaci; tra i suoi assistiti ci fu anche uno dei dirigenti di polizia imputati per l’irruzione nella scuola Diaz al G8 di Genova.
Ha difeso Romano Prodi dall’accusa di abuso di ufficio nel processo sulla vendita della Cirio, e su opposta sponda ha assunto la difesa del legale della Fininvest Giovanni Acampora, accusato di corruzione in atti giudiziari nel processo Imi-Sir Suo cliente è infine Francesco Gaetano Caltagirone, implicato nella vicenda Enimont, costruttore ed editore (del Messaggero, del Mattino e di altri quotidiani), oltre che suocero di Pier Ferdinando Casini.
Dalle pagine del Messaggero, di cui lei stessa è editorialista, la Severino ha fatto dichiarazioni sulle intercettazioni telefoniche e sull’evasione fiscale, decisamente in linea col berlusconismo. Non a caso era stata tra i papabili sostituti di Angelino Alfano al ministero della Giustizia, ai tempi del governo Berlusconi. Paola Severino è insomma la scelta azzeccata di un governo portatore degli interessi della grande industria, di cui è sempre stata una paladina senza troppi scrupoli.
Francesco Profumo ha una lunga carriera accademica che oggi corona con l’incarico di ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca. Nominato rettore del Politecnico di Torino nel 2005, dall’agosto 2011 è presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), su incarico dell’ex ministro Gelmini. È stato membro del consiglio di amministrazione di Unicredit, Il Sole 24 Ore, Fidia, Reply e dal 2011 siede nei Cda di Telecom e Pirelli. Il suo rettorato al Politecnico è stato caratterizzato da una forte volontà di collaborazione con aziende nazionali e internazionali quali la Microsoft, la Motorola, la Fiat, la General Motors e la Pirelli, oltre che da una riorganizzazione dell’università che ha visto la chiusura di sedi decentrate e l’adozione di un regime di gestione aziendalistico in linea con la legge Gelmini; il tutto messo in piedi ignorando le manifestazioni degli studenti e gli scioperi dei lavoratori, per primi i precari, tra cui ricercatori e personale tecnico e amministrativo.
Viste le premesse, risulta chiaro che l’intento di Profumo è continuare nel solco del suo predecessore: creare scuole e università fortemente orientate alle esigenze della grande industria, e addio alla cultura e alla ricerca che non produce profitti.
Piero Gnudi, dottore commercialista, è ministro dello Sport e del Turismo. Il suo curriculum è a dir poco ingombrante. È stato membro di moltissimi consigli d’amministrazione e sindaco di importanti società. Presidente Enel per tre mandati consecutivi, è stato anche presidente dell’Iri, dove ebbe l’incarico di monitorare le privatizzazioni dell’ente, oltre che di Rai Holding, Locat e Astaldi. Consigliere di amministrazione di Unicredit e de Il Sole 24 Ore, è membro del direttivo di Confindustria, del consiglio generale e della giunta direttiva di Assonime (associazione tra le società italiane per azioni) e dell’Aspen Istitute, lobby internazionale finanziaria/industriale.
Fa parte del comitato direttivo del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti, del comitato per la corporate governance delle società quotate, ed è presidente onorario dell’Osservatorio mediterraneo dell’Energia. È, oppure è stato, anche in Enichem, Stet, Merloni, Ferrè, Beghelli, Irce, Ferrero, Marino Golinelli e Dalmazia Trieste. Vista la sua intensa attività professionale non stupisce che abbia relazioni con tutto il mondo politico ed economico. È considerato il garante di Casini, e ha buoni rapporti con Berlusconi e D’Alema.
Ma perché questo ministero nelle mani di un uomo d’industria così potente? Sarà perché fa sport e turismo andando in bicicletta con Romano Prodi, suo ottimo amico? È molto più probabile che, al di là del proprio incarico, Gnudi sia stato inserito nel governo come garante degli interessi della grande industria in tutte le questioni che riguarderanno lo smantellamento del patrimonio pubblico e le privatizzazioni travestite da liberalizzazioni… un uomo, un voto (o un veto…).
