Chi è il popolo di Trump? 74 milioni di voti alle ultime presidenziali, 12 milioni in più del 2016: se Trump se n’è andato chi l’ha votato è ancora lì e più numeroso. Viaggio nei fattori decisivi per la scelta del voto, tra livello di scolarizzazione ed ‘etnicizzazione‘ della working class
Nonostante la sconfitta elettorale nelle presidenziali del 3 novembre scorso, l’America non ha abbandonato Trump: The Donald ha ottenuto 74 milioni di voti, 12 milioni in più del 2016 – il che fa di lui il candidato più votato nella storia americana, Joe Biden a parte. Il presidente uscente è riuscito a convincere più del 70% dei suoi elettori (1) che la presidenza gli sia stata sottratta con la frode, e le sue truppe hanno lottato con lui in tribunale, sui media e per le strade fino alla fine, quel 6 gennaio in cui fedelissimi sostenitori hanno preso d’assalto Capitol Hill per impedire che il Congresso ne certificasse la sconfitta. Durante la transition molto si è parlato del rifiuto di Trump di concedere la vittoria, della sua dipendenza dai social media, del suo equilibrio mentale sempre più in bilico, della nuova procedura di impeachement a seguito dei fatti del 6 gennaio, dell’America spaccata in due; ma quasi nessuno si è interrogato sul perché una metà degli americani continui a sostenerlo nel bene e nel male, contro ogni previsione e, a volte, anche contro il proprio interesse.
Dai dati finora disponibili (che non comprendono, purtroppo, un’analisi del voto postale, il cui peso, in questi tempi pandemici, è stato tutt’altro che marginale), le presidenziali del 2020 hanno finito per assomigliare molto a quelle del 2016, in palese controtendenza rispetto ai sondaggi pre-elettorali, tutti solidamente pro Biden. Lo conferma Charles H. Stewart, direttore e fondatore del MIT’s Election Data and Science Lab (2): “Ci sono stati lievi cambiamenti, ma […] molto meno drammatici di quanto ci hanno fatto credere i sondaggi. Semmai, alcune tendenze si sono rafforzate, come la prevalenza del voto Dem fra l’elettorato under 30. In tutti gli altri gruppi di età (30-44, 45-64, 65 e oltre) il divario fra i due contendenti è stato abbastanza ridotto”. Trump ha anche perso un po’ di appeal tra gli elettori a basso reddito, ma l’ex presidente, grazie alla sua politica fiscale, ha guadagnato tra gli elettori con redditi familiari superiori a 100.000 dollari l’anno. Pur non essendoci ancora prove concrete a riguardo, Stewart ritiene che l’aumento dell’affluenza alle urne, al livello più alto mai raggiunto storicamente (3) e determinante per il risultato finale, sia stato alimentato dal voto dei giovani e della comunità latina, due categorie che “storicamente sono state significativamente sotto-rappresentate nell’elettorato” e che hanno scelto in massima parte Biden (con l’eccezione dei giovani maschi bianchi, sostenitori di Donald Trump). Per il resto, poco o nulla è cambiato dal novembre 2016, quando gli USA hanno decretato il successo del presidente più antipolitico della storia americana.
Il voto del 2016
Una delle più grandi sfide che devono affrontare coloro che cercano di capire le elezioni americane è stabilire un ritratto accurato dell’elettorato statunitense e delle sue scelte. Ottenere dati precisi è difficile per tutta una serie di ragioni (fra cui la poca affidabilità degli exit poll), ma il Pew Research Center (un think tank americano apartitico con sede a Washington D.C. che fornisce dati su questioni sociali, opinione pubblica e tendenze demografiche negli Stati Uniti e nel resto del mondo) è riuscito nel 2018 ad arginare il problema introducendo un nuovo approccio, che combina, attraverso una metodologia statistica, i membri del suo panel di ricerca (il National Representative American Trends Panel) con i file degli elettori (che le autorità amministrative rendono disponibili alcuni mesi dopo il voto). Il Pew ha così ottenuto un gruppo di “elettori verificati”, le cui preferenze di voto nel complesso rispecchiano molto da vicino i risultati delle elezioni (4). Intervistando questi elettori verificati è stato possibile realizzare l’analisi più precisa (almeno fino a oggi) delle preferenze di voto in una elezione presidenziale, e la ricerca è divenuta la fonte più attendibile (e più citata) della nuova geografia elettorale USA.
