Dal carcere al lavoro passando per i Cie
Incontro dibattito sul tema “Lavoro, sfruttamento, precarietà, repressione, carcere”, dal saggio 41 bis, il carcere di cui non si parla (Maria Rita Prette, Sensibili alle foglie, collana Gli indicibili sociali), presso il Centro sociale Vittoria di Milano, 25 ottobre 2012
In questo Paese ci sono cose di cui nessuno vuole parlare, e una di queste è il 41 bis. Un ‘non detto’ per eccellenza, il carcere di cui non si discute, se non nell’unico modo con cui si possono raccontare gli ‘indicibili’, vale a dire attraverso narrazioni anche sconfortanti, ma sempre sostitutive. Sappiamo che la censura, da molti anni, dopo che Roland Barthes l’ha ben inquadrata, non funziona con il silenzio: un indicibile non è una cosa muta, è spesso qualcosa di cui si parla moltissimo, ma per raccontare un’altra storia.
In sintesi, il 41 bis è un articolo della riforma penitenziaria che oggi riguarda circa 700 persone. Alcuni obiettano che 700 persone su 63.000 detenuti sono una piccola minoranza, più o meno l’1%, quindi perché interessarsene? Altri affermano che, alla fin fine, queste 700 persone sono per la prevalenza, se non tutte, mafiose – e questo è un pregiudizio, non è vero, ma è un’idea diffusa – e quindi, di nuovo, perché interessarsene? Perché interessarsi del 41 bis e non di tutto il carcere, che vede 63.000 persone rinchiuse e, da un punto di vista dei diritti umani, tutte quante piuttosto maltrattate? (L’Italia è al settimo posto nella graduatoria dei 47 Paesi europei per la violazione dei diritti umani, e prevalentemente gli indici riguardano il carcere.) Perché, dunque? Perché il 41 bis, come vedremo, non è solo un regime carcerario ma è un dispositivo che può essere utilizzato come analizzatore della vita sociale.
Occorre fare una premessa.
Sappiamo che le cooperative hanno una lunga storia nel movimento dell’Ottocento e del Novecento, ma hanno un epilogo in quest’epoca piuttosto curioso: sono diventate, per la stragrande maggioranza, luoghi molto ambigui, all’interno dei quali prospera una figura particolare che è il caporale modernizzato. Non quindi la figura del caporale post unitario, il successore dei campieri, ma un nuovo tipo di caporalato che nel mondo capitalistico è venuto ad affermarsi con forza soprattutto dopo la legge 30, che ha autorizzato l’intermediazione della forza lavoro. Tutte le grandi strutture produttive di questo Paese, per esempio la Fiera del libro di Torino, la Fiera del mobile di Rho, la Fiera di Milano, oggi sono luoghi infestati dalla struttura del caporalato moderno, un caporalato che media la relazione con il lavoro presentando un volto accettabile e svolgendo una pratica violenta e inaccettabile; un caporalato che è fondato, in altri termini, sulla confisca e sulla sospensione dei diritti dei lavoratori, che vengono utilizzati per la valorizzazione del capitale e per la parte di valorizzazione che li riguarda.
Cosa c’entra il 41 bis con queste nuove figure del lavoro, cioè con queste nuove trasformazioni dei processi di valorizzazione? C’entra moltissimo, perché il dispositivo del 41 bis e il dispositivo del caporalato sono assolutamente identici: sono dispositivi che mettono bene in evidenza una forte tendenza, all’interno di questa società, verso il totalitarismo.