Di Corrado Clini si può dire che sia rimasto nel suo ‘ambiente’ visto che per vent’anni è stato direttore generale del ministero dell’Ambiente e Tutela del territorio e del mare, di cui ora è alla guida. Nella sua carriera è stato coinvolto in vari scandali legati a disastri ecologici, come quello del Jolly Rosso, la nave che nel 1989 riportò dal Libano tonnellate di rifiuti tossici sversate da aziende lombarde alla Monteco di Porto Marghera. Nel ’90 gestì ingenti fondi per l’Enichem di Manfredonia, il cui risanamento è stato completato solo pochi anni fa. Tuttora non è ancora ultimata la bonifica dell’area Acna di Cengio, nel Savonese, di cui si occupò sempre negli anni Novanta, e i cui rifiuti sparirono nei traffici occulti della Campania. Nel 1996 è stato indagato dalla procura di Verbania per l’inquinamento prodotto da un inceneritore della società svizzera Thermoselect: la sua posizione è stata archiviata grazie all’avvocato Carlo Taormina. E ancora nel 2007 è stato partecipe di manovre poco chiare connesse a una discarica a Nairobi, denunciate dai missionari comboniani e dal Corriere della Sera.
Molto chiare sono invece le sue posizioni su nucleare, Tav e termovalorizzatori: “L’Italia dovrebbe considerare l’energia nucleare”, “La Tav è da fare assolutamente”, “La mancanza di sicurezza dei termovalorizzatori è un pregiudizio”, sono alcune delle sue dichiarazioni in merito.
Insomma si può concludere che Clini, al di là della facciata ecologista, è sempre stato uomo di collegamento tra industria e istituzioni e ha sempre dimostrato, con le sue scelte, di agevolare più i progetti industriali che quelli ambientali.
Fabrizio Barca, ministro per la Coesione territoriale, è figlio di Luciano Barca, direttore dell’Unità, economista e stretto collaboratore di Enrico Berlinguer. Dopo essere stato dirigente nel Servizio studi della Banca d’Italia, Ciampi lo ha voluto al vertice del Dipartimento politiche di sviluppo con l’obiettivo di rilanciare il Sud. È stato tra i creatori della cosiddetta NPR, la Nuova Politica Regionale per il Sud, che fu ideata a Catania nel 1998 da Giuseppe De Rita, presidente del Cnel, da Ciampi e da Barca, appunto, che della NPR doveva essere l’esecutore tecnico. Gli strumenti principali di questo antesignano del federalismo erano i patti territoriali e i contratti di area che prevedono il coinvolgimento di imprenditori, sindacati e politici locali nella firma di un accordo, finanziato dallo Stato, a favore di un’iniziativa industriale. Ma purtroppo la NPR si è rivelata fallimentare. I rapporti della Corte dei Conti, della Banca d’Italia e dei centri studi indipendenti, esprimono in cifre il flop di questa iniziativa. E lo ha infine ammesso lo stesso Barca durante un convegno di Bankitalia nel 2009: “Ogni tentativo di manipolare l’economia e la società del Sud con sussidi, gabbie salariali, imposte differenziali o esenzioni d’imposta, è destinato ad attrarre le imprese e le teste peggiori, a richiamare investimenti e imprenditori ‘incassa e fuggi’”.
Oggi Barca, nelle sue prime dichiarazioni da ministro, sembra essersi dimenticato di quanto detto nel 2009 e torna a parlare di sgravi fiscali e di pioggia di soldi per le imprese che investono al sud… ne sarà lieta la grande industria.
Piero Giarda, ministro per i Rapporti con il Parlamento, è attualmente responsabile del Laboratorio di analisi monetaria dell’università Cattolica. Ricopre inoltre l’incarico di vice presidente della Fondazione Milano per la Scala, è membro dell’Aspen Institute e responsabile del progetto di ricerche tra Regione Lombardia e università Cattolica sul tema del federalismo fiscale. Non è affatto nuovo ad aule e commissioni parlamentari: è stato sottosegretario di Stato al ministero del Tesoro dal 1995 al 2001, con i governi Amato, D’Alema I e II, Prodi I e Dini I e l’ex ministro Tremonti gli ha affidato il compito di coordinare uno dei tavoli della riforma fiscale, quello sulla spesa pubblica. Ma oltre al Parlamento, Giarda ha frequentato banche e industrie: è stato consigliere di sorveglianza del Banco Popolare, presidente della Banca Popolare Italiana (ove ha ricoperto anche la carica di consigliere di amministrazione per due anni), consigliere di amministrazione di Acea (municipalizzata acqua gas energia di Roma) e di Pirelli.