Fra i fattori che sono emersi come fortemente correlati alle decisioni di voto alcuni sono noti da tempo (per esempio l’etnia), altri sono meno intuitivi (per esempio il grado di scolarizzazione). Complessivamente, i bianchi con un’istruzione universitaria di quattro anni o più costituivano il 30% di tutti gli elettori convalidati. Tra questi, il 55% ha detto di aver votato per la Clinton e il 38% per Trump. Ma nel gruppo molto più grande di elettori bianchi che non hanno completato il college (il 44% di tutti gli elettori), Trump ha conquistato il 64% dei voti e la Clinton il 28%: una vittoria schiacciante. Lo spostamento del voto della working class bianca dai candidati democratici a quelli del GOP (acronimo di Good Old Party, come viene chiamato il partito repubblicano USA) ha rappresentato la tendenza politica più importante emersa dalle elezioni presidenziali 2016.
Per quanto riguarda invece le preferenze raggruppate per sesso, età e stato civile, le donne hanno in maggioranza votato Clinton (il 54%, contro il 41% fra gli uomini) e il divario di genere è stato particolarmente significativo tra gli elettori convalidati più giovani di 50 anni, dove la Clinton ha ottenuto il 63% delle preferenze femminili contro il 43% di quelle maschili. Di conseguenza, il voto maschile è sostanzialmente pro Trump. Tra gli elettori sposati (il 52% del campione) Trump ha ottenuto una maggioranza del 55%; fra gli elettori non sposati la situazione si è ribaltata, favorendo la Clinton con il 58% dei voti. Nel 2016, solo il 13% degli elettori convalidati aveva meno di 30 anni, ma questa fascia d’età ha preferito decisamente la Clinton rispetto a Trump (con un margine di 58% a 28%, mentre il 14% ha sostenuto uno dei candidati terzi). Tra gli elettori dai 30 ai 49 anni, il 51% ha sostenuto Clinton, mentre Trump ha vinto tra gli elettori dai 50 ai 64 anni (51% a 45%) e fra quelli dai 65 anni in su (53% a 44%). Quindi le donne, i single e i giovani votano in maggioranza Dem, mentre le famiglie e gli anziani votano Trump.
Dobbiamo notare, tuttavia, che anche nel 2016, così come accade di solito negli USA, le scelte degli elettori e l’affiliazione al partito sono stati quasi sinonimi. Gli elettori repubblicani convalidati hanno riferito di aver scelto Trump con un margine di 92% a 4%, mentre i democratici hanno sostenuto la Clinton con un 94% a 5%. Il circa un terzo (34%) dell’elettorato che si è identificato come indipendente ha diviso i suoi voti in modo quasi equo (43% Trump, 42% Clinton).
Analogamente, il voto del 2016 è stato fortemente correlato alla coerenza ideologica. Collocando gli intervistati in cinque categorie che vanno da “coerentemente conservatore” a “coerentemente liberale” sulla base di una scala composta da dieci valori politici (di cui fanno parte per esempio le opinioni sull’etnia, l’omosessualità, l’ambiente, la politica estera e la rete di sicurezza sociale), praticamente tutti gli elettori convalidati con valori coerentemente liberali hanno votato per Clinton (95%), mentre quasi tutti quelli con valori coerentemente conservatori hanno scelto Trump (98%). Coloro che avevano opinioni conservatrici sulla maggior parte dei valori politici (“prevalentemente conservatori”) hanno favorito Trump (87% a 7%), mentre la Clinton ha vinto, ma in misura meno schiacciante, fra i “prevalentemente liberali” (78%-13%). Fra gli elettori con un profilo ideologico misto (un terzo del totale), vince di misura Trump (48%).
Gli elettori americani storicamente sono nettamente divisi lungo le linee religiose, e questo si è mantenuto costante anche nel 2016. I protestanti costituivano circa la metà dell’elettorato e hanno riferito di aver votato per Trump rispetto alla Clinton con un margine di 56% a 39%. I cattolici erano più equamente divisi: il 52% ha riferito di aver votato per Trump, mentre il 44% ha detto di sostenere la Clinton; tuttavia, i cattolici bianchi non ispanici hanno sostenuto Trump con un rapporto di circa due a uno (64% a 31%), mentre i cattolici ispanici hanno nettamente favorito la Clinton con uno schiacciante 78%. Fra coloro non affiliati alla religione – atei, agnostici e quanti hanno detto che per loro la religione non è “niente di particolare” – una decisa maggioranza ha dichiarato di aver votato per Clinton (65%).
