I contatti, la “diplomazia delle conferenze”, il viaggio negli USA di Napolitano e il mancato viaggio di Berlinguer
Maggio 1978, il viaggio mancato di Berlinguer negli Usa
Nel luglio del 1977 la nuova Amministrazione Carter autorizza l’apertura di un ufficio di corrispondenza de l’Unità a Washington. La direzione del giornale in accordo con quella del Pci inviò sul posto un giornalista di provata esperienza, Alberto Jacoviello, che oltre al ruolo di corrispondente svolse nei fatti anche quello di ambasciatore del Pci in ambienti accademici e politici (1). L’ambasciatore Usa in Italia, Richard Gardner, rivendicò per sé questo passo: “Fin dai miei primi mesi come ambasciatore ero riuscito a convincere Washington ad approvare l’apertura di un ufficio dell’‘Unità’ nella capitale statunitense” (2). Un lavoro che cominciò a dare presto i suoi frutti: il 18 novembre 1977 giunse alla sezione Esteri del Pci una lettera dal Dipartimento di scienze politiche dell’università di Yale. Su sollecitazione della professoressa Yasmine Ergas, intenzionata a tradurre il libro di Enrico Berlinguer, La politica internazionale dei comunisti italiani (3), il professor Joseph La Palombara (4) chiedeva se il segretario del Pci fosse disponibile a scrivere una prefazione per la traduzione americana. La missiva era in realtà un buon pretesto per sondare nuovamente le intenzioni del segretario comunista sulla possibilità di un suo viaggio negli Stati Uniti. La Palombara chiedeva anche se Berlinguer potesse prendere in considerazione un invito, del quale non abbiamo però altra fonte o conferma, formulato un po’ di tempo prima dalla sua università per recarsi a Yale come “Chubb Fellow”, una posizione di prestigio per i conferenzieri propria della Yale University. Questa posizione, proseguiva La Palombara, “è la formula con la quale Santiago Carrillo è stato qui questa settimana e sono certo che potrà dire che è una formula ideale” (5).
Invitato per un ciclo di conferenze, il segretario dei comunisti spagnoli Santiago Carrillo era giunto a Yale quattro giorni prima, il 14 novembre 1977, tenendo una serie di incontri durante i quali aveva evitato di presentarsi come “ambasciatore dell’eurocomunismo” per non irritare eccessivamente il Pcus. Nonostante questa precauzione riuscì lo stesso a suscitare scalpore, in Spagna e in Europa, dichiarando – senza aver prima consultato nessun altro dirigente del suo partito – che il Pce non era più “leninista”. L’affermazione colpì favorevolmente Brzezinski, il quale compilò una sua personale classifica di affidabilità, ritenendo i comunisti italiani e francesi destalinizzati, a differenza dei portoghesi, ma ancora troppo leninisti (6).
Nel resto della sua lettera, La Palombara spiegava di non voler minimizzare “i problemi concernenti le norme e la realizzazione di questo tipo di visita […]. Naturalmente ci vorrà un certo tempo, una considerevole riflessione ed una accurata preparazione per sistemare tutto in modo che sia soddisfacente per Berlinguer. Il mio parere è che tale visita potesse coincidere con l’uscita qui del libro di Berlinguer. Per favore, può seguire questa questione e farmi sapere quale sia il Suo pensiero per risolverla?” (7).
La lettera di La Palombara ha una indubbia rilevanza storiografica: scopriamo infatti che erano ben due i dirigenti del Pci invitati negli Stati Uniti. La circostanza solleva interessanti interrogativi poiché il visto finale lo ottenne solo Napolitano, responsabile della politica economica del Pci, e non il segretario generale Berlinguer. La proposta di La Palombara si arenò perché un secondo invito per tenere un ciclo di conferenze negli Stati Uniti programmato per il mese di maggio 1978 pervenne a Berlinguer l’8 febbraio 1978 da una seconda sede, la New York University. La lettera, indirizzata al responsabile dell’ufficio Esteri del Pci Segre, era firmata da Norman Birnbaum, sociologo dell’Amherst College ed esponente dell’ala sinistra del partito democratico statunitense. L’invito, era stato preceduto da un incontro a gennaio con lo stesso Segre (8). Secondo Pons, che dedica alla vicenda un succinto commento, il viaggio di Berlinguer non ebbe luogo “forse a causa dell’affare Moro” (9). Se è probabile che l’esito mortale del sequestro e gli effetti che produsse sul quadro politico abbiano indotto Berlinguer a rinunciare al viaggio, dagli archivi del Pci emergono anche segnali di una certa prudenza verso l’invito di Birnbaum. Franco Calamandrei, senatore e membro della Commissione esteri, che ebbe modo di incontrare l’universitario americano il 19 gennaio 1978, scrisse in una relazione inviata al partito che il docente era stato “indicato fra i tanti più o meno collegati con la Cia” (10). Una voce, più che un’informazione, fin troppo generica ma forse sufficiente per consigliare prudenza.
Anche altre circostanze invitarono alla cautela, come la collocazione politica del docente, molto critica nei confronti dell’Amministrazione Carter, situazione che poteva sollevare problemi di opportunità diplomatica per una viaggio così delicato. Resta senza risposta, invece, l’esito infruttuoso dell’invito di La Palombara e a oggi non sappiamo se fu una scelta autonoma dell’Amministrazione Usa, che ritenne di selezionare l’esponente del Pci considerato più affidabile (Giorgio Napolitano), oppure una decisione interna al gruppo dirigente comunista.
Il Pci e gli amici americani
Dalla metà degli anni Settanta il Pci e l’ambasciata americana avviano una sorta di ‘politica dei contatti’, una tessitura che passava attraverso relazioni di vario livello, soprattutto riservate, in alcune circostanze molto formali anche di natura pubblica, con esponenti della diplomazia e dell’intelligence statunitense. Eurocomunismo e compromesso storico, le due novità politiche introdotte da Berlinguer, avevano dato al Pci un rilievo internazionale attorno al quale ruotava l’inevitabile attenzione e l’interesse delle cancellerie occidentali, per capire meglio i possibili sviluppi della situazione, adeguarsi alla possibile entrata nel governo del più importante partito comunista d’Occidente, che alle elezioni regionali del 1975 aveva compiuto un balzo di 5 punti, minacciando il primato trentennale della Dc.