Uso questa parola nel senso vero del termine, che significa ‘potere totalitario’, un potere che non lascia spazi, che elimina completamente, nei coni di suo dominio, ogni possibilità di relazione. Siamo di fronte quindi a una tendenza verso una società totalitaria, nella quale però il termine non ci rimanda nel suo significato agli anni Trenta, al fascismo oppure al nazismo, non ci rimanda a quel totalitarismo ideologico gestito da una narrazione; siamo di fronte a un totalitarismo flessibile come è flessibile oggi il lavoro, un totalitarismo che appare e scompare, che è molto nascosto, che si presenta in alcuni luoghi, che sembra non ci sia da alcuna parte ma ecco, per esempio, spunta fuori dentro il carcere come 41 bis, nei Centri di identificazione ed espulsione, nelle figure del caporalato moderno alle fiere di Milano, Rho e Torino, si presenta come diktat di Marchionne alla Fiat di Pomigliano. Questi momenti non sono tra loro differenti, sono tutti caratterizzati dallo stesso dispositivo relazionale.
In questa analisi cercherò di mostrare qual è questo dispositivo, seguendo un percorso che pare paradossale e che utilizza l’istituto del 41 bis per guardare il dispositivo, usando un procedimento oggi desueto ma nobilitato da Marx nei famosi Grundrisse, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica – un libro importantissimo all’interno del quale Marx elabora una metodologia di lettura dei fatti sociali che mette insieme la profondità storica degli eventi e la orizzontalità, il modo in cui si presentano ai nostri occhi. Siamo infatti sempre un po’ affascinati dalle cose così come ci appaiono, ma queste cose hanno una storia, e per evitare di farne un’analisi storica e farne invece una genealogia, un po’ come ha fatto Foucault, occorre dotarsi di un certo tipo di strumenti, cioè partire dal presente e andare indietro fino al punto in cui l’evento o l’istituzione o il processo di cui ci interessiamo, iniziano, e poi ripercorrerne i passaggi per vedere i momenti di discontinuità. Sono le discontinuità a mostrare ciò che altrimenti è difficile vedere.
Il 41 bis ci porta molto indietro negli anni ma non negli eventi. Siamo nel 1931, in pieno fascismo, quando nelle carceri italiane entra in vigore la riforma di Alfredo Rocco, incentrata su due idee forza: la spersonalizzazione del detenuto – capelli a zero, divisa a strisce, ossia umiliazione della figura dell’umano – e ordine e disciplina, l’idea gerarchica del fascismo del controllo – se obbedisci sei una persona educata (Credere, obbedire, combattere), se disobbedisci sei una persona riprovevole. Il fascismo instaura quindi questa riforma carceraria, che io incontro personalmente nel 1974, quando finisco in carcere. Ma in quegli anni negli istituti penitenziari italiani è presente qualcos’altro oltre la riforma Rocco: c’è uno dei più vasti movimenti di lotta che abbiano attraversato l’Italia moderna, che è iniziato alla fine degli anni Sessanta, si è intrecciato alle lotte degli studenti e degli operai, ed è stato represso con una violenza sanguinaria assolutamente spaventosa – basti pensare che in un solo giorno il generale Dalla Chiesa, nel carcere di Alessandria, nel 1974, ha fatto sette morti; che un’organizzazione di detenuti, i Nap (Nuclei armati proletari), che poi ha allargato la sua influenza nella vita sociale soprattutto al sud e nel centro Italia, per le lotte legate al carcere aveva già avuto, nel 1974, sette militanti uccisi.
Quindi stiamo parlando di un movimento, che al di là della sua intensità e della sua lotta contro il carcere fascista, aveva seminato gli istituti penitenziari di intelligenza, cultura, organizzazione, sensibilità, e in tutte le carceri italiane l’ordine e la disciplina non passavano più attraverso ‘signorsì obbedisco’, ma diventavano dimensioni problematiche, messe in discussione del potere di quella istituzione. Ed è da questo fermento, da questa cultura materiale, da questa abnegazione, da questa tensione di centinaia e centinaia di persone, che è nata, nel 1975, la prima rottura con il carcere fascista: è del 1975, infatti, la riforma carceraria moderna.