All’interno della tradizione protestante, gli elettori si sono spaccati a seconda dell’etnia: i protestanti evangelici bianchi, a cui appartengono un elettore su cinque, sono stati costantemente tra i più forti sostenitori dei candidati repubblicani e hanno sostenuto Trump con un margine di 77% a 16% (e questo dato è quasi identico al vantaggio di 78% a 16% che Mitt Romney aveva su Barack Obama tra gli evangelici bianchi nei sondaggi del Pew Research Center alla vigilia delle elezioni presidenziali del 2012). Tra i bianchi affiliati al protestantesimo principale – chiese episcopali, presbiteriane, metodiste e luterane – che rappresentano il 15% degli elettori in generale, il 57% ha detto di aver votato per Trump e il 37% ha riferito di aver votato per Clinton. Clinton ha tuttavia vinto in modo schiacciante tra i protestanti neri (96% contro il 3% per Trump).
Infine, per quanto riguarda la distinzione in base al reddito, i democratici vincono sia tra gli elettori con i redditi più alti che tra quelli con i redditi più bassi. Gli elettori che riportano redditi familiari annuali uguali o superiori a 150.000 dollari hanno votato il partito democratico, con un margine di 59% a 39%; come pure gli elettori all’altro estremo, quelli con un reddito inferiore ai 30.000 (62% a 34%). Viceversa, gli elettori con redditi compresi fra 30.000 e i 74.999 dollari hanno scelto in maggioranza il Partito Repubblicano (54% a 44%).
Profili demografici e politici degli elettori USA
Come è facile immaginare, le coalizioni che hanno sostenuto i due candidati nella corsa alle presidenziali sono molto diverse fra loro. Queste differenze rispecchiano gli ampi cambiamenti avvenuti nelle composizioni dei due partiti, che sono oggi più dissimili, dal punto di vista demografico, di quanto sia mai accaduto negli ultimi due decenni. La coalizione democratica raccoglie il voto femminile (61% alla Clinton); gli elettori giovani (il 48% degli elettori Dem ha meno di 50 anni); i cittadini con un alto grado di istruzione (il 43% sono almeno laureati); e circa un terzo degli elettori (il 32%) che vive in un contesto urbano. Viceversa, la coalizione GOP è molto più semplice da definire dal punto di vista demografico: i bianchi costituiscono quasi 9 su 10 sostenitori di Trump (88%); di questi, il 63% non ha un diploma di laurea e il 35% abita in una zona rurale.
Si delineano quindi tre punti fondamentali di discontinuità fra l’elettorato Democratico e Repubblicano statunitense: l’etnia, il livello di scolarizzazione e la zona geografica di appartenenza. Queste differenze sostanziali sono alla base delle divisioni profonde che scuotono oggi gli USA e vedono scontrasti in blocchi contrapposti i bianchi contro i neri, le persone ben istruite contro coloro che hanno a disposizione un’istruzione solo di base e gli Stati rurali contro quelli delle fasce costiere.
La working class: ‘etnicizzare’ la situazione economica
Chi sono gli elettori della working class bianca che costituisce il bacino elettorale più importante di Trump, la cosiddetta ‘base’? Negli USA, i cittadini bianchi senza un’istruzione superiore (college degree) sono spesso chiamati ‘classe operaia’, ma questa etichetta viene usata in modo piuttosto semplicistico. In realtà, la base trumpiana non è composta tanto da ‘colletti blu’, cioè da operai e lavoratori edili, quanto da un mix socioeconomico definito sia dai livelli di reddito, sia dai livelli di istruzione, e cioè da coloro che non hanno un diploma di laurea e che hanno un reddito familiare annuo inferiore alla mediana USA (5). Comprende anche i proprietari di piccole imprese e coloro che lavorano nei servizi, spesso con profili impiegatizi (i cosiddetti ‘colletti bianchi’), e le donne che lavorano, per esempio, nel settore sanitario e nella cura della persona (i cosiddetti ‘colletti rosa’).
