di Luciana Viarengo |
Recensione de La campana di vetro di Sylvia Plath
“Voglio scrivere perché ho bisogno di eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita”. Con queste parole Sylvia Plath motivava il suo irrefrenabile e anarchico impulso verso la scrittura.
Ho ascoltato, una volta, una registrazione di Sylvia Plath. Declamava Lady Lazarus, una delle sue poesie più conosciute e ricordo quanto mi avesse colpito l’energia della sua recitazione, la forza della sua musicalità. In quel momento Sylvia Plath era i suoi versi. Non a caso. Uno spirito tormentato quale il suo non può avere altra forza per lottare che quella delle proprie parole. Dying/ Is an art, like everything else,/ I do it exceptionally well. Così recita una strofa di Lady Lazarus, e sembra il tragico epitaffio della sua autrice.
Di questa scrittrice poetessa – oltre ai suoi Diari, pubblicati postumi – resta una sola opera in prosa: La campana di vetro.
La prima bozza di questo romanzo vide la luce nella seconda metà degli anni Cinquanta, ma fu solo grazie una borsa di studio ottenuta nel 1961 che Sylvia Plath poté ultimare il lavoro e darlo alle stampe a Londra, nel febbraio del 1963, con il nom de plume di Victoria Lucas. Forse, la poetessa non riponeva sufficiente fiducia nel valore letterario del romanzo, per lo meno non quanta ne riponeva nelle proprie poesie; ma forse, più verosimilmente, intendeva proteggere le persone che nel libro comparivano, essendo la fabula fortemente autobiografica. Non a caso, la madre di Sylvia Plath, ostacolò in ogni modo la pubblicazione negli Stati Uniti, dove comparve sugli scaffali solo nel 1971.
La vicenda prende avvio nell’estate del ’53; in una New York, simbolicamente opprimente per l’afa estiva, dove l’io narrante, Esther Greenwood, studentessa di college non ancora ventenne, fa praticantato presso una rivista femminile.
Come si apprenderà nel corso della successiva narrazione, ad attenderla alla fine di questa esperienza, Esther ha una madre, vedova sin da quando Esther era piccola, e una storia, in fase calante, con Buddy, classico american boy, carino, atletico, diplomato a Yale e futuro medico.
Con queste premesse, l’opportunità di lavoro e di libertà offerta dalla rivista, la scintillante vita modaiola con la quale Esther entra in contatto, insieme alla prospettiva di ammissione a un corso di scrittura, dovrebbero rappresentare un apice esaltante nella vita di questa giovane provinciale del Massachusetts. In realtà, sarà proprio a partire da qui che avrà inizio la disgregazione. L’incompatibilità tra ciò che “sente” di essere e ciò che invece “dovrebbe” essere secondo i convenzionali parametri sociali le si rivela, durante questa parentesi newyorkese, in tutta la sua drammaticità.
Interrompendo il praticantato, ritornerà a casa, ripiombando nel clima convenzionale e conflittuale di Boston dove, assorbita dalla depressione, si scoprirà incapace di qualunque azione presente e di qualsiasi progetto futuro. La discesa sarà inarrestabile fino al tentativo di suicidio e alla successiva, faticosa risalita verso la “normalità”.
La promessa implicita del romanzo è subito dichiarata, fin dall’incipit, nel quale Sylvia Plath fa ricorso alla memoria storica collettiva: all’oppressione dell’afa newyorkese aggiunge quella del bombardamento mediatico per la morte dei Rosenberg, la coppia accusata di spionaggio e giustiziata sulla sedia elettrica durante il maccartismo. Una scelta che appare funzionale ai fini di inquadrare e rappresentare sì il periodo storico, ma anche e soprattutto l’alienazione che, come una campana di vetro appunto, incombe sulla vita della protagonista: la condanna a morte e l’esecuzione dei Rosemberg per mano delle istituzioni costituiscono un forte rimando simbolico all’alienazione e alla pulsione di morte che i rigidi schemi sociali indurranno nella fragile protagonista, con una sorta di esecuzione diluita nel tempo, ma non per questo meno letale.
La lettura di un tema difficile e scabroso quanto quello affrontato nel romanzo è tuttavia resa molto piacevole dallo stile ironico e spesso spiazzante dell’autrice, dal suo approccio dissacrante e diretto, soprattutto nella prima delle tre fasi nelle quali è idealmente possibile dividere il percorso di Esther Greenwood.
