Perry Anderson*
L’istituzione con meno potere e quella più potente
L’intervento che segue, a firma di Perry Anderson (storico accademico e saggista britannico), è stato pubblicato sulla London Review of Books, Volume 43, n. 1, gennaio 2021 (1) e affronta, da un punto di vista storico, le cinque istituzioni principali dell’Unione europea: la Corte di Giustizia, la Commissione, il Parlamento, la Bce e il Consiglio. Dopo aver pubblicato la parte relativa alla Corte di Giustizia e alla Commissione passiamo al Parlamento e alla Bce: con ben pochi poteri il primo, forse l’istituzione europea più potente la seconda.
E il Parlamento europeo? Composto ora da 705 deputati, ripartiti tra i 27 Paesi dell’Unione per ridurre un po’ il peso dei più grandi (la Germania in particolare), e facendo la spola mensilmente tra Bruxelles e Strasburgo, è stato storicamente alleato della Commissione e della Corte nelle sue aspirazioni a un futuro federalista per l’Europa. La Commissione avrebbe voluto diventare quello che Hallstein si aspettava che fosse, l’esecutivo di governo dell’Europa, e l’Assemblea – è arrivata a essere ufficialmente un Parlamento solo negli anni ‘80 – ha cercato di diventare la legislatura dell’Europa di cui questo esecutivo sarebbe stato responsabile: speranze che non si sono concretizzate. Tuttavia, nel corso del tempo il Parlamento ha acquisito una notevole infrastruttura burocratica propria – attualmente circa settemila funzionari lo servono – e un numero limitato di poteri, di cui i tre più significativi sono il diritto di “codecisione” con il Consiglio sulla legislazione proposta dalla Commissione; il diritto di respingere – ma non di modificare – il bilancio proposto dalla Commissione; e il diritto di respingere – ma non di eleggere – i commissari scelti dal presidente della Commissione. Ciò che non possiede sono i diritti di eleggere un governo, di avviare una legislazione, di imporre tasse, di definire il welfare, o di determinare una politica estera. In breve, è una parvenza di un Parlamento, come normalmente inteso, ben lontana dalla realtà di un Parlamento.
Gli elettori ne sono consapevoli e hanno mostrato scarso interesse. L’affluenza alle urne alle elezioni europee è notoriamente scarsa, in calo costante nel corso di quattro decenni, al punto che la sua ripresa a poco più del 50% nel 2018 potrebbe essere acclamata come il segno di una democrazia europea solida, anche se il dato è ancora dieci punti al di sotto della cifra del 1979, quando si tennero le prime elezioni di questo tipo. Né la maggior parte dei cittadini si prende la briga di andare alle urne a votare sulle questioni europee: piuttosto, nel votare a favore o contro i partiti locali, essi esprimono il loro punto di vista sull’andamento dei loro governi nazionali. Il risultato è un’assemblea composta da circa duecento eterocliti partiti, che si raggruppano poi in sei o sette blocchi, la cui unità non è profonda – i legami tra i deputati delle delegazioni nazionali sono spesso più stretti che con i loro affiliati paneuropei.
Non può emergere alcuna divisione tra governo e opposizione, perché non c’è un governo da formare o da contrastare. Lo schema è invece quello di grandi coalizioni lungo le linee tedesche, che riuniscono blocchi di centro-destra e di centro-sinistra per controllare i lavori, ed eleggono i capi e i presidenti dei comitati chiave dell’assemblea dalle loro fila, con l’apporto variabile degli ausiliari liberali e verdi. La differenza politica tra i due blocchi principali, in generale abbastanza sbiadita a livello nazionale, diventa quasi invisibile nelle successive combinazioni GroKo (abbreviazione di ‘Grande Coalizione’, in uso in Germania, n.d.a.) a Bruxelles e Strasburgo.