In effetti, nel 2016 Trump non ha guadagnato la sua quota maggiore di voti tra i bianchi più poveri d’America, ma tra quelli della ‘classe media’ (un’etichetta catch-all usata per descrivere tutti coloro che si collocano tra i ricchi e chi vive sotto la soglia di povertà). Secondo Identity Crisis: the 2016 Presidential Campaign and the Battle for the Meaning of America (autori John Sides, Michael Tesler e Lynn Vavreck), un libro ampiamente lodato sulle elezioni del 2016, Trump avrebbe “etnicizzato” la situazione economica (racialised economics) promuovendo con successo presso gli americani bianchi “the belief that undeserving groups are getting ahead while your group is left behind”, cioè la convinzione che i gruppi etnici meno meritevoli stessero migliorando il proprio status mentre i bianchi venivano lasciati indietro. Così, nel 2016, sono stati gli elettori bianchi a infilare Trump nello studio ovale, con un sonoro 54% contro il 39% della Clinton, e le prime stime del voto 2020 (sebbene ancora incomplete o parzialmente inesatte) mostrano che The Donald ha addirittura migliorato la sua performance conquistando il 57% dell’elettorato bianco (versus il 42% ottenuto da Joe Biden). Lo conferma un sondaggio condotto da Edison Research per il National Election Pool, che ha intervistato 15.590 elettori all’uscita dal seggio o per telefono (nel caso di voto postale) (6).
I bianchi sono sempre stati la chiave del successo di Donald Trump: nonostante i suoi guadagni nel 2020 anche tra gli elettori di colore e i latini, la base di Trump è sempre stata la gente bianca. E poiché gli elettori bianchi costituiscono la maggioranza dell’elettorato – il 65% secondo Edison Research – essi costituiscono di gran lunga il blocco più grande che lo sostiene.
Fra loro ci sono i bianchi completamente allineati con Trump, quelli che votano per la whiteness (la bianchezza) indipendentemente dallo status socioeconomico o dal livello di istruzione che hanno raggiunto, come i gruppi suprematisti bianchi, ma ce ne sono altri che sono disposti a ignorare qualche aspetto sgradevole della politica trumpiana in favore della sua posizione sulle questioni che li riguardano più da vicino. Per esempio, ci possono essere elettori che non sono d’accordo con la retorica razzista di Trump, ma non se ne preoccupano perché sono antiabortisti oppure favorevoli alle armi e contro le tasse per i super ricchi, e “possono essere in grado di distogliere convenientemente lo sguardo dalle sue politiche di separazione dei figli degli immigrati [dai genitori] perché amano la sua promessa di mettere l’America al primo posto. Invece di affrontare il motivo per cui le proteste antirazziste sono scoppiate nei piccoli paesi e nelle città di tutta la nazione, vogliono solo che le cose tornino alla normalità. A loro, law and order sembra una buona soluzione” (7).
Le donne bianche sembrano aver sostenuto Trump in numero simile o addirittura maggiore nelle ultime elezioni rispetto al 2016. Il 55% delle elettrici bianche ha votato per Trump, secondo gli exit poll di Edison Research, mentre il 43% ha votato per Biden. Il sostegno delle donne bianche per Trump ha un precedente storico: esse sono state a lungo in grado di ottenere potere in una società sessista alleandosi con la supremazia bianca. Come la storica Stephanie Jones-Rogers ha dichiarato nel 2018, “le ragazze e le donne bianche sono state in grado di esercitare il potere in questa nazione, dai suoi inizi coloniali, a causa della loro whiteness”, riferendosi al fatto che pur non avendo gli stessi diritti degli uomini bianchi (per esempio il diritto di voto), le donne bianche avevano il diritto di comprare e vendere schiavi (8).
Secondo i dati degli exit poll analizzati dal Center for Information & Research on Civic Learning and Engagement, anche nel gruppo degli elettori giovani (fra i 18 e i 29 anni), i bianchi sono stati i più propensi a sostenere Trump, con il 43% delle preferenze contro il 9% ottenuto fra i giovani elettori neri, il 13% fra i giovani elettori asiatici e il 21% fra giovani elettori latini.