Il rapporto Boies
Proprio nel 1975 fu preparata una relazione, nota come Rapporto Boies, dal nome del primo segretario dell’ambasciata degli Stati Uniti a Roma, Robert Boies, estensore del testo e forse funzionario della Cia sotto copertura, nella quale si prospettava l’arrivo al potere nel breve periodo del Pci. L’opinione però era in contrasto con le convinzioni del segretario di Stato, Henry Kissinger, e per queste ragioni non produsse effetti immediati; tuttavia, come ha spiegato il professor Joseph La Palombara, era condivisa da molti (11). D’altronde, prosegue La Palombara, “vari personaggi che all’epoca testimoniarono al Congresso sul ‘caso Italia’ ne erano convinti, e le elezioni del 1976 confermarono l’onda lunga comunista. Scrissi in quel momento che m’aspettavo anch’io il Pci al governo, ma non da solo e non senza problemi” (12). La Cia sosteneva la necessità di aprire rapporti con il Pci e di individuarne gli interlocutori giusti in vista di un suo probabile accesso al governo e l’analisi di Boies era frutto di un lavoro protratto nel tempo: il 13 agosto 1974, infatti, Sergio Segre, responsabile della sezione Esteri del Pci, aveva già riferito a Berlinguer di alcuni incontri avuti con Boies poco tempo prima del suo rientro negli Stati Uniti. In procinto di lasciare l’ambasciata, Boies aveva quindi presentato a Segre il suo successore, Martin Arthur Weenick. Nel corso di quell’incontro – riferisce Segre – il nuovo primo segretario dell’ambasciata Usa aveva ritenuto maturi i tempi di “un dialogo fruttuoso” tra le parti “superando le barriere di questi anni” (13).
La politica dei contatti
Prima del 1975, scrive Silvio Pons, Segre era stato il solo esponente del Pci ammesso ad avere rapporti con l’ambasciata americana (14), ma dal 1975 anche Luciano Barca entrò a far parte di quella dinamica. E fu proprio Barca a raccontare per primo l’incontro tra un membro della Direzione del Pci ed emissari del governo degli Stati Uniti: “Nel giugno del ‘75, per iniziativa americana il primo segretario dell’ambasciata americana Weenick, con la motivazione di voler meglio capire la politica economica del Pci, prende contatto con me (ovviamente autorizzato da Berlinguer). È la prima volta che viene stabilito un contatto diretto con un membro della Direzione del Pci, anche se mascherato da interesse per le nostre proposte economiche. In realtà questo interesse non era solo una maschera tanto che al secondo incontro partecipò anche il rappresentante del Tesoro americano.
Poiché gli incontri cominciarono a essere periodici e a entrare sempre più in questioni politiche decidemmo con Berlinguer di porre a Weenick la necessità di incontrare, prima di una nuova colazione, Giancarlo Pajetta, membro della Segreteria e nostro ‘ministro degli Esteri’. La richiesta spaventò evidentemente l’ambasciatore e il Dipartimento di Stato perché bloccò per circa due mesi gli incontri. Alla fine entrambi accettarono un mio invito a pranzo da Piperno (noto ristorante situato nel Ghetto a Roma, n.d.a.). Il primo contatto fu brusco. Pajetta si presenta ed esordisce così: «Non riesco a capire perché un membro della segreteria del Partito comunista – lui era molto conscio del suo ruolo, io l’ho visto anche all’estero, è un vero ministro degli Esteri, difensore in tutte le occasioni della dignità italiana – non debba avere paura di incontrare un alto ufficiale della Cia, e un alto ufficiale della Cia debba aver tanta paura di me». Così è iniziato l’incontro, e Weenick, da buon incassatore, ha risolto tutto sorridendo” (15).
Alla vigilia del primo incontro Barca aveva cercato di capire se il funzionario dell’ambasciata americana fosse un uomo della Cia: “Mi fu detto di sì e mi fu specificato che come tale era stato espulso da Mosca, a causa dei contatti che cercava con i dissidenti sovietici” (16). Che Weenick fosse veramente un agente sotto copertura della Cia incaricato di raccogliere da fonti dirette informazioni sulla evoluzione del Pci non è del tutto certo (ed è anche secondario), e anni dopo Barca ricevette una diversa informazione che situava il funzionario alle dipendenze del Dipartimento di Stato. Ciò che risulta rilevante sul piano storico è il fatto che due importanti dirigenti del Pci, su mandato del segretario e della sezione Esteri del partito, si incontrarono per diverso tempo con un funzionario che consapevolmente ritenevano essere un membro dell’agenzia di intelligence Usa.
L’esito degli incontri fu molto positivo, tanto che poi “sono cominciati ad arrivare altri americani, anche quelli della Exxon tra gli altri, tutti in cerca di assicurazioni nel caso il Pci andasse al governo. Noi a tutti esponevamo la nostra politica: non volevamo nazionalizzare, ma anzi volevamo vendere molte aziende Iri non strategiche. Ciò li tranquillizzava. Molti rappresentanti di gruppi americani, forse perché vittime della corruzione dilagante in Italia e del crescente intreccio tra affari e politica, apprezzarono molto il discorso di Berlinguer sull’austerità (1977) che mostrarono di aver capito meglio della destra del nostro partito” (17).
Tra i cablo inviati dalla sede diplomatica romana al Dipartimento di Stato ce n’è uno del 2 maggio 1978 che riferisce il risultato di una delle conversazioni periodiche che Barca teneva con i funzionari dell’ambasciata, svoltasi il 20 aprile precedente. Vi si può leggere che “l’alto esponente del Pci ci ha detto che il suo partito resta fermamente contrario a negoziati che portino a concessioni ai rapitori di Aldo Moro” e ha “fornito al governo delle informazioni su ex membri del Pci che adesso si ritiene stiano cooperando con i terroristi dell’estrema sinistra”. “Sin dal rapimento – sono le parole di Barca riportate nel cablo – nel corso dell’ultimo anno il Pci ha consegnato al ministero degli Interni informazioni anche su alcuni nostri amici che riteniamo stiano partecipando a gruppi delle Br presenti in certe aziende come Sip e Siemens”. Alle osservazioni del funzionario che lamenta un articolo di Macaluso apparso su l’Unità nel quale si suggerisce il coinvolgimento della Cia nel rapimento Moro, Barca replica: “La direzione del Pci ha ordinato, a lui e altri, di astenersi dal ripetere tali accuse senza fondamento poiché il Pci non ha alcun elemento che possa suggerire un coinvolgimento della Cia nel rapimento” (18).