Come ci si potrebbe aspettare, in questa enorme, eterogenea, in gran parte cerimoniale istituzione, i deputati hanno poco appetito per le emozioni di essere effettivamente presenti. La presenza media è di circa il 45%. Praticamente tutto il lavoro è affidato a commissioni, dove a porte chiuse vengono messi in scena i misteri del “trilogo” (2): i rappresentanti del Parlamento si riuniscono con i rappresentanti del Consiglio dei Ministri e della Commissione per discutere con i rappresentanti del Consiglio dei Ministri e della Commissione su quali proposte legislative emanate dalla Commissione, e tipicamente pre-autorizzate dagli Stati membri e dai loro rappresentanti permanenti a Bruxelles, possono essere accettate per essere trasmesse al voto in Camera – le discussioni ruotano per lo più intorno a questioni di procedura piuttosto che di sostanza. Come osserva Christopher Bickerton, “tra il 2009 e il 2013, l’81% delle proposte sono state approvate in prima lettura con il metodo del trilogo. Solo il 3% ha raggiunto la terza lettura, dove i testi vengono discussi nelle sessioni plenarie del Parlamento”. Questa è l’alchimia della codecisione.
Nel 2014, quando l’affluenza alle urne era appena del 42,5%, il Parlamento ha lanciato una campagna con un ampio sostegno mediatico per trasformare le elezioni in un esercizio paneuropeo di volontà democratica: ognuno dei blocchi politici avrebbe nominato un candidato alla presidenza della Commissione – legalmente in dono al Consiglio – e il blocco che si assicurava il maggior numero di seggi, dotato del sostegno di tutto il Parlamento, avrebbe poi elevato il suo Spitzenkandidat al comando della Commissione, come qualsiasi altra legislatura potrebbe votare un governo in carica. Il centrodestra ha ottenuto il maggior numero di voti: il suo candidato era il faccendiere Jean-Claude Juncker.
Dopo qualche tergiversazione, la Merkel ha convinto il Consiglio ad accettarlo e Juncker è diventato presidente della Commissione con la forza di circa il 10% dell’elettorato europeo. Se non lo avesse fatto, ha detto Habermas alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, sarebbe stata “una pallottola nel cuore del progetto europeo”. Cinque anni dopo Macron ha puntato i piedi, e il presidente successivo è stato scelto secondo le regole dal Consiglio, ignorando lo sfortunato Spitzenkandidat. Indignato per questo rifiuto delle sue pretese, si è parlato di una ribellione in Parlamento, che pur non avendo il diritto di scegliere può rifiutare un presidente della Commissione. Ma questo non provocherebbe una crisi del progetto europeo? La terrificante prospettiva di un aperto disaccordo tra le sue istituzioni ha placato il morale a Ursula von der Leyen, che è riuscita ad accontentarsi di un’elezione.
La funzione del Parlamento europeo, che non aggrega né incanala i desideri degli elettori, dai quali una volta chiuse le urne si stacca completamente, è, come ha detto lo studioso italiano Stefano Bartolini, un “consolidamento d’élite”. Ovvero, un processo in cui i partiti colludono tra loro per presentare l’apparenza di un’assemblea democratica, dietro la quale si trincerano comodamente le caserme oligarchiche. Questi sarebbero felici di acquisire più poteri, ma non hanno alcun interesse a cederne a coloro che rappresentano nominalmente. L’ampiezza del divario tra l’istituzione e le popolazioni sottostanti può essere giudicata dalle rare occasioni in cui queste ultime hanno potuto far sentire direttamente la loro voce. Nei Paesi Bassi, l’affluenza alle urne per le elezioni europee del 2004 è stata solo del 39%. Un anno dopo è stata del 63% per il referendum sul progetto di Trattato costituzionale – che, pur essendo sostenuto dall’80% della delegazione olandese a Strasburgo/Bruxelles, è stato respinto dal 62% degli elettori olandesi.
Il Parlamento non è quello che sembra, ed è la componente meno consequenziale dell’Unione. Significa che è poco più di una foglia di fico glorificata? Non proprio. Le apparenze contano, e a suo modo il Parlamento svolge un ruolo costruttivo per l’Unione, fornendo una misura della legittimazione che ogni ordine liberale che si rispetti richiede. Per quanto limitati possano essere gli investimenti dei cittadini, i sondaggi paneuropei sincronizzati sono meglio di niente, e i loro beneficiari possono continuare a sperare che un giorno ne scaturisca una vivace politica federale.