Il futuro del voto americano
Joe Biden ha fatto di tutto per rosicchiare qualche voto dalla base di Donald Trump: ha descritto la corsa presidenziale come “Scranton contro Park Avenue” (il luogo di nascita dei due contendenti), per sottolineare la sua appartenenza alla middle class. Ha urlato contro i tagli alle tasse per i miliardari. Ha dichiarato con orgoglio che con lui sarebbe stato un laureato in un’università statale, non un altro Ivy Leaguer, a sedere nello Studio Ovale. Ha adottato una linea populista in economia. E Biden ha vinto, alla fine, ma gli elettori bianchi senza titolo di studio sono rimasti fedele all’ex presidente, in barba ai sondaggi pre-elettorali (9). Le vittorie democratiche negli swinging States sono arrivate grazie al crescente sostegno dei sobborghi benestanti intorno ad Atlanta, Philadelphia e Detroit, dove Biden ha ampliato i suoi margini in una nuova roccaforte Democratica: gli elettori bianchi con un diploma di studio superiore. “Il fattore più importante uscito da queste elezioni è che la polarizzazione del voto rispetto al livello di istruzione in realtà è aumentata, piuttosto che diminuire come i sondaggi avevano previsto” ha detto David Shor, sondaggista Democratico. “[I Democratici] nonostante gli sforzi hanno fondamentalmente fallito nelle aree meno istruite e hanno guadagnato molto nelle aree istruite”, e anche se il nuovo presidente ha battuto Trump nel voto popolare per più di 6 milioni di voti, il futuro rema contro i democratici, perché Biden ha già cominciato a perdere voti (rispetto alla Clinton) sia fra gli elettori neri (-4%) sia, in misura maggiore, fra gli elettori ispanici (-7%, e Trump ha migliorato i suoi margini in 78 delle 100 contee a maggioranza latina).
Per anni, i Democratici hanno espresso fiducia nel fatto che l’elettorato sempre più vario e meno bianco del Paese avrebbe dato loro un vantaggio a lungo termine sui Repubblicani. Ma Shor (che ha lavorato per Obama nel 2012), racconta un’altra verità: dal momento che i collegi elettorali e la rappresentanza in Senato sono ‘distorti’ a favore degli Stati meno popolati dove dominano i Repubblicani (10), “ai Democratici serve il 54% del voto popolare per i prossimi sei anni per mantenere il controllo di Camera e Senato”, e di conseguenza i Dem devono iniziare a vincere negli Stati rurali e prevalentemente bianchi come l’Iowa e il Montana.
La quota di elettori bianchi senza titolo di studio che vota Democratico ha iniziato a diminuire dagli anni ‘60, durante l’era delle lotte per i diritti civili, quando i Democratici hanno perso il loro appeal nel profondo sud, ma il divario fra il voto delle aree rurali e quello dei centri urbani ha raggiunto nuove vette nel 2016, dopo che Trump ha vinto con una campagna basata sulla linea dura contro l’immigrazione illegale. Oggi in America “gli elettori si riconoscono di più nel partito con cui condividono opinioni sociali e culturali piuttosto che necessariamente opinioni di politica economica”, dice Matt Grossman, responsabile dell’Institute for Public Policy and Social Research alla Michigan State University, “e la stessa tendenza si ritrova nelle nazioni europee”. Con il suo marchio di populismo culturale, non economico, Trump ha alimentato le paure dei bianchi per le proteste razziali che sono scoppiate nelle città; ha spinto per “legge e ordine” durante la campagna; ha criticato pesantemente il movimento Black Lives Matter e ha accusato i Democratici di essere morbidi contro la violenza nera e di schierarsi contro la polizia. Ha avvertito che Biden avrebbe trasformato gli Stati Uniti in un Paese “socialista” e ha accusato i Democratici di voler cancellare il Secondo emendamento, che garantisce il diritto di possedere armi.
Secondo alcuni, come William Frey, autore di Diversity Explosion: How New Racial Demographics are Remaking America, l’educational divide rappresenterebbe un vantaggio, non uno svantaggio per i Democratici, perché la popolazione dei sobborghi e delle aree urbane, i giovani, le persone di colore e i bianchi con un’istruzione superiore sono tutti gruppi demografici in crescita, mentre gli uomini anziani, bianchi e non istruiti sono una popolazione in declino, specialmente nelle aree rurali, e questo blocco di voto sta diventando più piccolo a ogni tornata elettorale: “[I Repubblicani] stanno ancora abbracciando parti della popolazione in crescita lenta piuttosto che parti della popolazione in più rapida crescita” (11).