In questa prima parte, la fase newyorkese, viene mostrato al lettore il cammino – quasi una sorta di rito iniziatico – che la protagonista, così come tutte le altre donne, deve obbligatoriamente percorrere se intende inserirsi ed essere accettata socialmente. E’ qui che Esther accumula esperienze e subisce il costante bombardamento delle regole morali. Con un risultato, di forma e di contenuti, che ricorda a tratti la voce dell’Holden Caulfield salingeriano. E se quest’ultimo è stato una sorta di eroe archetipico per più di una generazione di maschi, il pensiero non convenzionale, il cinismo e lo humour nero di Esther che caratterizzano in particolare questa fase della narrazione, hanno di certo efficacemente rappresentato la parte repressa o inespressa di molte lettrici .
Il rifiuto in fieri per questo rito iniziatico è subito annunciato, l’ambiente dorato nel quale Esther si muove viene rappresentato attraverso tre episodi dall’epilogo simbolicamente negativo e, almeno nei primi due casi, decisamente divertente: un pranzo di lavoro avrà come prosieguo un’intossicazione alimentare, una festa a quattro si concluderà nell’ubriachezza e un appuntamento al buio in occasione di un party sfocerà in una tentata violenza sessuale.
Il rifiuto di Esther al rito di integrazione sociale alla quale viene sottoposta, è anche affidato a una serie di simboli come il bagno e un brodo di pollo, per esempio, entrambi con funzione di lavacro purificatore, attraverso il quale Esther torna a sentirsi incontaminata dopo l’esperienza fallimentare di una festa, nel primo caso, e dopo l’intossicazione alimentare, nel secondo. Ma significativo più di ogni altro, è il simbolo dei vestiti. Fotografati all’inizio della narrazione come costosi ed estremamente glamour, subiscono via via che la vicenda si svolge un progressivo degrado: dapprima sparsi per la stanza, poi sporchi, quindi ammonticchiati e gettati sotto il letto e, infine, presa la decisione di abbandonare New York, lanciati dal terrazzo dell’albergo. Una palese manifestazione di rigetto, quasi una scelta di ascetismo per contrastare l’accerchiamento delle convenzioni.
In questa prima parte, i forti rimandi alle convenzioni morali e sociali sono rappresentati principalmente da Buddy e dalla madre.
Nei confronti del primo, Esther ha già scoperto che tutta la fascinazione subita durante il college non aveva grandi motivazioni oggettive. Via via che la conoscenza fra lei e Buddy si è approfondita, ha potuto appurare quanta differenza ci sia tra intelligenza e simpatia, nel senso più strettamente etimologico del termine. Ricco della prima, Buddy, non si dimostra una persona sensibile, né capace di comprendere i bisogni di Esther appena questi si discostano dai percorsi convenzionali.
La scoperta più importante, tuttavia, è che Buddy, da perfetto uomo anni ’50, pur amandola, non riesce a condividerne le aspirazioni; “la poesia è come polvere”, le dice, convinto che le ambizioni letterarie verranno spazzate via da una sana e appagante maternità, condizione insieme a quella di moglie dalla quale Esther si sente assolutamente aliena.
Quando poi le confessa, immune da qualunque senso di colpa, di aver avuto una relazione sessuale con una cameriera per un’intera estate del loro rapporto, Esther decide di lasciarlo. Non certo causa di un tradimento inteso come tale, ma in quanto sintomo della profonda disuguaglianza, anche in termini di aspettative, che connota il legame tra un uomo e una donna. La verginità diviene la punta dell’iceberg di questa disparità e, da quel momento, perderla diventa per Esther un obiettivo da perseguire con impegno, non certo per motivazioni legate al piacere sessuale ma per liberarsi da ciò che ritiene un ingiusto fardello toccato alle donne.
Come per altri passaggi determinanti nel percorso di Esther, la messa in atto di questo progetto sarà strettamente legato al simbolo del sangue. Già presente nella colluttazione durante il tentativo di stupro e nelle goffe prove generali che precedono il tentativo di suicidio, il sangue sembra suggerire in ogni passaggio topico della vita di Esther una componente rituale di sacrificio: sofferenza nel corpo per una seppure momentanea conquista di benessere spirituale.