Forte della sua profonda conoscenza della macchina parlamentare e dei suoi ingranaggi, e legato a doppio filo con industria e finanza, Giarda ha tutte le caratteristiche per essere un perfetto mediatore di interessi.
AREA FINANZA
Corrado Passera, laureato Bocconi, fino a ieri amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, è il ministro per lo Sviluppo economico, delle infrastrutture e dei trasporti. In oltre trent’anni di carriera si è occupato di informatica, finanza, editoria, credito, amministrazione pubblica, banche. Nel 1980 entra in McKinsey, società di consulenza manageriale, nel 1991 è direttore generale della Mondadori Editori e poi del Gruppo l’Espresso, dal 1992 al 1996 è coamministratore delegato del gruppo Olivetti; nel 1996 è amministratore delegato e direttore generale del Banco Ambrosiano Veneto, dove conclude la prima grande operazione di consolidamento bancario, con Cariplo. Nel 1998 è amministratore delegato di Poste Italiane, dove taglia 20.000 posti di lavoro e viene denunciato da alcuni sindacalisti per la selvaggia precarizzazione dei contratti dei neoassunti. Dal 2002 è amministratore delegato di Banca Intesa, che nel 2007 si fonde con S. Paolo IMI e diventa Intesa Sanpaolo, la ‘banca per il Paese’. È infatti la potente banca della finanza bianca di cui il cattolico Bazoli è presidente del Consiglio di sorveglianza, la banca advisor dell’operazione Cai-Alitalia (di cui detiene l’8,86%), che finanzia la NTV di Montezemolo e Della Valle e moltissime opere private e pubbliche nel campo delle grandi infrastrutture, dei progetti urbanistici, del sistema sanitario, delle università e della ricerca e dei servizi di pubblica utilità.
Passera è uomo di finanza (bianca) e di industria: nel nuovo ruolo di ministro saprà certamente a chi rivolgersi per sostenere e finanziare lo sviluppo economico del Paese.
Elsa Maria Fornero, ministro del Lavoro e delle politiche sociali con delega alle pari opportunità, è una delle più stimate studiose della riforma dei sistemi di welfare – ovviamente negli élitari circoli finanziari internazionali – e la prima donna a scalare le vette del mondo maschilista delle banche.
Dal 2008 al 2010 è stata vicepresidente della compagnia di San Paolo, uno dei principali soci di Intesa Sanpaolo, e nel biennio 2010-2011 è vice presidente del Consiglio di sorveglianza della stessa banca, accanto a Bazoli; ospite fissa dei meeting di Comunione e Liberazione, di cui Intesa Sanpaolo è grande sponsor, è anche editorialista de Il Sole 24 Ore, docente di economia all’università di Torino e capo del Cerp (Centre for research on pensions and welfare policies), uno dei maggiori centri studio sullo stato sociale in Italia e in Europa. Peccato che la sua ideologia neoliberista applicata al welfare, che ha trovato concreta attuazione, dai primi anni Novanta, nei ricatti verso gli Stati messi in atto dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, abbia determinato un aumento impressionante della percentuale di persone sotto la soglia di povertà.
La Fornero fa parte dell’alta borghesia legata ai grandi gruppi finanziari e al mondo delle imprese. La prevenzione e la riduzione delle condizioni di bisogno e disagio delle persone e delle famiglie, nonché la tutela del lavoro e lo sviluppo dell’occupazione, sono materie di sua competenza. La manovra ‘Salva Italia’ è nata con le lacrime del ministro, e questo la dice lunga: risulta abbastanza difficile riuscire a tutelare i cittadini e, nello stesso tempo, il potere finanziario a cui appartiene. E capiamo benissimo da che parte deciderà di stare.