Carter e “la diplomazia delle conferenze”
Con l’arrivo alla Casa Bianca di Jimmy Carter, nel gennaio 1977, trovò nuovo slancio la “diplomazia delle conferenze” ossia l’idea di ricorrere alla politologia come arma diplomatica, invitando negli Usa gli esponenti dell’Eurocomunismo a tenere dei cicli di lezioni nelle università. Sostenere lo sganciamento dei partiti comunisti occidentali dalla sfera d’influenza sovietica rientrava nella strategia americana, che mirava a rafforzare le spinte di dissenso all’interno del campo socialista. “Prima di fare una richiesta formale all’Amministrazione abbiamo comunque sondato l’ambiente”, racconta La Palombara: “Cyrus Vance [il nuovo segretario di Stato] lo conoscevo da prima, in qualità di membro del consiglio d’amministrazione della Yale University. ‘Zibig’ Brzezinski, che ora era consigliere per la Sicurezza nazionale, avrebbe già potuto dirci se l’idea era ok”.
Anche il presidente Carter era informato, spiega La Palombara, “perché Brzezinski non era certamente in grado, da solo, di mutare la politica dei visti ai dirigenti comunisti. A tal fine, inoltre, occorreva un lavoro di preparazione con il Congresso americano, e con i nostri sindacati, Afl-Cio, da sempre ferocemente anticomunisti. Insomma non bastava che Brzezinski bussasse allo studio ovale, soprattutto dopo le elezioni italiane del 1976” (19). Tra coloro che si attivarono per creare un canale di comunicazione tra la nuova Amministrazione statunitense e il Pci troviamo Franco Modigliani, futuro premio Nobel per l’economia, che venne più volte consultato dal Dipartimento di Stato sulla situazione economica e politica italiana. Questi aveva consigliato l’apertura al Pci e alla Cgil, ritenuti i soli in grado di arginare la protesta sociale e far accettare i sacrifici richiesti. Nel corso del 1976 aveva più volte incontrato Napolitano, in quel momento responsabile del settore economico del Pci (20).
La diplomazia personale di Giorgio Napolitano
Nel novembre del 1976, dunque prima dell’insediamento ufficiale di Carter, giunse in visita a Roma il senatore Ted Kennedy. Sembrò l’occasione ideale per un incontro con un esponente del Pci, o almeno questa era la convinzione di Napolitano che, sia pur privo di incarichi nella politica estera del partito, fece di tutto per accreditarsi. L’entourage del senatore Kennedy agì in modo prudente e sotto stretta osservazione dell’ambasciata, che riferiva ogni suo movimento al Dipartimento di Stato. Oltre al presidente della Repubblica Leone, al presidente del consiglio Andreotti e al presidente della Fiat Gianni Agnelli, i politici ammessi agli incontri ufficiali furono solo i segretari della Dc, Zaccagnini, e del Psi, Craxi. Il responsabile dell’ufficio Esteri del Pci, Sergio Segre, ricevette un invito unicamente per la cena di cortesia insieme ad altri trenta ospiti. Kennedy non volle che l’evento fosse fotografato e l’ambasciatore Volpe riportò a Kissinger ogni minimo dettaglio, anche la disposizione a tavola degli invitati. In quella circostanza, riferisce Volpe in un documento stilato per il Segretario di Stato, “ci risulta che siano stati fatti almeno tre tentativi per inserire l’esperto economico del Pci, Napolitano, nella lista degli incontri, ma la squadra di Kennedy ha rifiutato” (21). Una dimostrazione della pervicacia del personaggio e della propensione a tessere una sua diplomazia personale accanto a quella del partito.
La politica di “non interferenza, non indifferenza”
Nel marzo del 1977 arrivò da parte della nuova Amministrazione democratica un primo prudente segnale di cambiamento: il Segretario di Stato Vance e il ministro del Tesoro Michael Blumenthal stilarono un memorandum per il presidente dove si tracciavano le linee della cosiddetta politica di “non interferenza, non indifferenza”, riguardo alla scelte che il governo di Roma avrebbe effettuato nel caso di un coinvolgimento del comunisti nell’esecutivo. Una strategia che modificava l’interventismo praticato da Kissinger durante le presidenze Nixon e Ford. Nello stesso documento si davano indicazioni meno rigide sui visti d’ingresso da rilasciare ai dirigenti del Pci e si fornivano nuove direttive sulla “politica dei contatti” da tenere con gli esponenti di quel partito. Era questo il quadro all’interno del quale doveva operare il nuovo ambasciatore scelto da Washington: Richard N. Gardner, giovane avvocato e professore di diritto internazionale alla Columbia University (22).
Divisa al suo interno su quelli che sarebbero stati gli sviluppi della situazione politica italiana, l’Amministrazione statunitense assumeva una posizione di prudenza, e apparentemente attendista, che in sostanza chiedeva al Pci di fornire le conferme del proprio mutato atteggiamento in politica internazionale, dando prova della propria affidabilità, prima di essere chiamata ad assumere una diversa posizione nei suoi confronti. Gardner aveva il compito di svolgere, come vedremo, questa “politica degli esami”, un delicato lavoro di approfondimento e verifica. “Ricevemmo dettagliate istruzioni dal Dipartimento di Stato – scriverà nelle sue memorie – che consentivano un approfondimento dei contatti con il Partito comunista”, estese anche a funzionari del Pci con o senza incarichi pubblici ma con modalità che non suscitassero “l’impressione che i comunisti avessero improvvisamente guadagnato il favore americano”. Fu così che Martin Weenick, il funzionario addetto ai rapporti con il Pci che aveva già contatti regolari con Sergio Segre e “occasionali con altre tre o quattro persone”, poté “vedere anche membri di spicco della segreteria del partito, come Pajetta e Napolitano” (23).
Ramificazione dei contatti tra esponenti Pci e funzionari dell’ambasciata
L’estensione e l’approfondimento di queste relazioni fu tale che, racconta sempre l’ambasciatore, in un bilancio “della nostra politica dei contatti eseguito due anni dopo risultò che in quel momento l’ambasciata era in rapporto con 9 dei 32 membri della Direzione del Partito comunista e con 25 dei suoi 169 membri del Comitato centrale” (24). A livello periferico i consolati avevano contatti con circa 80 segretari delle strutture regionali e provinciali o con eletti locali del Pci. Un rapporto della sezione politica dell’ambasciata riassumeva in questo modo la situazione: “Riteniamo un successo il programma di contatti. Ampliarli ci ha consentito di avere una più approfondita comprensione del partito e di formulare su di esso giudizi più accurati. Abbiamo avuto abbastanza successo nell’anticipare le sue mosse”.