Secondo altri analisti politici, come Robert Griffin, direttore di ricerca per il Democracy Fund Voter Study Group, la polarizzazione dell’elettorato rispetto al grado di istruzione rappresenta nel contempo sia un vantaggio che uno svantaggio per entrambi i partiti. Dal punto di vista Repubblicano, la maggior parte degli adulti è priva di titolo di studio. Gli elettori bianchi senza laurea costituivano il 44% degli elettori nel 2016, e poiché questo gruppo è uniformemente distribuito geograficamente in tutto il Paese, i Repubblicani ne beneficiano in termini di rappresentanza nel collegio elettorale, al Senato e alla Camera. D’altra parte gli USA stanno diventando sempre più diversificati rispetto all’etnia e all’istruzione, e la quota di elettori bianchi senza istruzione superiore scende da 2 a 4 punti percentuali ogni anno.
Ma non tutti nel Partito Democratico sono così fiduciosi: Andrew Yang, imprenditore e politico, candidato sindaco Democratico per New York nel 2021, ha un’opinione diversa: “C’è qualcosa di profondamente sbagliato se gli americani della working class non votano un grande partito che teoricamente dovrebbe lottare per loro. Quindi dovete chiedervi: cosa rappresenta il Partito Democratico nelle loro menti? E nelle loro menti, il Partito Democratico, sfortunatamente, rappresenta le élite urbane costiere che sono più preoccupate di sorvegliare le varie questioni culturali che di migliorare lo stile di vita [della working class] che è in declino da anni” (12). Andrew Yang ha perfettamente ragione: basta rivedere il video dell’Inauguration Day del 20 gennaio scorso e prestare attenzione agli artisti che sono stati invitati a celebrarlo, per capire chi e cosa rappresenti oggi Joe Biden. Lady Gaga, dell’Upper West side di Manhattan, vestita in Schiapparelli Haute Couture, canta l’inno americano; Jennifer Lopez, latina del Bronx, in Chanel dalla testa ai piedi, canta This land is your land; Amanda Gorman, poetessa afroamericana giovane e bellissima di Los Angeles, recita The Hill We Climb avvolta nel suo cappottino Prada – casualmente, tutte e tre sono anche cattoliche come il nuovo presidente. Non è sorprendente che la working class vada da tutt’altra parte.
L’education divide e la whiteness
Il sistema educativo degli Stati Uniti è uno dei più diseguali nel mondo industrializzato, e gli studenti ricevono di norma opportunità di apprendimento drammaticamente diverse in base al loro status sociale. In contrasto con le nazioni europee e asiatiche che finanziano le scuole in modo centralizzato, il 10% più ricco dei distretti scolastici pubblici statunitensi spende quasi 10 volte di più del 10% più povero (13). In A century of educational inequality in the United States, Michelle Jackson e Brian Holzman della National Academy of Sciences of the United States of America hanno analizzato tutte le serie storiche di dati disponibili dal 1908 al 1995, dimostrando che le disuguaglianze nell’accesso a un’istruzione di qualità si sono sempre mosse di pari passo con le diseguaglianze di reddito (tranne durante la guerra del Vietnam, che ha penalizzato in modo maggiore i livelli di istruzione maschile) (14), il che significa non solo che sistemi iniqui di finanziamento scolastico infliggono un danno sproporzionato alle minoranze e agli studenti economicamente svantaggiati, ma che il sistema scolastico statunitense ha cancellato la mobilità sociale, l’essenza stessa dell’American Dream.
Su una base interstatale, queste generazioni di studenti sono concentrate principalmente negli Stati del Sud, che hanno le più basse capacità di finanziare l’istruzione pubblica, mentre su base intra-statale, molti degli Stati con le più ampie disparità nelle spese educative sono i grandi Stati industriali, fra cui Alabama, Arkansas, Illinois, Indiana, Iowa, Kansas, Kentucky, Louisiana, Michigan, Mississippi, North Carolina, Ohio, Oregon, Pennsylvania, South Carolina, Texas e Wisconsin. Inoltre, in diversi Stati gli studenti economicamente svantaggiati, bianchi e neri, sono concentrati nei distretti rurali. E questa, certo non a caso, è esattamente (o quasi) la geografia del voto per Trump.