AREA CATTOLICA
Andrea Riccardi, che va a dirigere un ministero mai esistito prima, quello per la Cooperazione internazionale e l’integrazione, è il fondatore della Comunità di S. Egidio, la cosiddetta Onu di Trastevere. Sono i cattolici italiani più celebrati al mondo, e sono strutturati come una monarchia assoluta. Nel 1998 l’Espresso pubblicò un’inchiesta riguardante l’organizzazione che rivelava pratiche matrimoniali discutibili, culto eccessivo della personalità del ‘capo’ (Riccardi, appunto) e una struttura sfuggente come l’Opus Dei e influente come quest’ultima ai piani alti del Vaticano. L’attività internazionale di S. Egidio in Algeria, negli anni Novanta, fu contestata dai vescovi algerini e dall’allora ambasciatore italiano ad Algeri, Franco De Courten, per l’eccessiva ingerenza di un’organizzazione cattolica negli affari di un Paese islamico. Il nuovo ministero ha tolto la competenza sulla cooperazione internazionale alla Farnesina e si occuperà anche di giovani, famiglia, adozione di minori italiani e stranieri, tossicodipendenza e servizio civile; tutte aree nelle quali il terzo settore cattolico la fa da padrone, macinando potere, influenza culturale e soldi.
Riccardi è l’uomo giusto al posto giusto – creato appositamente per lui – per garantire e incrementare i forti interessi caritatevoli della Chiesa.
Lorenzo Ornaghi, ministro per i Beni Culturali, è rettore dell’università Cattolica dal 2002 ed è stato allievo di uno dei padri della Lega, Gianfranco Miglio, che riconosce come uno dei suoi maestri insieme a don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione. Dal 1998 è membro del consiglio di amministrazione di Avvenire, quotidiano della Cei, e dal 2002 ne è vicepresidente. Non è quindi un caso la sua aderenza intellettuale alle tesi del cardinale Ruini, che nei decenni di episcopato ha sostenuto la necessità di una presenza organizzata della Chiesa e dei cattolici nel mondo della cultura. Ricordiamo che Ruini è il cardinale che nel 2005, in occasione dei referendum abrogativi della legge 40 sulla fecondazione assistita e la ricerca scientifica sulle cellule staminali, invitò i cattolici a non presentarsi alle urne e lo stesso Ornaghi, schieratosi sul fronte del boicottaggio, definì il referendum uno strumento “povero, debole e improprio”.
Di quale ‘cultura’ Ornaghi sia portatore è abbastanza evidente, e preoccupante.
Nome noto ma persona poco conosciuta è invece il ministro per la Salute Renato Balduzzi, professore ordinario di diritto costituzionale nell’università del Piemonte Orientale e già consigliere giuridico dei ministri della Difesa (1989-1992), della Sanità (1996-2000) e delle Politiche per la famiglia (2006-2008). È componente del comitato scientifico delle riviste Quaderni regionali, Amministrazione in cammino, Politiche sanitarie, Dialoghi e Studium, tutte di area cattolica. Dal 2002 al 2009 è stato presidente nazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale (MEIC, già Movimento Laureati di Azione Cattolica), di cui dirige dal 2003 il bimestrale Coscienza; attualmente è componente per l’Italia dello European Liaison Committee di Pax Romana-Miic (Mouvement international des intellectuels catholiques) – Icmica (International Catholic Mouvement for Intellectual and Cultural Affairs). Per Balduzzi la parola ‘profilattico’ è ancora un tabù, avendo vietato di pronunciarla in Rai durante la celebrazione della giornata mondiale contro l’Aids. Salvo poi smentire il divieto. D’altra parte è fortemente attento all’Azione cattolica e ai movimenti ecclesiali che si propongono di ‘difendere la vita’.
Non male per un ministro della salute che dovrà decidere in merito a temi come la fecondazione assistita, l’aborto, l’uso di contraccettivi, l’eutanasia.
AREA DI GARANZIA
NAZIONALE
Antonio Catricalà, giurista e docente alla Luiss, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Non è nuovo a palazzo Chigi, dato che dal 2001 al 2005 è stato segretario generale della presidenza del Consiglio con il governo Berlusconi, al fianco di Gianni Letta, fino a quando il Cavaliere l’ha nominato presidente dell’Antitrust. In quel ruolo ha interpretato in modo del tutto personale il concetto di concorrenza e mercato: non un fiato in sei anni sulla posizione dominante di Mediaset nello spazio televisivo né quando la Rocksoil, impresa di famiglia del ministro delle infrastrutture Lunardi, si prese l’appalto per i lavori della metropolitana di Napoli, ma in compenso ha sanzionato l’Unione panificatori di Roma e provincia, tre agenzie di viaggi on line per ‘pratiche commerciali scorrette’, sedici aziende di cosmetica, si è interessato del comparto della pasta e del latte in polvere per l’infanzia… e così via.