Una ulteriore conferma di questa ramificazione e della profondità dei contatti tra diplomatici dell’ambasciata e apparato del Pci viene da una nota del 1° aprile 1978 nella quale il segretario della federazione provinciale di Piacenza, Romano Repetti, riferiva sull’incontro avuto con il console americano di Milano, Thomas Fina. Nella stessa occasione il console aveva visto anche responsabili della Cgil. Obiettivo del console era sondare le opinioni dei gruppi dirigenti provinciali, capire quanto la linea del gruppo dirigente centrale trovasse adesione nei vertici periferici. Tra i temi affrontati, al primo posto ci fu il sequestro Moro. “Il Console ha osservato – scrive Repetti – che esso avrebbe in qualche modo avvantaggiato il Pci perché aveva fatto superare alla base comunista lo scontento per la composizione del governo e perché qualificava il nostro partito nella pronta e concorde approvazione delle misure di rafforzamento dell’azione delle forze dell’Ordine e della Magistratura contro la criminalità. Ha manifestato la sua sorpresa per la grande risposta unitaria dei lavoratori nella giornata del rapimento, rilevato che per la prima volta nelle manifestazioni le bandiere rosse erano mescolate con quelle della Dc. Ha chiesto se il nostro partito aveva ordinato agli operai di uscire dalle fabbriche. Ha espresso interesse e meraviglia per quello che gli ho spiegato essere il naturale comportamento dei sindaci in circostanze come queste, cioè di convocare immediatamente riunioni con i dirigenti dei partiti e dei sindacati per concordare e promuovere iniziative unitarie”.
Nel luglio successivo il console approfondì i suoi contatti incontrando “due dozzine di funzionari Pci” della Lombardia arrivando alla conclusione che il “Pci in questa regione ha attraversato dei cambiamenti fondamentali” fino al punto da “far dire a molti responsabili locali sostanzialmente onesti che essi sostengono il modello di democrazia occidentale, inclusa la lealtà a Comunità europea e Nato”. Il giudizio tuttavia non era condiviso dall’ambasciata di Roma che in un cablo del 19 luglio parlava di “conclusioni troppo ottimistiche” che a giudizio dell’ambasciatore Gardner non trovavano riscontro tra i dirigenti nazionali del partito.
“Basta con la Dc”, il dibattito in via Veneto
Il 3 marzo Allen Holmes, vice di Gardner e soprattutto Deputy Chief of Mission, ovvero diplomatico più alto in grado in via Veneto – perché Gardner era un ambasciatore di nomina politica – firmò un telegramma di undici pagine intitolato A dissenting of American politicy in Italy nel quale mostrava di dissentire radicalmente dalla politica estera statunitense condotta fino a quel momento in Italia. Il testo metteva in forma un’opinione minoritaria ma presente nell’Amministrazione Carter, che riteneva ormai superata “l’attitudine interventista” e la convinzione che l’Italia dovesse ancora essere considerata “una nazione a sovranità limitata”. Il diplomatico suggeriva a Washington una “revisione politica che deve affrontare i fatti”, i quali mostravano che l’alleanza con i democratico-cristiani aveva comportato “diversi svantaggi”, trasformando l’America in “un fattore della politica interna italiana” che “ci porta a sminuire i fallimenti della Dc e a sopravvalutare la sua capacità di autoriformarsi”.
Il bilancio, secondo Holmes, era fallimentare: “Dovremmo essere onesti e ammettere che la perpetuazione al potere di un singolo partito non significa avere una democrazia sana” e che se in trent’anni gli Stati Uniti non sono riusciti a “rafforzare la democrazia in Italia farebbero bene a lasciar perdere”. Per il vice di Gardner andava rivisto “l’immutabile atteggiamento rispetto al Pci che invece sta cambiando”; a suo avviso l’Amministrazione Usa era ferma “alle analisi del 1950 che lo descrivevano come il partito dei poveri mentre l’arricchimento della popolazione ha portato a un suo rafforzamento” e “la tradizione rivoluzionaria del Pci non è quella russa, i comunisti italiani non sanno nulla del comunismo russo e i suoi leader sono intellettuali marxisti dell’Ovest non dell’Est”. Per il Deputy Chief di via Veneto, “la collaborazione con il governo Andreotti dal 1976, gli atteggiamenti responsabili sull’ordine pubblico, le posizioni moderate sull’economia, la formale accettazione della Nato e della Comunità europea, il discorso di Berlinguer al XIV Congresso del partito e la decisione della Cgil di abbandonare l’Organizzazione internazionale del lavoro [non potevano essere considerate] operazioni di facciata”.
Il viaggio negli Usa di Napolitano, in pieno sequestro Moro
“Come sapete, qualche mese fa ho ricevuto e ho accolto in linea di massima l’invito di alcune università a recarmi negli Stati uniti per un giro di conferenze e seminari nella prima metà del mese di aprile”. A scrivere è Giorgio Napolitano in una lettera indirizzata il 2 febbraio 1978 alla segreteria del suo partito. Più avanti nel testo il dirigente comunista entra nei dettagli della preparazione e della organizzazione del viaggio: “In particolare il prof. La Palombara alcune settimane or sono mi ha detto di aver parlato personalmente con l’ambasciatore Gardner e di aver ricevuto assicurazioni in proposito. Accenni nello stesso senso mi ha fatto il professor Modigliani, venuto ancor più di recente in Italia. Infine avevo parlato anche io, come alcuni compagni sanno, col primo segretario dell’ambasciata americana, il quale mi aveva solo raccomandato di avanzare per tempo la richiesta del visto. Se voi siete d’accordo, io dunque inoltrerei senz’altro la richiesta del visto e preciserei alle università che mi hanno invitato, il mio periodo di soggiorno negli Stati uniti che dovrebbe cominciare il 4 o 5 aprile e durare una quindicina di giorni. Si tratta infatti di trascorrere due o tre giorni in ciascuna delle tre università che mi hanno invitato (Princeton, Yale, Harvard) e di avere inoltre alcuni giorni per contatti, discussioni ecc. che è possibile avere a New York e a Washington. Per quanto riguarda questa possibilità di incontri fuori dal giro delle università, ho preso accordi con Jacoviello quando è venuto a Roma e posso fare affidamento su diversi altri amici e canali negli Stati Uniti. Avremo comunque tempo di parlare nel merito dell’atteggiamento da tenere nel corso delle discussioni che potrò avere negli Stati Uniti” (25).