I risultati finali di queste disuguaglianze educative sono sempre più tragici. Oggi più che mai nella storia degli USA, l’istruzione non è solo il biglietto per il successo economico, ma anche per la sopravvivenza di base. Mentre vent’anni fa chi abbandonava la scuola superiore aveva due possibilità su tre di trovare un lavoro, oggi ne ha meno di una su tre, e il lavoro che riesce a trovare paga meno della metà di allora. Chi non ha successo a scuola diventa parte di una crescente sottoclasse isolata dalla società produttiva. Inoltre, i giovani e gli adulti della working class, preparati per lavori che stanno scomparendo, vacillano sull’orlo della mobilità sociale verso il basso. Poiché l’economia non può più assorbire molti lavoratori non qualificati a salari decenti, la mancanza di istruzione è sempre più legata al crimine e alla dipendenza dal welfare (15). E se le condizioni delle minoranze di colore sono oggetto di interesse e preoccupazione e di politiche antidiscriminazione (certo in virtù del loro peso crescente nel sistema elettorale), i poveri bianchi sono in larga parte abbandonati a loro stessi, con la whiteness come unico motivo di orgoglio, quella whiteness che un tempo assicurava uno status e una vita dignitosa e che ora non serve più a niente.
In un’intervista a Le Figaro, lo scrittore e filosofo francese Pascal Bruckner analizza il successo delle teorie indigeniste e decoloniali di matrice statunitense, cioè le teorie americane del genere, della razza e dell’identità, che riconducono tutta la storia umana a queste tre dimensioni e che in sostanza descrivono l’uomo bianco come il responsabile di tutti i mali del mondo (16). Secondo Bruckner, nelle università e nei media sarebbe in atto “una vasta opera di rieducazione che esige che coloro che definiamo bianchi rinneghino se stessi […] L’odio del bianco è innanzitutto un odio di sé da parte del bianco privilegiato. Una sorta di spettacolare autoflagellazione nella quale egli compete con altri a chi si fustiga più violentemente”. Trump, per il maschio bianco americano, è l’emblema del contrario: egli ha in sé la sua ragione d’essere, non chiede scusa nemmeno quando sbaglia, e soprattutto non concede quando perde. Non stupisce che i suoi elettori più fedeli siano disposti a mettere a ferro e fuoco Washington per garantirgli un nuovo mandato. Lui li chiama ‘patrioti’, non ‘perdenti’, e restituisce loro quella dignità che hanno perso fra le macerie del sogno americano.
2) Cfr. https://www.theguardian.com/us-news/2020/nov/05/us-election-demographics-race-gender-age-biden-trump
3) Cfr. https://www.statista.com/statistics/1140011/number-votes-cast-us-presidential-elections/
5) La mediana è un valore statisticamente diversa dalla media: secondo il Census Bureau, nel 2016 il reddito familiare annuo mediano era di quasi 60.000 dollari, ma il valore cambia da uno Stato all’altro
6) Cfr. https://www.nytimes.com/interactive/2020/11/03/us/elections/exit-polls-president.html
7) Cfr. https://www.vox.com/2020/11/7/21551364/white-trump-voters-2020
8) Cfr. https://www.vox.com/2019/8/19/20807633/slavery-white-women-stephanie-jones-rogers-1619
10) Il sistema americano funziona, come è noto, sul sistema dei Grandi elettori: sono gli Stati, e non il popolo, a eleggere il Presidente. Questo significa che tutti gli Stati hanno diritto a una rappresentanza, a prescindere dal numero dei loro abitanti: di conseguenza, gli Stati meno popolati vengono in qualche modo ‘favoriti’ dalla costituzione a svantaggio degli Stati costieri
12) Ibidem
13) Cfr. https://www.brookings.edu/articles/unequal-opportunity-race-and-education/
14) Cfr. https://www.pnas.org/content/117/32/19108
15) Cfr. Inequality in Teaching and Schooling: How Opportunity Is Rationed to Students of Color in America, Linda Darling-Hammond, Stanford University School of Education https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK223640/