Di tutt’altro ordine di peso politico è la Banca centrale europea, creata per gestire la moneta unica entrata in vigore nel 1999. Oggi è una delle più potenti istituzioni dell’Ue, alcuni direbbero, la più potente. Con sede a Francoforte, il suo consiglio direttivo è composto dai capi delle Banche centrali dei Paesi dell’eurozona e dai sei membri del suo comitato esecutivo, che si riuniscono ogni due settimane. I suoi lavori, a differenza di quelli della Fed o della Banca d’Inghilterra, ma in linea con quelli della Corte di Giustizia europea, sono segreti. Occasionalmente, a differenza della Corte di Giustizia europea, un membro può dimettersi, ma le sue decisioni sono formalmente unanimi. Nessun dissenso viene mai pubblicato. Il Trattato di Maastricht ha conferito l’indipendenza assoluta alla banca, che opera senza alcuno dei contrappesi – Congresso, Casa Bianca, Tesoro – che circondano la Fed, inserendola in un contesto politico in cui è pubblicamente responsabile. A differenza di qualsiasi altra banca centrale, l’indipendenza della Bce non è semplicemente statutaria, con regole o obiettivi modificabili per decisione parlamentare: è soggetta solo alla revisione dei trattati. Né, a differenza della Commissione, del Parlamento, della Corte di Giustizia o persino del Consiglio, i suoi procedimenti sono macchinosi. Può agire con una velocità e un impatto che nessun’altra istituzione dell’Ue può eguagliare.
Maastricht ha dato alla Bce un unico obiettivo. Laddove la Fed è incaricata dal Congresso di assicurare la massima occupazione e la stabilità dei prezzi, la responsabilità unica della Bce è quella di assicurare la stabilità monetaria in quella che è diventata l’eurozona. Fin dall’inizio, come gli economisti sapevano e non pochi hanno sottolineato, le economie che avrebbero dovuto adottare l’euro, che differiscono ampiamente per dimensioni, composizione e livello di sviluppo, non soddisfacevano in alcun modo i criteri di una “area valutaria ottimale” come indicato dall’economista Robert Mundell e altri. Al contrario. Ma questo non ha scoraggiato il Comitato Delors che ha guidato il progetto, poiché i suoi obiettivi erano politici più che economici: in parte per legare una Germania riunificata all’interno della Comunità Ue, ma più in generale per creare una moneta che bloccasse gli Stati che l’hanno adottata in modo così stretto da costringerli a far seguire all’unione monetaria quella politica. Come obiettivo esplicito era un passaggio troppo lontano all’epoca di Maastricht, dove le speranze federaliste sono state infrante da una contrattazione intergovernativa di tipo tradizionale; tuttavia, il Trattato ha creato un’Unione Economica e Monetaria Europea, e i politici riuniti hanno firmato il documento non pensando alle conseguenze che si sarebbero potute manifestare quando non fossero stati stati più in carica. Le porte di un’unione politica non sono state aperte, né sono state chiuse.
La disgiunzione tra mezzi e fini si è presto fatta sentire. Wim Duisenberg, il rozzo banchiere olandese che divenne il primo presidente della Bce, si vantava di essere un rozzo campione dell’ortodossia finanziaria sulle migliori linee anglosassoni. Eppure era felicissimo quando la Grecia, dopo aver opportunamente falsificato i suoi bilanci pubblici, adottò prontamente l’euro. Le sue ragioni non erano economiche, ma politiche. Anche se la moneta unica non era, per chi la amministrava, una semplice scorciatoia verso il federalismo, era – come direbbe Giandomenico Majone, un pensatore più fedele ai principi classici – un “progetto di prestigio” volto a elevare il profilo dell’Ue nel mondo. Un decennio dopo, l’eurozona avrebbe pagato per questa vanità.