Napolitano lavorava da almeno tre anni a questo appuntamento con un impegno e uno zelo personale che lasciano trapelare il desiderio di accreditarsi in tutti i modi come l’interlocutore privilegiato di quell’avvicinamento a Ovest (vedi i ripetuti tentativi di accreditarsi al ricevimento dato da Ted Kennedy durante la sua visita a Roma nel novembre 1976), a cui la segreteria di Berlinguer stava lavorando da quando aveva preso in mano le redini del Pci. Convinto di essere giunto nell’anticamera del governo sulla spinta di una progressione elettorale che sembrava inarrestabile, il vertice comunista riteneva fondamentale, per poter compiere indenne il passo finale, ottenere l’avallo dell’Amministrazione statunitense.
“Se il Pci ottiene un attestato di rispettabilità dagli Usa, la vittoria elettorale sarebbe inevitabile”
Già nel 1975 era pervenuto a Giorgio Napolitano un primo invito a recarsi negli Stati Uniti per tenere un ciclo di conferenze promosso dallo stesso Centro studi che poi lo avrebbe invitato di nuovo nel 1978. In quell’occasione non fu possibile dare seguito alla richiesta, in quanto il Dipartimento di Stato gli negò il visto, così come lo negò a Segre, che stava per recarsi a Washington con una delegazione dell’Istituto Affari Internazionali. Per protesta l’intera delegazione (compreso Gianni Agnelli) rinunciò al viaggio (26). L’incidente si risolse nel novembre quando Segre e Franco Calamandrei poterono infine entrare negli Usa come membri di una delegazione dell’Unione interparlamentare guidata da Giulio Andreotti, che svolse il ruolo di garante.
A individuare la figura di Napolitano era stato un piccolo gruppo di accademici che comprendeva, oltre al citato La Palombara, Stanley Hoffmann di Harvard, Nick Wahl di Princeton e Zbigniew Brzezinski, docente alla Columbia University, esponente della commissione Trilateral e futuro consigliere della Sicurezza nazionale del presidente Carter. Si trattò, sempre secondo le parole di La Palombara, di un primo tentativo di apertura verso l’eurocomunismo rivolto all’Amministrazione Ford. Con una lettera alla Casa Bianca, inviata da Wahl e firmata da Hoffmann, “volevamo indagare se l’esecutivo fosse disposto ad adottare un’interpretazione più morbida dei visti d’ingresso per un numero limitato di eurocomunisti europei che consideravamo importanti. Ma il risultato fu, come sappiamo, negativo. Si incaricò di bloccare tutto Helmut Sonnenfeldt, consigliere del Dipartimento di Stato retto da Kissinger” (27). La pubblicazione nel 2015 dei Kissinger cables, le comunicazioni tra Henry Kissinger e le ambasciate Usa di tutto il mondo, ha permesso di conoscere meglio i retroscena di questo rifiuto.
Era l’agosto del 1975 quando l’ambasciatore a Roma John Volpe scriveva al suo superiore: “Nell’aprile scorso, abbiamo raccomandato di non rilasciare un visto a Giorgio Napolitano, che voleva recarsi negli Stati Uniti per tenere conferenze in quattro università” (28). Dalle comunicazioni emerge che della faccenda si era occupato direttamente lo stesso Kissinger il quale, anche se in un cablo all’ambasciatore Volpe qualificava la richiesta “intempestiva”, mostrava di avere una lettura complessa delle posizioni interne al Pci. Nel 1976, infatti, scrisse che “i comunisti non sono tutti uguali” e tra questi distingueva Napolitano che “ha confessato le proprie perplessità su come sviluppare il socialismo all’interno di uno Stato democratico, tenuto conto della specificità dell’esperimento sovietico” (29).
La decisione americana, dettata da realpolitik, era legata tra le altre ragioni alla necessità di non fare gesti che legittimassero, e quindi favorissero elettoralmente, il Pci, forza politica in forte ascesa e con ulteriori margini di progresso. “Non c’è dubbio – scriveva ancora Volpe nell’agosto dello stesso anno – che il rilascio di visti per Berlinguer e per altri alti funzionari del Pci giocherebbe a favore della loro rispettabilità democratica agli occhi dell’elettorato italiano. E come ha detto Berlinguer a Moro, «se il Pci dovesse ottenere un attestato di rispettabilità, la vittoria sarebbe inevitabile»” (30). Negare il visto d’ingresso avrebbe suscitato delle critiche ma sarebbe stato, concludeva l’ambasciatore, “il danno minore per gli Stati Uniti e per la causa della democrazia in Italia di quanto lo sarebbe lo sfruttamento da parte del Pci del rilascio dei visti come una sorta di presunta indicazione del fatto che il governo americano ha accettato le credenziali democratiche del Pci” (31).
18 marzo 1978, è arrivato il visto grazie ad Andreotti
Il 18 marzo 1978 Napolitano annunciò che aveva ricevuto finalmente il visto per gli Usa (32). Il viaggio, che sarebbe durato due settimane, era nato da un’iniziativa del Centro per gli studi europei diretto dal professor Stanley Hoffmann dell’università di Harvard. L’intenso programma di incontri, seminari e conferenze era coordinato dal professor Peter Lange, un italianista in contatto con La Palombara. A sbloccare il visto di Napolitano aveva anche contribuito l’intercessione di Andreotti, come avrebbe rivelato egli stesso: “Mi diedi da fare anch’io con l’ambasciata statunitense a Roma perché quel visto fosse concesso. Si trattava infatti di un’occasione importantissima: Napolitano poté spiegare agli americani l’evoluzione del Pci e il senso della politica che il suo partito perseguiva in quegli anni” (33). In una lettera autografa del 9 maggio 2006, conservata presso l’archivio Andreotti, Napolitano appena eletto al Quirinale rendeva omaggio a quel gesto che creò le basi della sua futura carriera istituzionale (34): “Non dimentico come ti adoperasti per il buon esito di quella mia prima missione negli Stati Uniti: venni a chiederti consiglio nel tuo studio a Palazzo Chigi, mi assicurasti il sostegno della nostra ambasciata a Washington, mi mettesti in contatto con Dini, a casa del quale potei incontrare il rappresentante del Fondo monetario” (35).
Una confidenza importante quella a cui si lasciò andare Napolitano, che lasciava trapelare uno dei segreti del suo viaggio negli Usa, tenuto nascosto ai militanti del Pci. Nella sua nota alla Segreteria Napolitano riferiva che avrebbe “ritirato, ovviamente, il visto e deciso con voi se partire alla data stabilita, in relazione al modo in cui si evolverà la vicenda Moro e la situazione complessiva” (36).