Questo ci pone una prima grande domanda: perché dal 1945 al 1975, trent’anni, il carcere non è mai stato toccato dalle istituzioni italiane? Eppure anarchici, socialisti, comunisti, erano finiti in carcere durante la Resistenza; ma tutte queste persone, una volta uscite, non avevano fatto nulla. Perché quel dispositivo di potere arcaico precedente al ’45, che rimandava a un’epoca del tutto diversa, era ancora in piedi, nel ’75? Possiamo interrogarci su questo dilemma attraverso quello che si chiama uno spiazzamento: ossia non parliamo del carcere ma dell’università, e poi non parliamo dell’università ma del lavoro, nello stesso periodo.
Alla fine degli anni Sessanta, nelle università era ancora in vigore la riforma Gentile del 1923. Questo significa che il dispositivo che organizzava una delle più importanti istituzioni culturali di un Paese che voleva evolversi e svilupparsi, era lo stesso che il fascismo aveva dato a quella istituzione. E così nelle fabbriche, dove fino alla fine degli anni Sessanta ritroviamo i medesimi dispositivi di ordine, gerarchia, comando e caporalato in senso arcaico che avevano caratterizzato il periodo precedente.
Iniziamo dunque a vedere come i dispositivi di potere sopravvivano ai regimi, li attraversino a spizzichi e bocconi, non c’è più il fascismo ma ci sono i suoi dispositivi. Ed è chiaro come attraverso il 41 bis, attraverso il carcere, sia possibile guardare la società così come viene crescendo in quegli anni, perché i dispositivi impiegati nel carcere non solo non sono lontani dagli altri, ma addirittura, in taluni casi, possono aiutare a capire aspetti delle altre istituzioni che non sono stati compresi neppure oggi.
Nel ’75 entra quindi in vigore la riforma carceraria, e tutti tirano un sospiro di sollievo. Io ritorno in carcere alla fine del 1976, e scopro che questa nuova riforma è spaventosa. Mi mette di fronte un regolamento carcerario che tutti osannano come molto democratico, ma che contiene un articoletto, l’articolo 90, inserito in extremis, in fondo, che dice: nel caso in cui dei detenuti si mettano in testa di lottare, di movimentare la quiete dell’istituto carcerario, nei loro confronti è possibile sospendere la riforma. Vale a dire: ci sono dei diritti stabiliti da una legge, ma questi diritti valgono fino a quando nessuno li contrasta, perché se qualcuno all’interno del carcere li combatte, il diritto è sospeso. I diritti ci sono solo fi nché non c’è conflitto, questo è il punto.
L’articolo 90 introduce nella società italiana un dispositivo totalizzante, completamente nuovo, e un tema che oggi è oggetto di una riflessione profonda, anche filosofi ca, su che cosa sia la sospensione del diritto: la sospensione del diritto è il fondamento di tutte le dittature, è il principio, la possibilità di un potere di fare quello che vuole sui cittadini che sono sotto il suo dominio; sospendere il diritto è l’atto estremo del potere totalitario.
E se io trovo dentro una istituzione un dispositivo che consente la sospensione del diritto, devo chiedermi come mai, in questo Paese, c’è un così grande silenzio su questa questione.
Me lo chiedo e si ritorna a quel periodo, nel 1976-77, e allora non c’era affatto silenzio. Fino al ’79-80 tutte le carceri italiane sono state un fronte di lotta assoluto e totale contro l’articolo 90, io c’ero e posso dirlo. All’Asinara, a Trani, ma non solo negli speciali, anche nelle carceri normali, e non solo dentro le carceri, si attivarono gli avvocati di Soccorso Rosso e moltissimi giornali, intelligenti e forti, e non solo in Italia, anche in Germania, in Francia, in Spagna, ci sono state lotte culturali, politiche, di informazione, per far capire che cosa fosse l’articolo 90. Si è insomma creato un movimento talmente vasto che lo Stato ha dovuto prendere atto che era pericoloso mantenere in vita quell’articolo, e ha risolto la questione in un modo che possiamo definire tradizionale per la storia italiana: ha cambiato nome all’istituzione.