Catricalà sottosegretario è certamente figura di garanzia per Berlusconi, ma non solo: è garanzia a tutto tondo per il grande capitale. Con lui si può star certi che le liberalizzazioni saranno privatizzazioni all’italiana, fotocopia di quelle dei primi anni Novanta: ossia svendite a due soldi del patrimonio pubblico e creazione di mono-oligopoli a favore dei soliti ‘capitani coraggiosi’.
Anna Maria Cancellieri, ministro dell’Interno, ex prefetto, è donna dal pugno di ferro, chiamata più volte nel corso della sua lunga carriera a raddrizzare situazioni storte. Commissario straordinario a Bologna e poi a Parma, in sostituzione di sindaci dimissionari a causa di scandali giudiziari di diversa natura, si è sempre distinta per la spiccata attitudine al problem solving che non contempla il confronto: epico lo scontro nel capoluogo emiliano con i sindacati di base, in rivolta contro i tagli al personale e la contemporanea assunzione di cinque dirigenti – l’ex prefetto risolse la questione piantando in asso gli interlocutori – ed esemplare la vicenda dell’inceneritore a Parma, costruito senza i necessari permessi a quattro chilometri dal duomo, bloccato dalla precedente giunta a seguito di proteste cittadine e un ricorso al Tar, che il neo ministro tentò di bypassare con una transazione finanziaria e una sanatoria che avrebbero regolarizzato la situazione. Memorabili anche alcune sue affermazioni, come quella pronunciata nel marzo 2009 a Genova, nelle vesti di prefetto: “Emergenza mafia? Non ci risulta. Non abbiamo nessuna denuncia né dati che ci spingano a ipotizzare l’esistenza di infiltrazioni mafiose serie a Genova”.
Peccato che nel luglio 2010 la magistratura arresti Domenico Gangemi, considerato uno dei referenti della ‘ndrangheta nel capoluogo ligure. Nel suo primo intervento davanti a una commissione parlamentare, la Cancellieri ha già lanciato l’allarme terrorismo (1): si può star certi che il neo ministro garantirà l’ordine pubblico con piglio deciso nel conflitto sociale che le riforme del governo Monti rischiano di innescare.
OLTREMARE
Giampaolo di Paola, ammiraglio, alle spalle una carriera ad alti livelli, è il primo militare in servizio nominato ministro della Difesa nella storia della Repubblica (il generale Domenico Corcione, divenuto ministro nel 1995 nel governo Dini, era già in pensione al momento della nomina). Vicinissimo agli interessi statunitensi (dal 2008 al 2011 è stato presidente del Comitato militare della Nato, massimo organo collegiale dell’Alleanza), ha seguito la guerra in Libia e al momento della nomina a ministro si trovava operativo in Afghanistan. Dal 2001 al 2004 è stato Direttore nazionale degli armamenti (forte quindi anche la relazione con l’industria militare): sua la fi rma sotto il memorandum d’intesa che lega l’Italia al programma di acquisto del caccia americano F35 Joint Strike Fighter (15 miliardi di euro e oltre).
Di Paola garantisce che la politica militare italiana non si allontanerà dall’area d’influenza statunitense, e quindi dalle guerre per l’accaparramento delle risorse vestite da ‘missioni di pace’.
Giulio Terzi di Sant’Agata, ministro degli Esteri, è uomo dalla lunga carriera ed esperienza diplomatica. È stato consigliere politico presso la Nato in un periodo particolarmente delicato per gli equilibri mondiali, ossia la fine della guerra fredda, la riunificazione della Germania e la prima guerra del Golfo; poi ambasciatore in Israele fra il 2002 e il 2004, rappresentante italiano all’Onu dall’agosto 2008 al settembre 2009 e ambasciatore negli Stati Uniti dall’ottobre 2009 al momento dell’incarico di governo – guadagnandosi la stima di Obama e il suo caloroso e pubblico ringraziamento nell’ultimo gala annuale italo-americano della Niaf (National italian american foundation), a ottobre 2011.
Forte sostenitore dell’impegno italiano in Afghanistan, Terzi di Sant’Agata completa per la parte più prettamente politica la vicinanza militare dell’Italia agli Stati Uniti, sancita da Di Paola al ministero della Difesa.