Le perplessità della Direzione: chi parte? Napolitano o Berlinguer?
A suscitare perplessità tra i massimi dirigenti del Pci sui tempi del viaggio, il cui inizio era previsto per il 3 aprile, non era soltanto il rapimento Moro o l’esame parlamentare della legge sull’aborto, i cui margini di approvazione erano strettissimi, tanto che la partita si sarebbe giocata con pochi voti di differenza (37). Sullo sfondo, molto probabilmente, c’era il sopra ricordato invito a Berlinguer stesso di recarsi negli Stati Uniti, che non a caso chiese a Napolitano di verificare la possibilità di un rinvio.
In una seconda lettera indirizzata il 23 marzo a Berlinguer, Natta e al resto della Segreteria, emergono i sondaggi fatti per valutare un possibile ritardo del viaggio: “Secondo il suggerimento datomi da Berlinguer stamattina – scrive Napolitano – ho telefonato oggi pomeriggio a Jacoviello per chiedergli di sondare con gli amici americani la possibilità di far slittare – data la coincidenza con le votazioni sull’aborto – di almeno una dozzina di giorni tutte le date del mio programma di conferenze e incontri negli Stati Uniti. Jacoviello mi ha risposto di considerarlo impossibile – dato che ci sono volute settimane per combinare i diversi impegni e fissare le date – e ha aggiunto che mentre, ovviamente, eventuali ulteriori aggravamenti della situazione dell’ordine democratico potrebbero risultare talmente drammatici da giustificare l’annullamento, il rinvio sine die del mio viaggio sarebbe difficile spiegarlo agli amici americani con la faccenda delle votazioni sull’aborto. Se ne potrebbe dare un’interpretazione politica (un ripensamento politico sul mio viaggio) con conseguenze alquanto negative” (38).
Napolitano voleva assolutamente partire. Lo si capisce dalla cura degli argomenti che sceglie per far comprendere agli altri dirigenti del suo partito quanto un rinvio rischiasse di provocare malintesi diplomatici, che avrebbero azzerato il faticoso obiettivo di allacciare rapporti con le autorità statunitensi ed essere finalmente riconosciuti come una potenziale forza di governo che non avrebbe messo in discussione gli equilibri geopolitici. “Detto ciò – continua la sua lettera alla Segreteria – lascio valutare a voi i due lati della questione: l’annullamento del viaggio (posso anche provare a telefonare direttamente all’americano Peter Lange che ha collaborato alla definizione di tutto il programma, per vedere se è possibile uno spostamento di 12-15 giorni anziché un rinvio sine die, ma l’opinione negativa di Jacoviello mi sembra fondata) e il rischio che il margine di maggioranza nelle votazioni sull’aborto risulti talmente ristretto da rendere decisivo il mio voto. Si può anche – come si diceva stamattina con Natta – verificare l’evolversi della situazione nel corso delle votazioni e prima di quella finale, riservandosi di richiamarmi ove ciò appaia indispensabile (anche se alcuni degli impegni di maggior rilievo politico sono previsti per gli ultimi giorni della mia permanenza negli Usa: in modo particolare l’incontro di New York è previsto per il giorno 14)” (39).
3 aprile, parte Napolitano con una ricca agenda di appuntamenti
La Segreteria comprese le ragioni e il 3 aprile Napolitano lasciò l’Italia per New York. Anche se non era il primo dirigente del Pci a fare ingresso negli Usa, la sua visita costituiva una novità assoluta, come lui stesso sottolineò in un articolo-resoconto scritto al suo rientro e apparso su Rinascita del 5 maggio 1978: “La novità e il significato dell’avvenimento stavano nel fatto stesso del rilascio del visto” (40), concesso in deroga alla legislazione (lo Smith Act del 1940 e il McCarran Act del 1950) che impediva il rilascio di permessi di entrata per chi era ritenuto una “minaccia” per il Paese (i comunisti tradizionalmente rientravano in quella categoria). “Per la prima volta – prosegue Napolitano – un membro della Direzione del Pci [era stato] invitato in quanto tale negli Stati Uniti per illustrare la politica del Pci, e non come componente di una delegazione unitaria, di carattere parlamentare o regionale o comunale” (41), come era stato in precedenza per Pecchioli e Segre.
Il programma degli incontri era davvero molto fitto (42): si andava dai confronti con gli staff dirigenziali e le redazioni dei più noti quotidiani e settimanali, come il New York Times, il Washington Post, Newsweek, o i top editors di Time e Fortune, a conversazioni private con rappresentanti del mondo degli affari e del mondo politico e culturale, fino alle conferenze nelle università di Princeton, Harvard e Yale. Chiudevano l’esperienza alcuni seminari al Centro di ricerca della politica estera della John Hopkins University di Washington e al Centro di studi strategici della Georgetown University diretto da Kissinger, nonché importanti incontri con gruppi e centri decisionali come il Lehman Institute e il Council on Foreingn Relations dove, a detta di La Palombara, la visita raggiunse il suo culmine davanti a un uditorio composto da avvocati, banchieri e dirigenti industriali di portata internazionale (43).
“Le Brigate rosse non sono marionette di un complotto reazionario ma figli degeneri del marxismo rivoluzionario”
I temi affrontati durante gli incontri furono la politica estera del Pci, la sinistra europea, la politica economica, in particolare la posizione del Pci sull’intervento dello Stato nell’economia e, ovviamente, il terrorismo. Se ne parlò, scrisse Napolitano su Rinascita, fin dal primo giorno nella redazione di Newsweek: “Si discute sulle sue cause, sulla sua dimensione internazionale e sulla rilevanza e virulenza in Italia. Mi sembra che venga apprezzato il nostro impegno a non seguire la troppo facile strada della riduzione del fenomeno a complotto reazionario – le Brigate rosse come marionette, opportunamente travestite, della reazione – e a fare invece i conti con le degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista” (44).
A casa di Agnelli in Park Avenue
Pochi giorni dopo a Princeton si registrò un episodio particolare: al momento delle domande un giovane studente, esprimendosi in un buon inglese, dopo aver rilevato contraddizioni nell’esposizione di Napolitano, chiese quali legami restassero ancora tra gli scritti del giovane Marx e la politica del Pci. Alla fine egli stesso si presentò al dirigente comunista: era Edoardo Agnelli, il figlio di Gianni (45).