Nel 1986, una riforma della riforma sopprime l’articolo 90 e lo sostituisce con l’articolo 41 bis. Se si prendono i due testi, diventa chiaro che il dispositivo è lo stesso, con un’aggravante: mentre l’articolo 90 stabiliva che la validità della soppressione del diritto era limitata nel tempo, finché durava la lotta, e nello spazio, in quel carcere, con il 41 bis questa attenzione alle dimensioni locali e temporali sparisce completamente. La nuova legge afferma semplicemente che la sospensione del diritto è una cosa giusta da fare, talmente giusta che nell’arco di un paio d’anni, attraverso una serie di aggiustamenti legislativi, il 41 bis diventa un regime carcerario. E può diventarlo attraverso una nuova discontinuità, che ha due precedenti passaggi molto interessanti nei quali vediamo progredire la dimensione totalitaria.
Il primo avviene nel 1982, un anno particolare per l’Italia, un anno di confine.
Dopo le carceri speciali e le lotte contro l’articolo 90, lo Stato inventa i ‘braccetti della morte’, dove rinchiude coloro che, nonostante l’articolo 90, continuano a lottare. È chiaro che era una frontiera estrema, talmente estrema che anche all’interno del sistema politico italiano nasce una rifl essione che possiamo definire di delocalizzazione dell’intelligenza: ci si sposta da quel modulo, che sta portando a uno scontro mortale senza nessuna possibilità di via d’uscita, e si costruisce una legge a cavallo di un tentativo di introdurre la tortura. Il 1982 è l’anno del sequestro del generale Dozier, con i casi di tortura che, a distanza di quarant’anni, sono stati ufficialmente riconosciuti da parte del capo dei torturatori con dichiarazioni agli uffici interessati e alla stampa. Quindi oggi possiamo dire che, di fatto, la tortura è stata un momento del 1982, un momento estremo, ma non è questo che mi interessa sottolineare ora.
Il punto è: a che cosa è servita la tortura, in quel momento? A introdurre la legge a favore di chi si pente, che rompe il nesso tra il reato e la pena.
C’è di mezzo una collaborazione, c’è di mezzo l’identità: sei salvo se sposti la tua identità, se collabori – che significa mettere un altro al proprio posto, ossia puoi uscire dalla galera basta che ne fai entrare un altro, un po’ lo stesso discorso che fa Marchionne quando dice: reintegro gli operai iscritti alla Fiom, come mi ordina la magistratura, ma ne licenzio altrettanti.
Mettere un altro al proprio posto è un dispositivo perverso, terribile, totalitario, è il dispositivo su cui il nazismo ha costruito i campi di concentramento – moltissimi cittadini accusati di essere ebrei comperarono la loro impunità, basti ricordare la risiera di San Sabba, a Trieste, gestita da ricchi e facoltosi ebrei che fecero funzionare quei forni crematori dove gli ebrei poveri, non avendo i soldi per comprare la propria impunità, andarono a bruciare. Ed è su questo dispositivo che inizia a operare la legge sul pentimento, che libererà alcuni pentiti introducendo nell’ordinamento penitenziario questo nuovo dispositivo totalitario, che ci ritroviamo tuttora. Al punto che molti magistrati italiani ne chiedono oggi l’estremizzazione, una legge che dia la impunibilità totale a chi dà una collaborazione totale. Ed è interessante osservare come questo dispositivo poggi su di un principio mercantilistico: io compro e tu vendi. Non c’è più quindi la vecchia logica del periodo fascista, premi, punizioni ecc., ma entriamo in una nuova logica, che è una logica capitalistica, è la logica del mercato che entra nelle istituzioni, ne stravolge i vecchi dispositivi e ne deposita di nuovi.