Il tema della verginità e quello dei codici di comportamento femminile sono fortemente presenti anche nel rapporto con la madre. Il primo esemplificato da un ritaglio di giornale che quest’ultima invia alla figlia, nel quale viene rimarcata alle giovani ragazze americane l’importanza di conservarsi caste per il matrimonio; il secondo dal consiglio di affiancare alle sue aspirazioni letterarie un corso di stenografia che le garantisca un futuro da segretaria. Come Buddy, anche Mrs. Greenwood ama Esther, ma per entrambi l’amore non riesce a trasformarsi in strumento di comprensione e di empatia.
Il condizionamento sembra circondare Esther da ogni parte, senza distinzioni generazionali né di genere: anche le compagne di college, per le quali la tenacia e i buoni risultati scolastici di Esther erano motivo di derisione, modificheranno il proprio atteggiamento tributandole rispetto solo in virtù della sua relazione con Buddy, giudicato un buon partito.
Anche i mezzi di comunicazione diventano perfette casse di risonanza per tutto ciò che è istituzionale e convenzionale, quindi lontano dal sentire della protagonista: dal ritaglio di giornale sulla verginità, alle immagini delle donne stereotipate ed eleganti delle riviste, fino alle pubblicazioni inneggianti alla maternità e farcite con foto di neonati, senza dimenticare le affissioni, i comunicati radio e gli articoli riguardanti i Rosenberg.
Il simbolico lancio degli abiti alla fine della fase newyorkese sembrerebbe un atto liberatorio, il sintomo di una svolta. Ma non è così, è piuttosto l’inizio di un abbandono totale – l’inizio della seconda fase, quella bostoniana – compresa ogni cura verso se stessa e di ciò che fino ad allora ha costituito il valore più importante per Esther, la scrittura, accelerato da una macroscopica quanto simbolica distorsione della grafia.
Ciò che sconvolge il fragile equilibrio di Esther è la continua necessità di scelta alla quale si sente costretta: vergine o puttana, moglie sottomessa o donna libera ma sola. I personaggi femminili che si muovono nel libro, rispettano rigorosamente questa dicotomia. Invece, dentro di sé, Esther continua a ribellarsi alle scelte rigide e definitive, vorrebbe essere in grado di provare tutto, un desiderio ben esemplificato dall’albero di fichi che immagina di trovarsi davanti: ogni frutto rappresenta una vita differente, il desiderio di averli tutti paralizza Esther, finché i fichi marciscono e cadono a terra.
Accelerata dalla mancata ammissione al corso estivo di scrittura, la spirale della depressione condurrà Esther attraverso il cammino accidentato e doloroso delle cure psichiatriche, la terza e ultima fase del romanzo.
Sylvia Plath, si dimostra molto critica verso il campo di potere medico e le strutture che lo sorreggono; ne sottolinea l’arroganza, l’autocompiacimento e la mancanza di attenzione verso il malato. Cure dolorose e inappropriate, infatti, non riusciranno a distogliere la sua protagonista dalla decisione di uccidersi.
Nonostante la meticolosità impiegata per preparare e attuare il suo suicidio, Esther verrà salvata e, grazie all’interessamento e all’aiuto economico di un’anziana scrittrice, entrerà in una clinica privata, dove verrà affidata alle cure dell’unico personaggio davvero positivo del libro, la dottoressa Nolan. Da questo punto in poi, e non prima, possiamo considerare La campana di vetro come un romanzo di formazione: dopo la discesa all’inferno, una lenta e progressiva rinascita.
Per la prima volta Esther trova comprensione e il suo modo anticonvenzionale di pensare e di agire non solo non è vissuto come “sbagliato” e condannabile, ma viene sostenuto dalla psichiatra come uno strumento di autocoscienza e quindi di guarigione.
A differenza di quanto accade a Esther, cristallizzata per sempre nell’atto di riapprodare alla vita “normale”e a una conseguente accettazione delle regole comuni – confermata, nelle prime pagine del romanzo, da un accenno quasi impercettibile a una figlia – Sylvia Plath ha continuato a vivere, a soffrire e a sentirsi, come il giovane Holden, “sul lato sbagliato della vita”, almeno fino alla pubblicazione de La campana di vetro; circa tre settimane dopo, infatti, preparata sul tavolo la colazione per i suoi due figli, sigillate scrupolosamente tutte le porte e le finestre, aprì il gas, riuscendo là dove Esther aveva fallito.
La campana di vetro, Sylvia Plath, Mondadori, 1968