La trasparenza impiegata nel caso dell’aneddoto su Edoardo Agnelli non trovò seguito quando si trattò di riferire l’incontro, mantenuto segreto per trentacinque anni, che Napolitano ebbe con il padre, Gianni Agnelli, nella sua casa in Park Avenue, a New York. L’episodio venne rivelato dal protagonista soltanto nel 2013: “Fui condotto – raccontò Napolitano – da Furio Colombo nella casa dell’Avvocato in Park Avenue. Sapeva che ero in America, voleva conoscermi. Parlammo vivacemente, dei miei incontri americani in primo luogo, ma anche dell’Italia naturalmente. Curioso, attento, gentile. E, di certo, uomo di visione internazionale. Ecco l’impressione che mi fece subito Agnelli in quell’incontro che rappresentava un inedito o quasi, perché credo che fino a quel momento l’Avvocato conoscesse di persona pochissimi esponenti nazionali del Pci oltre a Giorgio Amendola e Luciano Lama, che aveva avuto come controparte sindacale. Così cominciò una conoscenza, nacque un interesse reciproco, e si avviò un rapporto che ebbe poi tappe interessanti e particolari in seguito” (46).
Magro bilancio ma pieno accordo sulla linea della fermezza
La missione negli Stati Uniti aveva “acceso un interesse” verso il Pci, aperto “canali di comunicazione e confronto” che da lì bisognava percorrere. Fu quello il bilancio del viaggio negli Usa tirato da Napolitano al suo rientro (47). Secondo l’esponente comunista, il contatto di notevole ampiezza avuto “con ambienti rappresentativi del mondo universitario e culturale americano, in alcuni dei suoi centri più importanti e più impegnati politicamente” sarebbe stato estremamente utile poiché era convinto “che tra questo mondo e le sedi di elaborazione della politica ci sia comunicazione, non separazione”.
In sostanza il suo viaggio aveva permesso all’Amministrazione Carter di rimettere in discussione diffidenze e pregiudizi verso i comunisti italiani. Nonostante ciò il favore accademico raccolto era rimasto privo di risultati politici. Il Pci non ottenne la benedizione auspicata, anche perché la situazione politica italiana stava evolvendo velocemente. Alle elezioni amministrative parziali del maggio 1978 il Pci subì un primo segnale di arresto che spinse Berlinguer ad accennare un’autocritica sulla politica del compromesso storico: “Siamo stati generosi forse fino al livello della ingenuità, anche perché a questa nostra generosità e lealtà non ha corrisposto eguale lealtà da parte di altri partiti e da parte della stessa Democrazia cristiana” (48).
Nel gennaio del 1979 il Pci uscì dalla maggioranza di governo, tardiva decisione che non impedì la durissima sconfitta elettorale del giugno 1979, dove i comunisti arretrarono per la prima volta dalla nascita della Repubblica, perdendo quattro punti percentuali e un milione e mezzo di voti.
Addebitare quel risultato alla politica di logoramento che gli americani avevano ricalcato sulla strategia elaborata da Moro, sarebbe riduttivo. Nessuno aveva obbligato il Pci a scegliere la strada del compromesso storico. I comunisti pagavano il prezzo della loro inadeguatezza di cultura politica che il decennio aveva portato in superficie: la scelta di strategie fondate sull’autonomia del politico nel momento di massimo protagonismo dei movimenti sociali, probabilmente ne mise a nudo l’incapacità di interpretare quelle domande di radicale mutamento, che avevano osteggiato nonostante ne avessero ricavato un vantaggio elettorale alla metà degli anni Settanta. Non a caso, l’unico vero risultato politico incassato durante il viaggio di Napolitano negli Usa fu la totale sintonia sulla strategia della fermezza da mantenere di fronte al sequestro di Moro, e più in generale verso i sommovimenti sociali di quel periodo. La politica americana era dettata dalla realpolitik: nel momento in cui il Pci non sembrava più in grado di varcare la soglia di Palazzo Chigi, per gli Usa veniva meno il problema di concedergli eventuali atout, anche se ciò non impedì l’ulteriore approfondimento della “politica dei contatti”. Il 20 luglio 1978 l’ambasciatore Gardner, in accordo con il Dipartimento di Stato, sottoscrisse un memorandum che “apriva un nuovo corso, autorizzando un numero molto maggiore di funzionari d’ambasciata a intrecciare rapporti con i membri del partito comunista” (49).
La processione dei dirigenti del Pci davanti al cancello di Villa Taverna
Si veda anche Un’altra ‘gaffe’ dell’ambasciatore, l’Unità, 22 luglio1978 Le nuove procedure consentirono inviti formali per esponenti del Pci che ricoprivano incarichi pubblici, dal sindaco di Roma al presidente della Camera, nessuna preclusione nei rapporti con i giornalisti de l’Unità e grande disponibilità in ambito culturale (50). Il problema dell’Amministrazione Usa restava sempre quello di non dare adito all’equivoco che questo diverso atteggiamento verso il Pci, questo lavoro di conoscenza di una parte d’Italia rimasta fino a quel momento ai margini, potesse essere interpretato come un lasciapassare per l’ingresso del Pci al governo. Per aggirare questo rischio Gardner ottenne da Brzezinski e Vance un’ulteriore concessione: fu stabilito un protocollo segreto che consentiva all’ambasciatore in persona di incontrare in privato alcuni esponenti di primo piano del Pci, come Emanuele Macaluso, Ugo Pecchioli e lo stesso Napolitano.
Il primo incontro avvenne a casa di Cesare Merlini, presidente dell’Istituto Affari internazionali, in cui si stabilirà una consuetudine di incontri protetti da riservatezza assoluta. Per evitare fughe di notizie l’ambasciatore riferì direttamente a Carter e Brzezinski senza mai inviare telegrammi a Washington. Napolitano ne parlò solo con Berlinguer (51). Nonostante l’impegno assunto, però, fu proprio Gardner – per rispondere a chi negli Usa criticava il suo operato – a far trapelare la notizia sul Los Angeles Times. Oltre ai ricevimenti a Villa Taverna, si riferiva che “Gardner aveva incontrato funzionari del partito comunista soltanto in occasioni private” e si lasciava chiaramente intendere che avesse visto “almeno due dei membri della segreteria del partito: Giorgio Napolitano e Giancarlo Pajetta”. L’articolo riportava anche valutazioni politiche sull’esito degli incontri, “apparsi deludenti”, inquadrandoli in una strategia che mirava a “incoraggiare e accelerare il processo di occidentalizzazione del partito” (52). Il tiro giocato dall’ambasciatore Usa provocò indignate proteste sulla stampa del Pci e un duro editoriale di Eugenio Scalfari, su la Repubblica, con il titolo “L’ambasciatore delle gaffes” (53), ma non mise fine alla processione dei dirigenti del Pci davanti al cancello di Villa Taverna.