Il secondo passaggio che porta il 41 bis a essere un regime carcerario riguarda lo sviluppo ulteriore della legge sui pentiti, ossia la legge per chi si dissocia. Una forma attenuata dello stesso principio, tuttavia particolarmente importante perché introduce una divisione all’interno dell’istituzione carceraria, creando due figure: il dissociato, che non si pente ma prende un altro andamento rispetto alle istituzioni e le leggi, e l’irriducibile. Ecco che viene costruita una categoria, chi non fa una cosa diventa irriducibile, chi non si adatta subisce una pena per il fatto di non essersi adattato. Irriducibile significa che una persona non avrà diritto alla riforma carceraria, che sarà fuori dal diritto perché è irriducibile.
Questo aspetto è fondamentale perché deposita all’interno dell’istituzione carceraria italiana un’area di irriducibilità che si misura con un’idea vaga, che è l’idea di pericolosità sociale; un concetto tuttora presente nella legislazione e che è stato inserito nel codice penale nel 1931, durante il fascismo. Come si fa a stabilire che una persona deve rimanere in carcere per molti anni ancora? Occorre stabile la sua pericolosità sociale. E come la si definisce? Chi la definisce? In Italia questa discussione ha avuto due corsi diversi, uno psichiatrico e uno civile. Quello psichiatrico – Lombroso, ecc. – non ci riguarda in questa sede, quello civile è molto interessante.
Il fascismo e il nazismo definirono socialmente pericolosi i pacifisti, perché erano contrari alla guerra: questo mostra come la definizione della pericolosità sociale non sia qualcosa che attiene a colui che viene definito, ma a colui che definisce. È un atto di imperio, che attraverso una parola denigratoria o connotativa, a un certo punto sostiene che quella persona è pericolosa socialmente, punto e basta; quella persona è un irriducibile, punto e basta. In Italia la connotazione di pericolosità sociale ha avuto vari destinatari, e ha accompagnato il dispositivo di sospensione del diritto.
Come abbiamo visto, prima c’è stata l’emergenza ‘terrorismo’ – da un certo momento in poi, perché fino al ’73, fino al compromesso storico, nessuno ci chiamava terroristi, anche perché si sarebbero dovuti definire ‘terroristi’ troppe persone in questo Paese, di troppe radici e ramificazioni sociali – poi è venuta l’emergenza sequestri, poi l’emergenza mafia, e via di seguito. Nei primi anni Novanta compare l’emergenza immigrazione, ed è un passaggio finale di trasformazione del dispositivo che è importante osservare.
Per la prima volta perdiamo completamente il confine carcerario. I centri di permanenza temporanea, oggi Cie, nuove istituzioni create sul dispositivo di sospensione del diritto, non sono infatti carceri, non ne hanno lo statuto e non possono esserlo, perché le persone che vi sono rinchiuse non hanno commesso alcun tipo di reato; sono campi di concentramento, tecnicamente non politicamente, perché all’interno di queste istituzioni finiscono persone indesiderabili. L’unica ragione per cui si ritrovano lì è perché il potere li ha definiti indesiderabili. Li ha connotati con un atto di imperio.
Tirando le fila, che cosa c’entrano dunque il campo di concentramento, il carcere, con il lavoro? C’entrano eccome. Perché il dispositivo di sospensione del diritto che sta alla base della creazione dei Cie, consente di togliere definitivamente i diritti a un’area sociale vastissima, e deposita in questo Paperese una sottoclasse di lavoratori senza diritti. Saranno quei lavoratori che troviamo alla Fiera di Torino, alla Fiera del mobile di Rho, alla Esselunga, nei servizi delocalizzati della Auchan, ovunque, fino nell’agenzia di pulizie al Corriere della sera.
Interessarsi del 41 bis significa quindi interessarsi di una modalità di istituzione di un totalitarismo flessibile, e nello stesso tempo usare questo dispositivo come specchio di tutti gli altri che incontriamo nella nostra vita quotidiana. Questo ci pone una domanda: fino a che punto siamo ancora disposti a tacere, a lasciare nel non detto questa particolarità della società italiana? È una domanda importante, perché se non risponderemo in fretta questi dispositivi, che già sono operanti, molto presto renderanno questo totalitarismo molto più indigesto anche nella nostra quotidianità.