Jean-Claude Trichet, il francese successivo al timone di Francoforte, era una figura più tranquilla ma altrettanto cieca. La sua risposta alla crisi finanziaria globale è stata pro-ciclica: aumentare i tassi di interesse per costringere i governi a tagliare la spesa pubblica, imponendo l’austerità come cura per il crollo. Il suo successore, Mario Draghi, è stato ampiamente celebrato per aver invertito la rotta, spruzzando denaro nelle economie dell’eurozona con l’acquisto di titoli di Stato e una generosa dose di altre forme di liquidità. In realtà, c’è stata più sovrapposizione tra le due cose di quanto generalmente si creda. Draghi, responsabile di un vasto programma di privatizzazioni in Italia, è stato più apertamente neoliberale, dichiarando il contratto sociale europeo obsoleto sulle pagine del Wall Street Journal.
Ma nell’agosto 2011 i due hanno scritto insieme una lettera segreta a Berlusconi, allora Primo ministro italiano, chiedendogli di ricorrere a un meccanismo di emergenza per tagliare le pensioni e altre spese pubbliche – una violazione senza precedenti del mandato da parte della banca. Tre mesi dopo Berlusconi non c’era più. Da parte sua, Trichet, al termine del suo mandato, aveva ripreso a ricorrere a schemi per aggirare il divieto del Trattato di Maastricht sull’acquisto del debito pubblico da parte della banca. Elogiando il suo capo, l’ex capo della ricerca della Bce, Lucrezia Reichlin, ha dichiarato al Financial Times nel febbraio 2012: “L’intero concetto di aggirare le regole europee e di fare Qe senza chiamarlo Qe è stato estremamente intelligente”.
Cinque mesi dopo, Draghi ha annunciato pubblicamente alla City: “Nell’ambito del nostro mandato, la Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro”. Dopo aver vantato la superiorità dei risultati economici dell’eurozona rispetto a quelli di Stati Uniti e Giappone (quest’ultimo meno “socialmente coeso” dell’Unione, dove metà dei giovani di Italia, Spagna e Grecia erano disoccupati), ha finito per chiarire la posta in gioco della crisi. Nessuno dovrebbe “sottovalutare la quantità di capitale politico che viene investito nell’euro”. È per salvaguardare questo che è stato richiesto l’ultima ratio regis: “targeted longer-term refinancing operations” (TLTRO), “outright monetary transactions” (OMT) e tutto il resto, o modi intelligenti per aggirare le regole europee, “nell’ambito del mandato” della banca – cioè in palese violazione degli articoli 123 e 125 del Trattato di Lisbona.
A tempo debito, la loro legalità sarebbe stata contestata dinanzi alla Corte di Giustizia europea. Ma così come non ha avuto alcuna remora nell’interpretare il Trattato di Roma per arrogarsi poteri di cui non si trova traccia nel documento firmato dai Sei, così la Corte di Giustizia europea non ne ha avuta alcuna nel decidere che Lisbona significava il contrario di ciò che diceva. Poiché ora si trattava non di leggere in un trattato ciò che non conteneva, ma di epurarne uno di ciò che conteneva, le contorsioni richieste erano, secondo le parole di Horsley, “erculee”. La commedia dei giudici che spiegava solennemente che l’assistenza finanziaria nell’ambito del Meccanismo europeo di stabilità (MES) costituiva un atto di politica economica, non monetaria, ed era quindi perfettamente in ordine, mentre le transazioni monetarie vere e proprie erano uno strumento di politica monetaria, non economica, e quindi erano anch’esse perfettamente in ordine, richiede la penna di uno Swift. Cosa significava in realtà la “clausola di non salvataggio” dell’articolo 125? Che i bail-out andavano bene, purché servissero “all’obiettivo superiore” di preservare l’euro. O, nella lucidità di van Middelaar, infrangere le regole significava essere fedeli al Trattato.