EUROPA
Enzo Moavero Milanesi, avvocato, già docente dell’università Bocconi e della Luiss, è ministro per gli Affari europei. Non è nuovo nell’ambiente politico di Bruxelles, nel quale vanta al contrario una lunga esperienza: segretariato per gli Affari europei con funzioni di coordinamento della politica economica italiana con quella comunitaria negli anni cruciali dei governi Amato e Ciampi (dal 1992 al 1994), durante i quali l’Italia affannosamente rincorse l’entrata nell’euro; funzionario della Direzione generale della concorrenza della commissione della Comunità europea nel 1993; vice segretario generale della commissione europea dal 2002 al 2005 e, soprattutto, capo di Gabinetto dal 1995 al 2000, quando commissario europeo era Mario Monti. I due sono quindi particolarmente in sintonia.
In un momento cruciale come quello attuale, nel quale l’Europa deve avere la forza di imporre ai Paesi membri la propria politica economica fatta di neoliberismo sfrenato, un ministero come quello per gli Affari europei è uno snodo cruciale; e Moavero Milanesi è certamente in grado di garantire il giusto collegamento tra la politica italiana e quella europea.
Mario Catania ha una lunga esperienza all’interno del ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali che oggi si trova a dirigere. Ha scalato tutti i vertici interni e dal 1987 si occupa della tutela economica dei prodotti agricoli, che tanto ha a che vedere con la Politica Agricola Comune (PAC) dell’Unione europea. Dal 1996 ha regolarmente preso parte ai lavori del consiglio dei ministri dell’Agricoltura della Ue; nel dicembre 1999 è nominato capo delegazione e portavoce italiano nel Comitato speciale agricoltura e durante la presidenza italiana dell’Europa, nel 2003, ne svolge anche le funzioni di presidente; nel 2005 è direttore della direzione generale delle politiche agricole del ministero e nel 2008 della direzione generale delle politiche comunitarie e internazionali di mercato, a cui fanno capo le competenze concernenti la politica agricola comunitaria e gli accordi internazionali.
Quella del PAC è una politica contro la piccola impresa e a favore di un modello agroalimentare basato sul predominio della commercializzazione e del controllo delle filiere agricole da parte delle multinazionali, che vivono sulla competizione al ribasso fra i produttori. Catania, il PAC l’ha visto nascere: quale figura migliore come garanzia della sua continuità?
Il governo Monti fa dormire sonni tranquilli a parecchi poteri, italiani e stranieri. Fuori e dentro i confi ni non si contano i plausi, tra i quali quelli importantissimi della Chiesa – che ha ben due ragioni per essere soddisfatta: tre ministri di suo gradimento, alla Salute, alla Cultura e alla Cooperazione internazionale, e l’area finanziaria appannaggio della finanza cattolica, con Intesa Sanpaolo. “Una bella squadra”, un “esecutivo di livello” ha infatti commentato il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone e l’agenzia Sir (Servizio informazione religiosa), agenzia di stampa della Cei.
Il resto desta meno stupore: la forte presenza degli interessi industriali è scontata, la continuità con le politiche americane ed europee, anche. Certo sorprende se si pensa che i vari personaggi sono stati spacciati come volti nuovi, tecnici imparziali, illustri accademici fuori dalla cozzaglia della politica e di poteri vari.
Ma a ben vedere, ognuna delle singole figure che compongono la squadra di Monti è la forma concreta, quasi l’espansione perfettamente riprodotta, del pensiero del primo ministro e senatore a vita, da lui stesso espresso dalle pagine del Corsera poco più di un anno fa: “In Italia, data la maggiore influenza avuta dalla cultura marxista e la quasi assenza di una cultura liberale, si è protratta più a lungo, in una parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente, la priorità data alla rivendicazione ideale, su basi di istanze etiche, rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività. Questo arcaico stile di rivendicazione, che finisce spesso per fare il danno degli interessi tutelati, è un grosso ostacolo alle riforme. Ma può venire superato. L’abbiamo visto di recente con le due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne. Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili” (2).
(1) Cfr. A.A.A. terrorista cercasi…, Giovanna Cracco, paginauno n. 26/2012
(2) Meno illusioni per dare speranza, Mario Monti, Corriere della Sera, 2 gennaio 2011