1) Pasquale Chessa, L’ultimo comunista, Chiarelettere, 2013, cit., p. 129
2) R.N. Gardner, Mission Italy, Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma 1977-1981, Mondadori, Milano 2004, p. 244
3) E. Berlinguer, La politica internazionale dei comunisti italiani. 1975-76, Editori Riuniti, Roma, 1976
4) Politologo della università di Yale, tra i maggiori esperti della politica italiana, nel biennio 1980-81 fu capo dell’ufficio culturale dell’ambasciata americana a Roma
5) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0310, 1078 Esteri, f. 1185. L’originale in inglese della lettera si trova nel microfilm 0310, f. 1184
6) l’Unità, 16 novembre 1977
7) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0310, 1078 Esteri, cit.
8) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Esteri lettera 8 febbraio 1978, b. 2477
9) S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, 2006, cit., p. 135
10) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, 1978, Segreteria, Microfilm 7801, f. 0087, citato in P. Chessa, L’ultimo comunista, Chiarelettere, 2013, cit., p. 139
11) Intervista a Joseph La Palombara di G. Cubeddu, Alla ricerca della solidarietà nazionale, aprile 2008, p. 3 (http://www.30giorni.it/articoli_id_17702_l1.htm)
12) Ibidem
13) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 080, Estero 1974, f. 401
14) S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, 2006, cit., p. 50
15) L. Barca, Il Pci e l’Europa, intervista rilasciata a Paolo Ferrari, «Menabò di etica e economia impresa», 20 giugno 2004, (http://www.eticaeconomia.it/intervista-al-senatore-luciano-barca/), scaricato il 26 aprile 2016), ma anche L. Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci, Rubettino Roma, 2005, vol. II, pp. 601-603
16) Ibidem
17) Ibidem
18) M. Molinari, Governo ombra. I documenti segreti degli USA sull’Italia degli anni di piombo, Rizzoli, 2012, p. 109-112. Barca riferisce anche che Macaluso “è stato rimproverato per non aver informato il partito sul coinvolgimento di una figlia acquisita in un gruppo di estrema sinistra”. Si trattava di Fiora Pirri Ardizzone
19) La Palombara, Alla ricerca della solidarietà nazionale, op. cit. p. 3
20) F. Modigliani, L’impegno civile di un economista, a cura di Pier Francesco Asso, Protagon – Fondazione del Monte dei Paschi di Siena, 2007, pp. 35-37, cit. in P. Chessa, L’ultimo comunista. La presa del potere di Giorgio Napolitano, Chiarelettere, Roma 2013, p. 140
21) la Repubblica, 8 aprile 2013, «Quell’incontro con Napolitano che Ted Kennedy rifiutò tre volte»
22) R.N. Gardner, Mission Italy, Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma 1977-1981, Mondadori, Milano 2004 Italy, cit.
23) Ivi, p. 124. Cfr L. Barca, Il Pci e l’Europa, intervista rilasciata a Paolo Ferrari, «Menabò di etica e economia impresa», 20 giugno 2004, (http://www.eticaeconomia.it/intervista-al-senatore-luciano-barca/)
24) R.N. Gardner, Mission Italy, cit., p. 125
25) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0317, Estero, Lettera di Giorgio Napolitano alla segreteria, 2 febbraio 1978, f. 1152
26) la Repubblica, 3 aprile 1999
27) Intervista a Joseph La Palombara di G. Cubeddu, Alla ricerca della solidarietà nazionale, aprile 2008, p. 2-3 (http://www.30giorni.it/articoli_id_17702_l1.htm)
28) S. Maurizi, Espressonline, 8 aprile 2015. Vedi http://espresso.repubblica.it/palazzo/2013/04/08/news/quel-comunista-non-deve-entrare-1.52900
29) Ibidem
30) Ibidem
31) Ibidem
32) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, Direzione sezione estero, Stati Uniti, «Nota di Giorgio Napolitano alla segreteria», 18 marzo 1978 (514/S), ff. 2156-57
33) R. Rotondo, «Napolitano in Usa, così Andreotti mediò», Avvenire, 17 aprile 2013
34) Giorgio Napolitano fu presidente della Camera dei deputati nella XI legislatura dal 1992 al 1994; ministro dell’Interno nel primo governo Prodi, 1996-1998; senatore a vita dal 2005; presidente della Repubblica con doppio mandato dal maggio 2006 fino al gennaio 2015
35) Avvenire, 17 aprile 2013
36) Ibidem
37) La legge 194 che introduceva l’interruzione volontaria della gravidanza venne approvata dalla Camera il 14 aprile 1978, alla fine di una seduta fiume di 36 ore, con 308 voti favorevoli (quelli di Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e di un drappello di democristiani) e 275 contrari (quasi tutta la Dc, Msi, e per ragioni opposte i Radicali e il Pdup-Dp). Un mese più tardi, il 18 maggio 1978, venne approvata in via definitiva al Senato senza subire alcuna ulteriore modifica, con 160 voti a favore e 148 contrari
38) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, Direzione sezione estero, Stati Uniti, Nota di Giorgio Napolitano alla segreteria, 23 marzo 1978 (533/S), f. 2158
39) Ibidem
40) G. Napolitano, «Il Pci spiegato agli americani. Taccuino di viaggio negli Usa», Rinascita, 5 maggio 1978, p.32
41) Ibidem
42) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, f. 2146, A. Jacoviello, l’Unità, 5 aprile 1978
43) J. La Palombara, op. cit., pp. 5-6
44) G. Napolitano, op. cit., p. 32
45) Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, Microfilm 0322, f. 2148, l’Unità, 9 aprile 1978
46) la Repubblica, 13 gennaio 2013
47) G. Napolitano, op. cit., p. 32
48) Rapporto di Enrico Berlinguer alla riunione dei segretari regionali, 25 maggio 1978, l’Unità, 26 maggio 1978
49) N. R. Gardner, op. cit., p. 244
50) Ivi, pp. 244-245
51) Ivi, p. 244, Cf. Presentazione del libro di Gardner a Roma, 4 settembre 2004. (https://www.radioradicale.it/scheda/161849/mission-italy-gli-anni-di-piombo-raccontati-dallambasciatore-americano-a-roma-1977)
52) Ivi, p. 259, articolo ripreso dal International Herald Tribune, 20 luglio 1978
53) la Repubblica, 21 luglio 1978.