In Germania i tentativi successivi del 1974, 1986, 1993 e 2009 hanno contestato il fatto che le leggi o i Trattati dell’Unione possano avere validità prima che la Corte costituzionale del Paese abbia raggiunto lo stesso risultato. I giudici di Karlsruhe hanno dichiarato che la Legge Fondamentale tedesca, Grundgesetz, non può essere annullata dalla Corte europea, ma poiché nessuna violazione di questo tipo si è “finora” o “ancora” verificata, i querelanti non hanno alcun precedente. L’anno scorso Karlsruhe è stata nuovamente invitata a pronunciarsi, questa volta sulla legalità dell’approvazione che la Corte di Giustizia europea aveva dato al programma di acquisto di obbligazioni della Bce: ancora una volta si è rifiutata di dire che ciò era illegale, pur osservando che la proporzionalità dei suoi effetti non era stata adeguatamente valutata, e incaricando il governo tedesco e la Bundesbank di effettuare tale valutazione e di garantire un’adeguata proporzionalità.
Nei media c’è stato trambusto. Al Financial Times è venuto un colpo apoplettico: “Il tribunale tedesco ha messo una bomba sotto l’ordinamento giuridico dell’Ue”, ha gridato Martin Sandbu. “Il tribunale ha lanciato un missile legale nel cuore dell’Ue. Il suo giudizio è straordinario. È un attacco all’economia di base, all’integrità della banca centrale, alla sua indipendenza e all’ordinamento giuridico dell’Ue”, ha tuonato Martin Wolf, “gli storici del futuro potrebbero segnare una svolta decisiva nella storia dell’Europa, verso la disintegrazione”. Non devono aver spostato un capello. La Corte di Karlsruhe è un organo per lo più sdentato, come indicano le sue sentenze studiatamente sospese. Meglio conosciuta per aver docilmente ribaltato la Legge Fondamentale tedesca per consentire a Schröder e Merkel nel 2005 di inscenare un’elezione incostituzionale prima della scadenza dei seggi, si preoccupa di evitare gravi offese alle Obrigkeiten (Autorità, n.d.a.) del giorno. È improbabile che Berlino e Francoforte abbiano difficoltà a far tornare Karlsruhe a dormire.
Nessuna fede è invocata con tanta frequenza dall’Ue, o identificata in modo così compiacente con se stessa, come lo stato di diritto. Fatta la legge, trovato l’inganno è la saggezza popolare in Italia. L’adagio implica che coloro che fanno la legge e coloro che la ingannano non sono gli stessi. Ciò che distingue l’Unione è che le due parti sono una cosa sola. Nelle mani della Corte europea e del coro dei suoi ammiratori, lo stato di diritto è arrivato a significare più o meno il malgoverno degli avvocati che non si fermeranno davanti a nulla per piegare i testi a loro piacimento, a scapito della comprensione ordinaria di una giustizia di principio. Così come la Corte di Giustizia europea, la Banca centrale europea, la Commissione europea, se si servono interessi superiori. La sopravvivenza di un’unione monetaria da cui dipendono mercati del lavoro razionali, tasse e trasferimenti, la prosperità di tutti? Ma come ha replicato più di un analista, sono i banchieri e i giudici le autorità più competenti a determinare come debbano essere pensioni o salari? Certamente, in queste materie, se la cavano abbastanza bene da soli. È questa la qualifica più appropriata? Il motto di Fritz Scharpf è: nell’Ue, sono proprio le istituzioni che hanno il maggiore impatto sulla vita quotidiana della maggior parte delle persone a essere più lontane dalla responsabilità democratica.
1)Storico accademico e saggista britannico. Questo intervento è stato pubblicato sulla London Review of Books, Volume 43, n. 1, gennaio 2021; qui l’articolo in lingua inglese, dove si può consultare anche la bibliografia https://www.lrb.co.uk/the-paper/v43/n01/perry-anderson/ever-closer-union
2) Cfr. Giovanna Cracco, Europa: la democrazia dei triloghi, Paginauno n. 42/2015. Nota di redazione